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Recensione Menotti Lerro Ho conosciuto Menotti Lerro quando era poco meno di un adolescente: un bambino vivace e brillante, già incline alla riflessione, voglioso di dare la sua personale risposta a tutto ciò che lo circondava. Ricordo che a una mia domanda su cosa gli sarebbe piaciuto fare da grande, rispose: "il calciatore", sgranando fiero i suoi occhioni scuri dicendomi che la sua grande passione era il pallone. Credo che allora mai si sarebbe potuto immaginare di quanto lontano da quel mondo fosse il suo destino. Da quel giorno sono passati più di dieci anni ed ecco che per casuali circostanze lo rincontro a Milano. Io non lo avevo affatto riconosciuto ed è stato lui ad avvicinarsi a me chiedendomi sorridendo: "Mi sbaglio, o lei è il signor Orrel?" A quel punto ho capito che si trattava del piccolo Menotti; l'espressione del suo viso, in particolare dei suoi occhi, è rimasta la stessa: profonda, sognatrice, ironica... Ci siamo così seduti dinanzi al bar del Duomo e abbiamo bevuto due spremute d'arancia. Curioso, come sono, gli ho subito chiesto le ragioni della sua presenza nella città di Milano e il percorso che l'avesse condotto qui. Mi ha parlato così dei suoi studi, del fatto che il suo sogno nel cassetto consiste nell'insegnare, "nell'ambiente universitario” - dice - “poiché è l'unica sede dove i ragazzi ti ascoltano un po’ e dove la letteratura si può trattare in modo un pochino più seriamente..." Gli chiedo: "E il tuo desiderio di diventare calciatore?" Mi risponde che ormai è un po’ tardi ma, ironicamente, mi confida: “chissà che un giorno non diventi il presidente della mia squadra del cuore”. Allora mi accorgo che il bambino sognatore è ancora vivo in lui, seppur, come mi dirà in altre circostanze, ormai ha preso abbastanza coscienza del mondo per esserne deluso e per non farsi troppe illusioni. "La vita è dura, e lo è ancora di più per coloro che non hanno le spalle coperte... costretti ad imparare tutto sulla propria pelle..." mi dice, mentre sorseggia la sua bevanda, e improvvisa un’espressione malinconica vela i suoi occhi. Ma è un attimo e subito tutto torna come prima. E' per una semplice casualità che noto, tra i libri da lui poggiati sul tavolino, una piccola moleskine marroncina e d'istinto gli chiedo se vi appunta qualche verso o cosa. Arrossisce in tutto il viso e cordialmente me la mostra. Sulla copertina c'è scritto con un leggero pennarello nero "Pensieri di Menotti Lerro 2005" e leggendomi in viso, presumo, la mia evidente curiosità, m’invita ad aprirla. Resto subito colpito dai suoi versi semplici e profondi, dalle piccole cancellature su alcune parole sostituite da altre, dalla sua scrittura mutevole di pagina in pagina, di poesia in poesia, come se alcune fossero scritte di getto, altre più lentamente, ma sempre in linea con il peculiare contenuto di quel dato scritto. "Sono i pensieri che mi ha regalato questa città. Ne sto facendo un libricino, così da immortalarli per i posteri" afferma sorridendo… A quel punto mi parla ancora, ed in modo più approfondito, della sua passione per la letteratura, in particolare per la poesia, e scopro che ha già pubblicato due testi, uno dei quali contenenti anche vari tipi di prose. Gliene chiedo subito una copia di entrambi e mi promette di spedirmeli a breve. (Lo farà il giorno dopo). Ci siamo poi visti e rivisti più volte e una sera, mentre bevevamo il solito vino rosso, mi ha chiesto se volessi onorarlo scrivendogli l'introduzione ai suoi prossimi versi che sarebbero stati dati alle stampe di lì a poco. Gli ho risposto che l'onore sarebbe stato veramente mio, ma forse sarebbe stato più saggio affidare il tutto a ben più esperte mani. Ma lui ha insistito dicendo d’essere poco interessato alle introduzioni di poeti e critici che, seppur decantati, gli avevano dimostrato la loro pochezza di spirito sia come uomini sia come intellettuali. E allora ho capito che per il giovane Menotti essere poeta corrisponde anche a essere un grande uomo e che il successo - ammesso che, per i poeti, si possa parlare di successo - non è ciò a cui egli ambisce. Ma veniamo ora ai suoi versi. Confrontando questa raccolta con le due precedenti, salta subito all'occhio un cambio formale o meglio detto lessicale. In Ceppi Incerti ed in Passi di libertà silenziose, infatti, il linguaggio usato è scarno, pieno di parole prese dal quotidiano, ma ancora ricco di elementi classicheggianti, echi romantici ed ermetici, oltre che di un enorme uso di figure retoriche, in particolare d’ inversioni sintattiche che caratterizzano quasi tutti i suoi versi. Direi inoltre che in quei testi è evidente la volontà di dare delle risposte, di formulare delle accuse o sussurrare delle mancanze, delle assenze, come può essere quella di un'infanzia non proprio ideale o la perdita dell'amata nonna, e qui, in entrambi i casi, il dolore personale, dato da una specifica circostanza o da un fatto, è cercato di elevare a dolore universale. E così l'infanzia mal vissuta diventa l'infanzia di tutti i bambini più sfortunati del mondo e la morte della nonna diventa simbolo della morte di tutte le nonne, oltre che la volontà di dare una forma a un sentimento, a un pensiero, tramite l'espressione artistica. I suoi temi sono quelli della morte - spesso quello montaliano ed eliotiano della morte in vita -, della morte vista come mistero irrisolto e irrisolvibile, e della vita stessa che, osservata da altre angolazioni, potrebbe essere interpretata come una morte a sua volta. Evidente questo concetto quando afferma:
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