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Recensione Natalia Ginzburg Romanzo pubblicato a Torino nel 1952 per l’editore Einaudi, è la storia di due famiglie italiane, in un paese alle porte di Torino, legate da vincoli di affetto e di amicizia, che intrecciano le loro quotidiane vicende sullo sfondo degli ultimi anni del fascismo e della seconda guerra mondiale e che dalle tragiche esperienze di quegli anni saranno disperse e segnate profondamente. C’è chi passa le notti a complottare contro Mussolini e chi passa le giornate a godersi l’ultimo sole, c’è chi studia per diventare ragioniere e c’è chi scappa per andare militare, ci sono la bruttina sedotta e abbandonata, l’industriale che si scopre comunista, il partigiano che si vende alla politica. I piccoli problemi personali sembrano drammi e quelli epocali suonano deboli e lontani. Ma la guerra trasforma poi il mondo interiore dei protagonisti, attraverso una lenta e progressiva presa di coscienza della pena e della sofferenza umane. La chiusa e sonnolenta esistenza borghese dei personaggi maschili (Ippolito, che si ucciderà su una panchina per non fare la guerra, Emanuele, Giuma, Giustino, Danilo) e di quelli femminili (Concettina, Amalia, Anna), fatta di egoismi e di indifferenza, viene spazzata via dall’urgere di nuovi sentimenti, non più nati da una sterile osservazione di se stessi, ma maturati nel doloroso ricordo dei morti e delle sofferenze. Anche la felicità di ritrovarsi riuniti, a guerra finita, viene mitigata nei sopravvissuti dall’ansia di “pensare a tutti quelli che erano morti, e alla lunga guerra e al dolore e al clamore e alla lunga vita difficile che si trovavano adesso davanti e che era piena di tutte le cose che non sapevano fare”. In questo mondo sconvolto e violento che la guerra ha ricondotto alle più elementari paure e ai nudi problemi esistenziali, l’autrice ripropone il valore della dignità umana, oltre le più terribili esperienze di morte, nella figura dell’antifascista Cenzo Rena (in cui è adombrato Antonio Gramsci), che muore fucilato dai tedeschi, insieme all’amico ebreo Franz, nella piazza del suo paese mentre cerca di salvare alcuni ostaggi. Romanzo fitto di eventi e di personaggi, è affidato ad una voce narrante in terza persona, non rappresentata in quanto personaggio ma che si identifica con quello di Anna, una ragazza ingenua e apatica, che vive come “un piccolo insetto pigro e triste”. L’amore consumato con Giuma nell’adolescenza in modo squallido e inutile, il matrimonio con Cenzo, di trent’anni più vecchio di lei e poi il trasferimento in un paesino del Sud, sono gli eventi casuali di una vita predisposta all’inutilità e alla passività. Nella sua figura si concentra non tanto una vicenda privata, quanto l’insoddisfazione e l’angoscia di tutta una generazione, che nella rassegnazione e nella solitudine nasconde i propri turbamenti. Quasi privo di un tessuto dialogico, il romanzo riassorbe fatti e personaggi in un’affabulazione di taglio neorealistico, percorsa tuttavia da un tono elegiaco che smorza il racconto in un impasto descrittivo-evocativo. Forse il romanzo più riuscito della Ginzburg, di certo quello che meglio illumina la realtà storica e sociale dell’ultima guerra, quando ognuno era la scelta che faceva, ma in molti pensavano che si potesse anche non scegliere. Con una scrittura ricca e densa di umori ma sempre mirabilmente limpida, l’autrice ci restituisce il dettaglio vivo degli anni che cambiarono per sempre il nostro Paese, costruendo personaggi archetipici che si insinuano facilmente nelle nostre vite e rimangono come amici nella memoria: a volte tragici, a volte comici, a volte persino eroici. In una parola, veri. Di gianpaolo.mazza
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