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Recensione Natalia Ginzburg Romanzo pubblicato nel 1963 è la storia di una famiglia ebrea scritta in prima persona e costruita di soli materiali autobiografici, che si svolge a Torino fra gli anni Trenta e Cinquanta. Rievocazione nostalgica dei Levi, ebrei di origine triestina e con assoluto rispetto della verità e, per certi versi, mantenendo l’incanto della fanciullezza, l’autrice non solo ripercorre con la memoria le vicende dei suoi cari, ma ne fissa per sempre anche il linguaggio, i moti, le abitudini radicate, strumenti di coesione affettiva e di sopravvivenza attraverso le dolorose vicende di quegli anni. La famiglia Levi, che verrà dispersa dal flagello storico della guerra, è capace di riconoscersi proprio in virtù di un comune linguaggio fatto di “quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia: una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati”. Sostengono un ruolo primario in questo itinerario della memoria il padre Giuseppe, le cui urla e le cui risate riecheggiano nella casa. Egli è tenero e dispotico al tempo stesso: non tollera, a tavola, che s’intinga il pane nel sugo (gesti chiamati “potacci” o “sbrodeghezzi”); e mal sopporta i modi goffi e impacciati, da lui inesorabilmente definiti “negrigure”. Altro personaggio centrale e rilevante è la madre Lidia dal carattere lieto e svagato. Al ritratto di famiglia, scandito nei tratti intimistici del ricordo infantile, si connettono molti fra gli eventi e i nomi cruciali della cultura antifascista torinese. In primo piano Filippo Turati, di cui si offre un fantasioso ritratto; poi l’affettuosa presenza di Adriano Olivetti, che entrerà a far parte della famiglia sposando Paola, la sorella di Natalia; e poi Cesare Pavese, di cui l’autrice offre un commosso profilo che coglie la vulnerabilità e le debolezze dell’uomo e cerca di spiegare le ragioni del suicidio. E poi ancora Vittorio Foa, Felice Balbo, Anna Kuliscioff, Franco Rasetti, Felice Casorati, Eugenio Montale. Sulla famiglia si addensano ben presto le nubi di una tragedia storica che toccherà tutti i protagonisti: il padre e i fratelli, gli amici legati al gruppo antifascista di “Giustizia e Libertà”, Carlo Levi, i fratelli Rosselli che conoscono il carcere o il confino o l’esilio volontario. La Ginzburg non insiste sul lato drammatico degli accadimenti: li annota insieme allo svolgersi quotidiano degli eventi domestici, al ritmo della vita familiare. Le lacune volontarie del romanzo coincidono con i momenti in cui il racconto sfiora troppo da vicino vicende intime e drammatiche. Della breve vita di Leone Ginzburg, marito dell’autrice, arrestato nel 1943 e morto in carcere nel febbraio dell’anno successivo, si parla, per esempio, con reticenza e con timbro sommesso. Tentare anche solo un breve riassunto del “Lessico” non è semplice: è una storia che ruota su se stessa, proponendo, a brevi intervalli, lo stesso frasario, che a mano a mano conquista il lettore, col risultato di diventargli, alla fine, per l’appunto “Famigliare”. Come tanti altri scrittori, anche la Ginzburg è debitrice di Proust; nel 1937 tradusse, prima fra tutti in Italia, “Du cote de chez Swann”. Del resto, e il “Lessico” lo testimonia, Natalia conobbe fin da ragazzina il capolavoro di Proust, essendo, questo, oggetto di vivaci discussioni in seno alla famiglia. Effettivamente vi sono, fra la “Recherche” e il libro della Ginzburg, dei punti di contatto. Ecco il messaggio, inequivocabile, contenuto nel capolavoro della Ginzburg: i nostri genitori, i nostri fratelli, gli amici di allora sono i soli testimoni di quello che siamo stati e che ora non siamo più. E forse è proprio questo il segreto del libro,vincitore tra l’altro del premio Strega, che ottenne da subito un grande successo editoriale grazie, oltre alle numerose recensioni positive, anche e soprattutto al passaparola degli stessi lettori. Di gianpaolo.mazza
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