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Recensione Imre Kertesz Intervista
di Maria Serena Palieri, tratta da “l’Unità”, 6 settembre 2003
Fiasco è un romanzo che lei ha pubblicato a Budapest nel 1988. E la storia contiene, come in un gioco di scatole cinesi, il "fiasco" che l’Ungheria del socialismo reale aveva decretato per il precedente Essere senza destino, il romanzo sul lager, che lei aveva impiegato dieci anni a pubblicare e che aveva provocato la sua definitiva messa al bando. Ma qual è il "fiasco", la sconfitta, che narra più ampiamente?
È un romanzo che ho scritto sotto il regime comunista e il cui protagonista è un uomo che scrive sotto lo stesso regime. All’inizio è chiuso in una stanza piccolissima, cioè in una situazione come quella dell’epoca brezneviana, quando la vita era una pozzanghera di acqua stagnante. Ma il significato va oltre: ci sono due vie, una è quella dell’uomo che vuole creare se stesso e l’altra è quella dell’oppressione senza speranza che il regime impone. Chi opta per la prima, sceglie la libertà, ma incappa nella tragedia perché non è possibile agire basandosi su di essa. Il romanzo è, perciò, tragico: è la storia di Sisifo rivisitata alcuni decenni dopo il capolavoro di Albert Camus.
Lei ha sperimentato il nazismo e il regime sovietico. Qual è stato, nella sua esperienza, il nesso tra i due totalitarismi?
Dico sempre che il regime comunista, su di me, ha avuto l’effetto che la madeleine inzuppata nel tè ha avuto sulla memoria di Proust: ha sprigionato i sapori del passato. Cosa ho vissuto ad Auschwitz l’ho ricordato e capito nell’Ungheria comunista, specie dopo il fallimento della rivoluzione del 1956, quando ho visto come un popolo possa venire sottomesso e i suoi ideali possano essere distrutti. Come i moti dell’animo umano possano essere ritorti contro le stesse persone: allora la speranza diventò uno strumento del male e portò gli individui, passo dopo passo, ad accettare il totalitarismo. Il totalitarismo ti concede di sopravvivere solo se accetti le sue regole. Questa, a ben vedere, è stata la mia esperienza più tremenda. Di questo parlo nel mio nuovo romanzo che esce in Ungheria e in Germania a fine mese: il titolo in italiano significa Resa dei conti.
Lei ha spiegato che, ogni volta che immagina un nuovo romanzo, pensa ad Auschwitz. Perché?
Perché Auschwitz ha costituito la frattura etica più grande in duemila anni di storia europea. L’arte che non "sente" questa frattura non è arte, è solo intrattenimento di massa.
Da uomo sempre sotto scacco lei si è trasformato in premio Nobel. E intanto l’Ungheria è diventata un paese libero. Nel rileggere Fiasco in occasione dell’uscita in Italia, le è venuta la tentazione di un epilogo meno tragico?
Non ritocco mai quello che ho scritto. Quello che ho scritto sotto il comunismo è autentico tanto quanto ho scritto dopo. È cambiata solo la situazione. E questo si vede nel nuovo stile del mio nuovo romanzo.
Cosa racconta?
Si svolge negli anni del crollo del Muro, quando le persone sentono che il passato è scomparso e anche il presente si sta dissolvendo: gli intellettuali d’opposizione, in particolare, escono comunque perdenti, perché immaginavano un futuro diverso e vedono mancare il loro stesso ruolo. So che molti sono in disaccordo con me, ma io continuo a credere che non bisognasse approfittare neppure dei buchi di libertà che il totalitarismo concedeva. Nello scrivere Essere senza destino, il mio primo romanzo, sono stato attentissimo a non diventare in alcun modo noto prima di averlo finito, per non cedere ad alcun compromesso.
Ma vuol dire che anche oggi, nonostante tutto, regna l’Assurdo che lei ha saputo raccontare così bene?
La democrazia è un’assurdità non facile: chiede allo scrittore una responsabilità complessa, chiede il consenso. Ha lo stesso potere manipolatorio di altri sistemi, solo che sotto le dittature le persone si nascondono, mentre in democrazia non lo fanno volentieri. Ma dobbiamo stare attenti a non far manipolare il nostro, personale, segreto romanzo.
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