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Recensione Elio Vittorini Romanzo breve, scritto nel 1946 e pubblicato nel gennaio 1947 presso Bompiani. L’esile vicenda, risolta con tono quasi da favola, è raccontata in prima persona dal figlio disoccupato di una famiglia operaia, che vive nel dopoguerra alla periferia di Milano e procede più per somma di monologhi e conversazioni che eventi. Dure le condizioni di vita della famiglia: sono disoccupati anche il secondo marito della madre (il “biondino”), la sorella e quindi tutti dipendono dal modesto stipendio del fratello Euclide che ripara biciclette. Domina la scena familiare il gigantesco nonno e la battuta “è come un elefante” scandisce tutta la partitura del libro. L’inerzia, la quasi immobilità, il silenzio del nonno si contrappongono all’attivismo, alla brusca e insieme fiera loquacità della figlia, che non perde occasione per lamentarsi dell’ingombro, della fame del genitore, ma anche per magnificare le sue leggendarie imprese lavorative: operaio al Frejus, al Sempione, nella costruzione di ponti, acquedotti, ferrovie. Poco lontano dalla casa riparano una strada: un operaio “dal muso di fumo” ogni giorno saluta il vecchio. Terminato il lavoro va a congedarsi dalla famiglia ed è invitato a pranzo: ma non c’è nulla da mangiare se non cicoria. La tavola viene apparecchiata comunque, con accuratezza e tutti fingono di mangiare una portata dietro l’altra: così i bambini, quando capiterà di poter mangiare, sapranno farlo, sentenzia la madre. Muso-di-fumo incomincia a parlare, offre loro vino e marroni caldi e con una loquacità e un’allegria via via tra il sognante e il disperato (ha la Tbc, forse un cancro), racconta della propria solitudine, dell’incomunicabilità, della pazienza e saggezza degli elefanti che quando sentono di essere di peso s’incamminano verso loro cimiteri segreti e lì attendono di morire, del suo sogno di fare l’incantatore di elefanti, e di cercare, sul suo zufolo, il motivo magico. Dopo aver suonato il suo motivo per il nonno, che batte sul tavolo, segnando il tempo, le sue dita impietrite da anni, Muso-di-Fumo se ne va; l’indomani verrà trovato morto davanti ai cancelli dell’ospedale. Il nonno invece riprende a parlare e chiede insistentemente che la figlia gli ripeta come muoiono gli elefanti. E un’alba si alza, da solo e va verso il bosco. Figlia e nipote lo vedono agitare, in segno di saluto, il bastone. Ma il gesto simbolico del nonno-elefante è accompagnato e ribaltato da una sorridente battuta della madre ai figli: “gli operai attraversano il parco per recarsi al lavoro. Lo incontreranno e ce lo riporteranno. Ma si sbizzarrisca, intanto!”. E’ un romanzo in cui non echeggiano colpi di pistola, ma solo colpi di affetti umani, di tristezza e di orgoglio, di ansia e di serenità, di persuasione e di resistenza. Vittorini orchestra gli interventi dei personaggi, con impeto e insieme con freschezza. Il suo linguaggio è realistico e lirico, ragionativi e simbolico, favolistica e metafisico. La sua narrazione ha sottigliezza ironica e forza visionaria e il suo mitico alone risulta indefinibile, irriducibile all’analisi. Di gianpaolo.mazza
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