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Recensione Silvana Grasso

Silvana Grasso

Disìo

"Disìo era altro che una parola in dialetto, intraducibile con desiderio voglia, come recitava qualsiasi vocabolario siciliano, ritenendone legittimamente soddisfatto il significato, che invece restava quasi esorcizzato, evocato solo dal sibilo della consonante sss che penetrava le carni come un coltello che ammòla la sua lama sorda e la fa fina, finafina, tagghienti. Era un marranzano per l’anima, disìo, un’invisibile viscera del suo turcìgghio, una ddraunàra nel feudo selvaggio del cuore che squetava e tramortiva."

Affonda nel grumo doloroso di un’adolescenza violata e ferita il disìo “soffocato ingigantito” di Memi Santelìa, la protagonista dai capelli “rossodiavuli” dell’ultimo romanzo di Silvana Grasso, edito da Rizzoli nell’agosto del 2005 (17,50). Colpevole persino di aver “rapinato la maternità quando ancora non aveva né occhi né mani nè spalle, quando non era che un riccio di cellule, senza peso né nome né storia”, Memi trascorre l’infanzia ad elemosinare l’amore di una madre ostile, ad espiare la “disubbidienza” di essere nata, ad invocare una “metamorfosi” che sradichi dal suo capo lo “spaventoso fucune” di quella capigliatura irriverente. A dispetto di ogni supplica la chioma lussureggia sempre più folta in un “amplesso di fiamme” ma Memi trova la forza di riemergere dall’ “infante nevrosi” che le corrode le viscere e la mente, abbandona l’afrore acre delle campagne siciliane, si trasferisce al nord, muta identità e dedica alla cura delle anime ‘lacerate’ la sua professione.

Trascorrono vent’anni prima che la dottoressa Ciane Santelìa, psichiatra, torni nell’isola richiamata al capezzale della madre agonizzante e proprio sulle movenze acuminate del muto, trenodico soliloquio interiore che in quella lunga veglia notturna la incatena alla sua carnefice, si modula l’esordio del romanzo. L’illusione che bastasse “il furto di un’anagrafe nuova” per “traslocare, senza fantasmi né pensieri, in una cuccia vuota, in un utero sterile per aborto di memoria” quasi ad “inventarsi una leggerezza ignota”, si infrange contro la fiumana di ricordi che, in una piena lutulenta e inarrestabile, le travolge mente e cuore coagulandosi nella grottesca immagine deformata del “fibroma di vetro azzurro ruttato dalla palpebra” del vecchio Chiaromonte, patetico sileno dall’occhio finto e dalle mani efebiche, da cui Memi aveva patito, bambina, la sua iniziazione sessuale.

Eppure proprio quella notte matura in lei per “uno spasimo dell’anima o un’epilessia della ragione” la decisione di lasciarsi nuovamente “risucchiare dallo scirocco della mezzacosta”, di sfidare i suoi spettri interiori come gli “inermi naviganti” sfidano i marosi dello stretto. Ma non è al fato di morte di Scilla e Cariddi che dovrà sottrarsi quanto alla Sicilia del malaffare, delle lobbies mafiose, della spietata tabe clientelare che appesta il mondo della sanità locale e vizia le procedure concorsuali, soprattutto quando, per un’imprevista falla nel sistema delle manipolazioni capziose, la “forestiera” Ciane Santelìa si trova a rivestire un ruolo di responsabilità in un centro di recupero per tossicodipendenti.

Sdegno e tenacia la scortano in questo percorso accidentato tra procuratori corrotti, medici conniventi, politici collusi virtuosisticamente esemplari, persino nella caratterizzazione fisiognomica, di una sorta di bestiario morale su cui spicca, per sordida abiezione, il direttore sanitario che l’anagrafe registra, in ossimorica irrisione, con il nome di Candido Dolcemascolo.

E a conferma di come l’eccentricità ideativa sia più consona alle corde narrative della Grasso rispetto all’urgenza cronachistica, si staglia al vertice di questa babelica piramide mafiosa un regista occulto, “estraneo per estranea genealogia di nascita” al ghenos malavitoso e tuttavia giunto, per quella paradossalità del destino tanto cara alla scrittrice, a governarne le fila. Emilio, detto l’Anima, tetraplegico, reso “carcassa insonora”, “pietraia di carne” da una fatale lesione al midollo cervicale è filosofo raffinato, cultore di musica lirica marchiato dalla strage di entrambi i genitori in modo indelebile come il ricordo del sangue materno “quagghiato” sul suo viso di bambino.

Nella eterodossa delineazione di questo personaggio ed ancor più nelle pagine che descrivono il suo unico contatto con la protagonista, la narrazione attinge ad esiti di felicità inventiva. E’ “l’attimo in cui l’anima disossa i sensi e vi stana disìo”, quel disìo di metamorfosi da se stessi, che in un momento epifanico condurrà Emilio alla tragica liberazione dalla zavorra reale e metaforica del suo corpo con una morte voluta e perpetrata, e per contrasto Ciane a “reintegrarsi in Memi”, a tornare al suo paese e finalmente “guardare gli occhi di sua madre pur nella piccola foto in maiolica al cimitero e saperlo, infine, s’erano color mostarda come i suoi”.

Come sempre accade nella produzione narrativa di Silvana Grasso, dall’ esordio con Nebbie di ddraunàra ed in modo via via più avvertito e consapevole con Il bastardo di Mautàna, L’albero di Giuda, sino alla Pupa di zucchero, la scrittura si carica di intensità interpretativa, di esibito spessore sperimentale somatizzando in un tessuto sintattico e linguistico dalla fitta tramatura dialettale, innervata di ascendenze classiche, sensazioni, colori, immagini sino alla più minuta venatura dei moti interiori, dalle sinuosità evocative alle virulente virate espressionistiche.

Ogni pagina di Disio, soprattutto laddove le vicende si radicano nel cuore della Sicilia ancestrale, nella selvatichezza stregata degli scenari naturali, si gonfia di rigoglio lessicale funambolico nelle iuncturae inedite, nell’esaltazione degli effetti di affabulazione fonica, allitterazioni, assonanze, iterazioni ritmiche in un groviglio inestricabile di aulico e prosaico:

"Tutt’intorno un serbaggiume di limoni e papaveri zingari tra la furia dell’erba, uno svenarsi d’acque in canaloni che allattavano cavoli cucùzze e lumìe, squarciando come lame di samurai la terra che aveva sete, sempre sete, e sucava acqua e fango e ne restava quartiàta ma integra, un gigantesco lievito di pane nero che al sole di mezzogiorno unchìava e squatrìava nelle sue carni d’effimera pasta. Sbuffi di trifoglio in ogni buca, in ogni crepa di muro, in ogni vagina di pozzo."

Altrove, quando la provocazione sociale cresce, l’oltranzismo stilistico si fa più sfrontato e le “escrescenze” tumorali dell’edilizia sanitaria ‘malata’ prendono corpo in metafore, neologismi, mescidazioni dialettali ardite:

"Di anno in anno pinnuliàvano, sminchiàvano o ramiàvano divisioni nuove e sofisticate […] orrendi fibromi in calcestruzzo gondolanti tra amputati o ingrassati arti in vetroresina, branchie e pinnàculi in cemento."

Più che nel prorompente empito di denuncia civile, la Sicilia di Silvana Grasso è in questa feracità ipertrofica della parola, nell’audacia trasgressiva che vuol fare della scrittura strumento di eversione ed insieme veicolo di rivalsa intellettuale.

Mito e storia, “necrosi” e “resurrezione” si contaminano e confliggono nella terra di Vulcano e Galatea dove può ancora “rinascere ogni cosa” se ancora ci ballano le Sirene, le notti di luna piena mentre all’orizzonte il “Cielo invagina nel Mare come un’aureola sulla testa d’un santo”.

Di flowerzones

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