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Recensione Natalia Ginzburg Romanzo scritto tra l’ottobre 1946 e il gennaio 1947 e pubblicato nello stesso ’47 da Einaudi. Narra la storia di una moglie che uccide il marito dopo una drammatica e umiliante vita in comune. La narrazione, che si apre e si chiude con lo sparo che uccide Alberto, si snoda su lunghissimi flash-back che, ricostruendo minuziosamente la vita della giovane protagonista prima e dopo il matrimonio, spiegano i motivi che l’hanno condotta al tragico gesto. L’incontro con Alberto ha cambiato radicalmente l’esistenza di un’insegnante di provincia, che vive in una modesta pensione e a cui nessuno prima si era mai interessato. Ella accetta il matrimonio, pur sapendo che l’uomo è da molti anni innamorato di Giovanna (a sua volta sposata e madre di un bambino) con cui intrattiene una relazione tormentata e dolorosa. Il fallimento familiare appare subito evidente ai due sposi, molto diversi tra loro e assolutamente incapaci di comunicare. Nemmeno la nascita di una figlia riesce a migliorare la situazione e a fermare le ripetute e prolungate “fughe” di Alberto e Giovanna. Ruotano intorno ai due protagonisti-chiave anche personaggi secondari ma non meno importanti dal punto di vista emozionale, quali Francesca, cugina della protagonista, di facili costumi e nauseata dagli uomini e Augusto, amico di Alberto, isolato e malinconico (anch’esso una volta innamorato di Giovanna). La situazione precipita tragicamente quando la piccola muore per una meningite: la giovane donna, disperata per la perdita della sua unica ragione di vita e di gioia, tenta un’ultima riconciliazione con il marito. Quando la loro vita insieme sembra, per la prima volta, ottenere risultati positivi, Alberto torna a pensare a Giovanna; all’annuncio di un ennesimo viaggio, lei prende la rivoltella che il marito tiene nel cassetto e gli spara “negli occhi”. Nel suo tono tragico, che l’autrice riproporrà solo in alcune situazioni della sua posteriore produzione teatrale, il romanzo risulta ben diverso da quello d’esordio, “La strada che va in città”, che si snodava in allegro, pur poggiando sul medesimo tema: l’impatto della Ragazza col mondo, il bisogno, l’imperativo di uscire dall’infanzia come ci si libera da un torpore e ci si disintossica da un veleno. Il linguaggio della Ginzburg risulta semplice e immediato, ridotto all’osso, ma nello stesso tempo indagatore e trivellatore dell’anima. Di gianpaolo.mazza
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