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Recensione Elio Vittorini Romanzo strutturalmente complesso, che ha impegnato a fondo lo scrittore nella stesura e nei rifacimenti, ha visto l’avvio della prima redazione con molta probabilità intorno agli ultimi mesi del 1946. Non tra le migliori opere di Vittorini, che stenta a decollare e se lo fa, lo fa con molta fatica intorno alla duecentesima pagina, il romanzo intreccia due storie che corrono parallelamente, con alcuni punti di raccordo. La prima è quella di un gruppo di sfollati che, all’indomani della Liberazione, si ritrovano fermi in prossimità di un villaggio semidistrutto ad una trentina di chilometri da Bologna, a causa di un guasto al camion che li sta trasportando. Alcuni di loro decidono di fermarsi e incominciano a sminare il terreno, a ricostruire le case, a seminare i campi, a raccogliere e rivendere residui bellici. Nella comunità che si è venuta costituendo vi sono alcune donne di Messina che caricano e scaricano mattoni, abituate a “portar pietre e calcina”. Fra i vari personaggi di questa comune (dai tipici soprannomi vittoriani, Fischio, Spine, Fazzoletto Rosso) vi è Faccia Cattiva/Ventura, un giovane ombroso che, dimostrando la sua determinazione, serietà e capacità di lavoro, riesce a conquistare l’affetto della giovane Siracusa e autorevolezza nella comunità. La vita del villaggio è scandita dai mezzi di trasporto (e si succedono così “l’età del carretto” e quella “del camion”) e dalle progressive e faticose conquiste. La seconda storia è quelladello Zio Agrippa, che percorre l’Italia passando da un treno all’altro alla ricerca della figlia e raccontando ai compagni di viaggio la sua vicenda. Ormai è un personaggio noto, molti viaggiatori lo hanno già incontrato o ne hanno sentito parlare e desiderano conoscerlo. E lo zio Agrippa è felice di questa “riunione” che trova sui treni. Incontra spesso un passeggero, Carlo il Calvo, per il quale prova particolare simpatia. Carlo gli racconta le vicende del villaggio, di cui segue, passo passo i progressi, recandosi spesso sul luogo con la sua motocicletta. Si capirà poi il perché di questo interessamento: egli è l’emissario dei proprietari dei terreni e delle case del paese che, ora, vorrebbero imporre un contratto di mezzadria ai nuovi abitanti. La seconda parte è incentrata sulle tensioni che nascono da questa proposta. Ventura si opporrà, pur sapendo, dato il suo passato di repubblichino, di essere ricattabile da Carlo. Carlo infatti segnala la sua presenza ad un gruppo di ex partigiani, che rinunciano ben presto a cercarlo, stanchi della sosta in quel villaggio dove non vi è né frigo, né coca-cola. L’arrivo dei “cacciatori”, la loro critica all’arretratezza delle scelte della comunità, la loro esaltazione della fabbrica, della città, della modernità, determina la disgregazione del gruppo. Pochi resteranno e accetteranno il compromesso con i proprietari (fra loro Ventura, ridotto, col passare degli anni, all’apatia, estromesso dalla “storia” e le donne di Messina). Nell’Epilogo Carlo racconta quasi con rammarico l’evoluzione del paese (anch’esso ormai inglobato nella civiltà dei consumi) e dei suoi abitanti ad uno zio Agrippa che ormai viaggia forse solo più per viaggiare e incontrare viaggiatori. Il romanzo è composito e discontinuo nei risultati, con cui l’autore cerca di realizzare un grande affresco corale mettendo in scena una molteplicità di storie e personaggi. Espediente tecnico più innovativo per portare sulla pagina questa pluralità di voci è il ricorso a un “Registro” della comunità che raccoglie anche la testimonianza-intervista degli abitanti. Nella parte prima Vittorini tenta di concretizzare il progetto utopico di una convivenza popolare-contadina, solidale e autonoma, nella parte seconda mostra il fallimento e l’arretratezza di quel tentativo di fronte al vincente sviluppo capitalistico-tecnologico, mentre nell’Epilogo mostra la consapevolezza dei vantaggi del progresso che si associa alla nostalgia per quell’energia utopica perduta. Di gianpaolo.mazza
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