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Recensione Pietrangelo Buttafuoco

Pietrangelo Buttafuoco

LE UOVA DEL DRAGO

Dal punto di vista politico non ho niente da obiettare trovando più che legittima la scelta di campo di Buttafuoco, neanch’io riconosco primati morali o crediti di sorta ai liberatori o come li si voglia chiamare.
Dal punto di vista storico qualche perplessità mi deriva dal fatto che mi riesce difficile pensare che in Sicilia abbiano potuto verificarsi sia pur minime attività resistenziali. Ma siccome ho stima di Buttafuoco e so bene come anche la più piccola traccia di tali eventuali attività sia stata fatta sparire non insisto. Conosco l’indole dei miei connazionali e so quanto gioiosamente essi siano corsi in soccorso ai vincitori e come la mattina del 26 luglio si siano risvegliati tutti uno più antifascista dell’altro.
Dal punto di vista letterario ho trovato la narrazione carica come quelle madonne nei cui sacri veli il popolo devoto fa calca per appuntare ex voto, banconote e ogni genere di cose.
Perché molti campanelli qui il giovane autore, giunto con questo lavoro all’agognato battesimo del fuoco, meritoriamente e comprensibilmente ha voluto far suonare. Ha voluto dar fiato a tutte le voci che aveva in corpo e tender e far suonare le corde dei suoi antichi archi. Ha fatto bene, le voci fuori dal coro sono quelle che ci piacciono di più e il contro canto è il genere musicale che prediligiamo. Anche se è andato a finire che questa ridondanza e tutta questa sensualità (sì, proprio sensualità) abbiano tolto al racconto un po’ di asciuttezza e di regolarità (ma cos’è poi la regolarità?!).
Ma leggetevi il preambolo, ‘U cuntu, che è una sorta di pentagramma di brevi suoni che ad inizio del romanzo rintoccano per prepararci al suono della guerra, alla carneficina, alla lotta tra pochi giusti e valorosi e gli invasori che proromperà dalle pagine successive e vi persuaderete che Buttafuoco sa scrivere come vuole.
Si tratta di un libro scritto con molta passione e molta cura (oltre che coraggio, e Dio sa quanto ce ne voglia di coraggio oggi in quest’Italia “democratica, antifascista, nata dalla resistenza” (e morta di veltronismo) per scriver di queste cose. Il suo stile di scrittura è sensuale e sontuoso, il suo italiano quasi manzoniano e i prestiti dialettali, inevitabili quanto contenuti, risultano essere assai meno peregrini di quelli di Camilleri.
Un modo di scrivere arguto di sapide espressioni, con un parafrasare che ci dà la pronta misura del talento del giovane scrittore, come per esempio quando a pagina 175 del popolo dice che ”obbediva anch’esso tacendo, diceva signorsì alla gramigna, e all’occorrenza si nascondeva in campagna, nell’attesa della pace promessa, della prosperità così efficacemente annunciata dai bombardamenti”, con quell’accostare i bombardamenti alle promesse di pace e di prosperità che io trovo di un’impagabile perfidia.
Non voglio dilungarmi perché non è lecito discettare su quali debbano essere gli ingredienti che chi impasti letteratura debba usare e in quali dosi, però questo non perdere di vista l’ironia e la leggerezza neanche in mezzo alle faccende più truci a me pare che sia uno dei modi d’espressione più belli ed efficaci (esempio massimo Billy Wilder in “Stalag 17”)
Per dare sostanza alle mie parole m’avvarrò delle sue quando ci descrive una prostituta catanese che forse perché facilitata in ciò dalla sua professione prima degli altri e più degli altri aveva avvertito il nuovo vento che s’era messo a girare. Non è brevissima ma siccome l’ho trovata godibilissima mi prendo la briga di copiarvela affinché la leggiate.

“La donna – una ragazza, a guardarla meglio – stava facendosi largo fra le facce smunte dei popolani verso un carrarmato fermo in un canto della via Etnea. Appollaiati sui cingoli oziavano alcuni soldati inglesi, cui intendeva verosimilmente offrire il grasso grappolo d’uva che andava sventolando alto sopra la testa a mo’ di bandiera bianca.
Con quell’abitino blu trapunto di pois bianchi, la scarpine anch’esse bianche con gli oblò a far da orbite vuote sul collo del piede, le lussuose calze velate sulla generosa porzione di gambe liberata dal vestito, i capelli freschi di messa in piega , Concettina Rabbito, prostituta catanese di chiarissima fama nonostante i suoi vent’anni scarsi, dava di sé uno spettacolo vistosamente in contrasto rispetto a tutta quell’umanità rannicchiata nello spavento.
Davvero tabula rasa è la guerra, e le pie donne del popolo, che in altri giorni avrebbero calato sul passaggio della ragazza uno sguardo sdegnato, adesso le facevano rispettosa ala, la sorreggevano nella sua avanzata verso i conquistatori in armi, la sospingevano con sorrisi e cenni del capo perfino esagerati, come a dire: “Su, dai, avvicinati, conquistali tu”. [pagg. 101 e 102]

“La trovò che aveva tanto familiarizzato coi soldati da finire in cima al carrarmato per farsi fotografare, a turno, con ciascuno di loro. Tutt’intorno, i catanesi assistevano alla scena ancora indecisi su come comportarsi, su quanto potesse convenirgli accodarsi all’ambasciata di pace di quel grappolo d’uva, per giunta offerto da una buttana. Erano insomma nervosi. Gli inglesi no, erano rilassati: si mettevano in posa per la foto, con la smorfia soddisfatta di cui conquista terre e carne.
Finita la seduta la Rabbito, alta di calcagno, scese con gran mostra di cosce dal carrarmato. Eugenia le si accostò, la prese sottobraccio con un rapido sorriso a beneficio dei soldati che facevano ressa, e le chiese di intercedere con quei conquistatori perché si facessero carico del problema della vecchia.
Le puttane di virtù e vocazione son dette di cuore grande, e la signorina non venne meno al detto: fosse arte di melodramma la sua, o vera compassione, fatto sta che Concetta Rabbito rovinò a un tratto in un pianto così efficace da richiamare il comandante della compagnia in persona, cui d’altronde non pareva vero di sciogliersi dal necessario distacco fin lì mantenuto e di avere una buona scusa per muoversi a confidenza con la ragazza.
Senza smettere di singhiozzare, ma nondimeno sciabolando qua e là tratti di promettente sorriso, Concetta gli fece capire che non stava bene lasciare sotto le macerie quel povero cadaverino e abbandonare quella meschina di vecchia a far la veglia senza alcun conforto. E che solo i tedeschi e i fascisti sarebbero stati capaci di lasciar crepare di dolore una donna e negare l’eterno riposo a un bimbo.
Tanto disse Concettina Rabbito e tanta allegria promise, che alla fine gli inglesi fecero calare sul Tondo Giorni una pala meccanica.”. [pagg. 103 e 104].”.

Ma anche quando non si possono dir frivolezze, quando il discorso si fa serio, quando va a trattarsi di eventi tragici e di sofferenze Buttafuoco non è da meno; leggete cosa scrive a pagine 203 a proposito della nota inclinazione a delinquere di noi siciliani

“Per riassumere in un’immagine quel fatidico summit di due giorni nella villa di Magno basterà ricorrere alla felice metafora adottata qualche anno dopo da Aspano Pisciotta durante il celebre processo contro la banda di Montelepre; e, parafrasando il Giuda di Salvatore Giuliano, raffigurare i convenuti come dita di una mano: “Siamo la stessa mano noi, coi comunisti, la chiesa, i carabinieri e la mafia”.
Vero è che lì, affinché la mano fosse completa, mancava il quinto e più fragile dito, il mignolo rappresentato appunto da Pisciotta col “noi” del banditismo; ma le altre quattro dita c’erano tutte: il PCD’I, col suo principe e il suo bracciante; l’Arma con il suo colonnello; don Procopio per conto di santa romana chiesa; e infine la mafia, presente per contingenza storica e per contesto attraverso lo spontaneo sentire di tutti i convenuti”,

che a me par’essere una sorta d’impietoso esame del nostro DNA.

Il libro sta vendendo moltissimo (se non mi sbaglio sessantamila copie solo nei primi cinquanta giorni) e non c’è chi non lo abbia recensito.
Giulianone Ferrara che al solito suo si ci è buttato dentro con impeto e passione ha definito il romanzo un capolavoro (“favola massimalista, viva e da vivere, che cancella anche il residuo della narrativa minimalista”) e Buttafuoco un grande scrittore barocco che si è fatto romanziere (“un letterato, un mago ad alta temperatura della parola pensata e recitata e non un cannibale né un giovane scrittore col vizio dell’intimistica”). Il sulfureo Mughini addirittura ha gridato al Genio definendo “veemente” questo esordio letterario di Buttafuoco e “salsa linguistica barocca e sontuosa” il modo com’è scritto.
Luca Canali sulle colonne de L’Unità con la solita doppiezza dei comunisti ha scritto che “con le Uova del drago i Fascisti duri e puri si son fatta la loro Iliade” che a me par’essere un complimento un po’ troppo peloso, per poi soavemente aggiungere che il libro merita d’esser letto se non altro perché “suona a condanna di ogni guerra”. Ah, l’insopportabile panpacifismo dei comunisti d’oggi! Buttafuoco non condanna affatto ogni guerra! Pierangelo Buttafuoco condanna le guerre d’aggressione e quelle di finta liberazione, condanna “le volpi americane arrivate quando è scappato il lupo germanico per sostituirlo”, e quando ha pietà delle vittime le vittime son sempre poveri disgraziati o eroi della parte sbagliata.
Su La Repubblica Francesco Merlo, uno che deve sempre far vedere che arriva là dove gli altri non possono, ha stabilito che il libro “è più fascista di quanto fascista non sia lo stesso Buttafuoco” e anche questo è un modo abbastanza gratuito di sminuirlo o quantomeno sminuire il suo autore. Sulle colonne del Foglio Filippo La Porta ha parlato di “uova indigeste e fumettistiche”, mentre sul Manifesto Enzo Di Mauro ha definito “marce” le uova e (per i giudizi positivi o non negativi espressi) “collaborazionisti” Mughini e Canali, mentre su Liberazione Miriam Mafai in un crescendo terminologico che più che ai discorsi seri attiene all’influenza aviaria le ha definite addirittura repellenti. Ma si tratta solo propaganda partigiana, è evidente.

13/12/2005
Di razumichin

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