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Recensione Nico Orengo Una ragazza seduta in treno legge il suo libro giallo, ma le cose che legge le sono già accadute, le accadono, le accadranno. Un malaugurato narratore l’ha imprigionata in un libro, in quelle pagine che si vanno dipanando mentre si snoda la storia reale e, a questo punto, inevitabilmente parallela. Da una crepa, una fisica crepa, tanto reale quanto può esserlo il baratro di Alice, la ragazza entra in una dimensione in cui si annida una schiera di personaggi tutti autonomi, eppure tutti legati tra loro da quella che appare come una indiscutibile necessità narrativa. Così il lettore, il narratore, i personaggi, tutti finiscono per ritrovarsi in una logica che viola e stravolge le fondamentali regole del giallo: non più vittime, non più investigatori, non più rei, ma una colpa, un destino comune che non può essere risolto. La catarsi finale, continuamente rinviata, lascia il posto ad una parodistica e irrazionale quarta dimensione, nella quale il gioco combinatorio dei personaggi, dei misteri, dei sospetti, delle rivelazioni, esclude ogni soluzione che non sia il perpetuo rinnovarsi per giungere alla fissità di un rito, in cui il celebrante si sia immotivatamente nascosto. “E accaddero come figure” comincia là dove ogni giallo di consueto ha fine e, mentre recupera nella sua evidenza la struttura narrativa di quello, ne paralizza i congegni con predeterminata intenzione per proporne impreviste utilizzazioni, ne rivoluziona la rigorosa consequenzialità dell’azione attraverso insistiti ritorni o immotivati sviluppi, ne svela i meccanismi narrativi inventando le regole bizzarre e impreviste di un gioco niente affatto gratuito. Così prende forma un testo confuso e scialbo nel quale la trama gialla diventa sì finzione e ricerca di un romanzo parallelo in cui il lettore ha il compito ingrato e piacevole di avere coscienza della distanza che corre tra l’immagine e la realtà, ma lo fa in un modo che comprende solo l’autore. Di gianpaolo.mazza
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