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Recensione Claudia Manuela Turco

Claudia Manuela Turco

Recensione Brina Maurer di Claudia M. Turco

Brina Maurer di Claudia Manuela Turco (Bastogi Editrice Italiana, Foggia - 2005)


Il romanzo Brina Maurer è un’opera coraggiosa, di questi tempi eretica come lo è la morale, che cela tra la leggerezza di uno slang giovanile piacevolmente caustico (che s’ispira e aspira ai fasti dell’opera capolavoro Il Giovane Holden di Salinger), una fortissima critica alla “pornificazione” della società contemporanea.
È un romanzo psicologico in cui la pornografia è sondata nei risvolti più dannosi e malati che si annidano nella psiche occidentalizzata.
Non è la mera mercificazione fisica a ferire di più l’autrice (qui l’ideologia femminista è fuori luogo), l’atto volgare in sé vecchio come il mondo, bensì tutto ciò che l’infido e perverso falso spirito dell’uomo è riuscito a costruirci attorno (annose le diatribe tra l’arte come pornografia e la pornografia come arte) per giustificare la compulsività fortemente lesiva dell’entità-donna e per mascherare l’istinto di brutale pos-sesso imposto dal potere patriarcale culturalmente dominante.
C’è una sostanziale differenza di salute e igiene mentale tra la nudità aborigena (ho in mente La Foresta di Smeraldo di John Boorman) e il “calendarismo artistico” delle divette della porta accanto. È l’intenzione malata, prim’ancora dell’azione.
E la pornografia è lo stadio conclamato di una dipendenza patologica dal sesso (a titolo di esempio cito le ricerche del dottor Stanley Rachman, il quale ha dimostrato in laboratorio la tesi comportamentista riguardo alla condizionabilità di soggetti al feticismo, o le ricerche congiunte Bryant-Zillmann che dimostrano il legame direttamente proporzionale tra l’esposizione a filmati porno di crescente intensità violenta e l’accresciuto desiderio di ripetere in via imitativa i medesimi comportamenti, non necessariamente con soggetti consenzienti).
Questa svendita narciso-consumistico di corpi mediaticamente illusori (c’è chi vorrebbe farla apparire come un innocente risveglio di un non meglio precisato spirito adamitico-epicureo), si traduce invece in un perverso meccanismo che svilisce in primis la donna quale integrità sensibile paritetica all’uomo, mortificandola.
La differenza che intendo sottolineare sta nelle intenzioni luciferine (ricordando che per Baudelaire il miracolo del diavolo in questi anni è stato proprio quello di non farsi scorgere agli occhi dei più) che stanno dietro ad uno spirito voyeristico che non ha nulla a che spartire con un anelito naturista post repressione da moralismo cattolico.
Perché l’indignazione è così forte in Brina Maurer? Perché il punto di vista è quello di una ragazza traumatizzata in giovanissima età, oggetto di molestie nell’ambito della cerchia sacra della famiglia, non creduta, destabilizzata proprio nel suo punto d’appoggio.
E il pericolo che si vuol denunciare, già vegeto nella società, hic et nunc, è che menti poco acculturate alla sensibilità, cresciute nel lassismo intellettivo e nell’orgia di una morale cui è stato fatto lo scalpo, deraglino in un rapporto di causa-effetto prevedibile (quanto al contempo ignorato), generando deformazioni sociali come gli stupri di branco ad opera di ragazzini quindicenni, di cui avvertiamo con apprensione il drammatico proliferare.
C’è qualcosa di profondamente malato nel mondo d’oggi.
C’è un sottile filo nero di sangue e un puzzo d’obitorio nelle anime odierne, che vivono come gli Ombrati dei romanzi di Terry Brooks o come gli zombies di George Romero nella Notte dei morti viventi.
Un filo che lega l’ultraviolenza dei videogiochi elettronici, la cinematografia attuale (un florilegio di film in cui l’orrore psichico supera l’abominio immaginativo, e lo alimenta, e non è più l’horror paradossale e magari pure divertente dei B-movie degli anni ’70 e ’80), i telegiornali con la loro ansia malata di “penetrare sessualmente” il delitto fin nel midollo, per non parlare dei soldatini Italiani in Iraq che urlano di fronte alla telecamera, come decerebrati-invasati-os-sessi dinanzi ad uno sparatutto per Playstation (che invece era un uomo): «Annichiliscilo! Annichiliscilo!» (emblematica, al riguardo di quest’ultima fattispecie, la vergognosa omertà di tutti i salotti buoni della tv, sede di tuttologhi dalla coda di paglia).
È Brina, la figlia della pornostar Eleonora Sedolfi di Pirite a illuminarci e scuoterci con la sua frusta narrativa iniettandoci via endovenosa il contrasto tra le sue aspirazioni e il contesto in cui vive: «Ero assetata di purezza e di bellezza» stride, stride, esercito di unghie rabbiose su vetri scheggiati, con «Di quando lei, anziché occuparsi di sua figlia, se ne andava in giro per mezzo mondo a fare servizi fotografici ultrapagati, per sculettare in riva al mare mentre si strizzava le mammelle ridendo come un’oca? Magari in uno scenario tropicale con tanti altri seni sbandieranti al vento come sacchetti d’immondizia o pere cotte».
E la violenza, su Brina, ha molti aspetti e influssi: quella fisica non è la principale, l’elemento deflagrante è invece psicologico, è la coercizione violenta che ha subito nell’infanzia nell’esser stata immortalata nuda con i genitori “in pose artistiche”, sono le vibrazioni di disgusto che le penetrano l’anima ogni qual volta è costretta ad essere invasa da vibrazioni sgradevoli diffuse nell’ambiente dalle immagini ai video hard, dalle locandine ai calendari, di sua madre apostrofata in tutte le maniere in-concepibili, e dinanzi a lei invece, lusingata bavosamente come la Cleopatra dei bordelli più in auge, tipo “Fragolina Bum Bum”.
L’apice della molestia mentale è poi la drammatica conseguenza di un tale costrutto di pensiero, accettato dall’ipocrita utilitarismo mascolinocentrico che impera: l’orrore si realizza nell’atteggiamento offensivo e ammiccatorio, subdolamente viscido, del fotografo Liò Liù, personaggio che intende a ogni costo far spogliare Brina durante un provino, fingendosi innocente amico, arrogandosi la conoscenza di ciò che le donne vogliono, sentono, adorano fare o sentirsi dire.
Questo rende insicure le donne come Brina, donne di altre levature morali e orizzonti esistenziali, non omologate, non fatte in serie, non assuefatte a frivolezze goderecce: ciò che incute terrore in Brina è la minaccia che nasce nell’uomo volgare o instabile, proveniente dai reconditi anfratti, dalla stessa radice, della disistima animal-istintuale che unisce il toro alla sua vacca.
Sebbene dagli anni della commissione Nixon sulla pornografia (per non tacere della Meese Commission voluta da Reagan che ne ribaltò completamente le conclusioni, senza peraltro trascurare i contrasti in seno alle differenti correnti del movimento femminista americano), il dibattito in merito alla pornografia come patologia scatenante di possibili crimini o quantomeno oppiaceo creatore di dipendenza da sesso, sia quanto mai aperto e acceso, risulta evidente che se il 94% dei pazienti dello psicologo Victor Cline hanno dichiarato che la pornografia ha avuto su di loro un potere coercitivo e assuefacente e se da una recente indagine le giovani adolescenti londinesi aspirano per il 63% a fare le modelle, per il 25% considerano legittimo la professione di lapdancers e alcune credono sia un’onorevole e buona opportunità la carriera di pornostar, qualcosa sta effettivamente e in maniera pericolosa influenzando queste giovani generazioni “sempre connesse”, sempre esposte con le loro coscienze in formazione al contenuto degli 1,3 milioni di siti pornografici presenti in rete e a questa cultura di massa che discrimina le minoranze più sensibili.
La Turco dimostra di padroneggiare la critica e la dialettica di genere e, tra le righe brucianti di contrasti, trascina con maestrìa le coscienze spavalde e liberali nel suo mondo incontaminato di emozioni forti ma pulite, di riflessioni taglienti ma sacrosante, per trascendere sterili e ingenue guerre di statistiche contraffatte e supposte tesi ontologiche, per schiaffeggiare il torpore malsano dell’uomo con le sue urla di dolore, quelle per cui i singoli tragici casi valgono ben il prezzo da pagare per la restrizione come regola (e su questo converrebero certo anche i pornofili incalliti se assistessero impotenti allo stupro della propria moglie o figlia).
L’amore per i cani sarà la salvezza di Brina, quell’oasi biologica in cui trasmigrare la sua anima e il suo corpo offesi, la sua inguaribile fragile tenacia, quella rabbia poetica che la porterà sempre a fare le sue “brinate”, a cercare nelle brughiera il suo Heatcliff e a inseguire il circo acrobatico delle sue “spugnette rosse danzanti”, che non tradiscono.
Non prima però di culminare in un climax da autentico paradigma del teatro dell’assurdo, cimitero di maschere che fattesi vetri, cadranno in frantumi destando stupore.


Marco Baiotto

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