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Recensione Carlo Grande Mario Rigoni Stern sulla “Cavalcata selvaggia”
giugno 2004
Negli anni del dopoguerra un amico padovano che nel 1941, in Nord Africa, era stato fatto prigioniero dagli inglesi, mi raccontava della sua lunga prigionia nei campi dell’India. Erano stati davvero lunghi quegli anni, molto di più dei miei venti mesi nel lager; anche perché nei casi della vita il tempo non ha i valori del calendario.
Mi raccontava del deserto libico, di marce, di sete, del viaggio nella stiva di una vecchia nave nel caldo dell’equatore. Anche delle montagne altissime e bianche che vedeva tra i reticolati dopo il passaggio dei monsoni. Quei monti sognati, per valli misteriose li raggiunse nella primavera del 1945.
Ora che non c’è più questi racconti me li riporta il libro di Carlo Grande: “La cavalcata selvaggia”.
Ho ritrovato quel loro tempo, il tempo dei nostri prigionieri lontani un mondo da casa, con le loro delusioni, le povere speranze, i dubbi. E l’oblio anche, quell’oblio nella sofferenza non straziante che i monsoni impastavano nell’anima con il fango e l’umidità, che solo un fugace sorriso di donna o il compassionevole sguardo di un vecchio indiano poteva attenuare.
Ma anche le montagne, le montagne immense e lontane, bianche. Un sogno di libertà che, finita la guerra con l’esplosione delle due atomiche sul Giappone, i prigionieri italiani, a piccoli gruppi, raggiunsero camminando per l’ignoto.
Il sogno della libertà, di Ulisse. Un libro da leggere, oggi, anche per capire la condizione umana.
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