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Recensione Ugo Riccarelli Il secondo romanzo di Riccarelli pubblicato nel 1998 a distanza di tre anni dal suo esordio con “Le scarpe appese al cuore” certo non lascia indifferenti. Nel bene e nel male. E’ in apparenza tenero, trascinante, si legge d’un fiato. Ma dietro questa prima immagine in apparenza solida ecco celarsi un’insolita percezione di incompiutezza e disagio che traspare essenzialmente dal linguaggio narrativo. Un linguaggio a volte scarno, a volte saturo di significati troppo reconditi. La storia, ambientata nella cittadina di Drohobycz, in Polonia (oggi Ucraina), non decolla mai completamente. Dà l'impressione di staccarsi da terra da un momento all’altro, ma è un’ illusione. La storia rimane ben radicata a terra. La bottega dove una famiglia ebraica vende stoffe fa da sfondo alla vita dell’ultimo figlio, Bruno Schulz che, per evadere da un mondo che non sa come prendere, dipinge e scrive. Soprattutto sogna. I suoi sogni diventano il punto di riferimento di un’esistenza incerta e timorosa, in contrasto con il mondo esterno, quello in cui accadono le cose. E proprio il rapporto tra Bruno e il mondo esterno lascia il lettore senza parole, a volte senza respiro, senza alcun tipo di reazione, impotente, disarmato. Più interessanti e riuscite appaiono le vicende di una famiglia singolare, ricca di personaggi stravaganti: la forza psicologica e religiosa del padre mercante, il mutismo rassegnato della sorella Hania, la serva Danuta, paziente custode della casa, che riuscirà, lei sola, ad evadere da quell’ambiente angusto. E tanto per mettere altra carne al fuoco ecco i grandi eventi della storia, la Prima guerra mondiale, il crollo dell’Impero, l’arrivo dei nazisti. Tutti avvenimenti che si perdono nella indifferenza generale del personaggio Bruno che, bambino diventato uomo, continua ad essere posseduto dai suoi sogni e a vivere in una realtà immaginaria, lontana quindi dagli strazianti avvenimenti che sconvolgono un intero continente. Eppure il sogno non riuscirà a salvarlo e sarà la pallottola di un nazista a spegnere ogni illusione di libertà. Troppi gli argomenti che l’autore ha voluto toccare insieme perché riuscisse a portarli tutti a compimento. La storia di Bruno avrebbe forse brillato di una luce propria e più brillante senza scomodare grandi avvenimenti storici. Un’occasione persa, una capacità narrativa ineccepibile, certo, ma non sfruttata a pieno. Traspare dietro ad un’ apparente semplicità dell’intreccio una superbia intellettuale inutile e controproducente che poco o nulla può insegnarci. Di gianpaolo.mazza
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