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Recensione Elio Vittorini Nella Milano occupata dai nazisti, durante il mite inverno del ’44, un giovane comandante partigiano, nome di battaglia Enne 2, si interroga fra un’azione e l’altra sul senso del suo stare al mondo, sulla natura dell’essere umano, sull’amore impossibile che lo tormenta. La guerra, le bombe, gli attentati, i continui appuntamenti col destino non annullano la sua voglia di capire, di sentire, di amare: anzi, essa si insinua nella sua vita come una lama di doloroso rimpianto, come la testimonianza di una perdita che nell’inferno di quei tempi appare pressoché definitiva. La crisi di Enne 2 è una crisi silenziosa, quasi attonita; e se non arriva a impedirgli di agire, perché comunque le ragioni della guerra vincono su tutto, certo non gli consente di sentirsi un eroe, di credere fino in fondo in quello che fa, e di farlo credere a noi. Pubblicato nel 1945, scritto quasi in presa diretta con gli eventi che descrive, il romanzo è narrato in prima persona, ma presenta due differenti fisionomie di narratore che corrispondono all’alternanza di parti in tondo e in corsivo. Il primo è impersonale, tende a nascondere la sua presenza e affida lo svolgersi della storia a rapidissime battute di dialogo o a descrizioni sintetiche di azioni e pensieri dei personaggi, per dare risalto ai loro differenti punti di vista: ma il tessuto linguistico e ideologico è ossessivamente monologico. Il secondo narratore è fortemente intrusivo e autoconsapevole, il suo rivolgersi ad Enne è incalzante. Sono qui messe a confronto facce diverse della medesima personalità, prende forma un dibattito coscienziale immerso non di rado in una dimensione onirico-visionaria. Uomini e no è uno dei migliori frutti letterari della stagione della Resistenza. Il dialogo battente e invasivo, i frequenti ricorsi al parlato anche nelle parti narrate (caratteristica basilare della letteratura americana di cui Vittorini era grande conoscitore), la terribile nonchalance con cui si descrivono sparatorie, uccisioni, atrocità, conferiscono al romanzo un’aura del tutto singolare e affascinante di testimonianza e insieme esaltano, quasi fosse la risorsa estrema di un’umanità profondamente offesa, l’effusione discretamente lirica dell’io, di quella sua natura eterna che sopravvive comunque alle guerre, anche mentre le sta combattendo, anche mentre sta negando se stessa nell’uccidere un altro uomo. Dal buio del 1944, Vittorini ha saputo inviarci un messaggio di sofferta eticità, che continua a farci riflettere e a farci sentire migliori. Di gianpaolo.mazza
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