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Recensione Christian Mascheroni

Christian Mascheroni

Impronte di pioggia - Il primo capitolo

La ruvidezza del sale

Con un colpo secco, Eléna sbatte la porta e, accasciandosi sulle ginocchia, serra al petto la mano che ha chiuso fuori dalla sua vita il padre di Pioggia.

Pioggia ama sua madre.
Se mai sorgesse il dubbio, la risposta è facile, pensa, indolore. Amarla è una certezza genetica, non implica un giudizio. Non ora, almeno. Ciononostante lascia che lei scivoli su se stessa, al rallentatore. In realtà, se avesse mani grandi e forti, la sorreggerebbe, ma accade tutto troppo in fretta e nel dischiudere i pugni si accorge che le dita rimangono impigliate nei palmi. Nel pulsare sottile delle vene del collo e nell’urticante arrossamento delle guance, Pioggia legge il tracciato di un corpo che, crescendo, non gli permette più di controllarlo a suo piacimento. Che siano le cuciture del vestito rosso a sostenerla, allora! Che sia il dragone cinese stampato sulla gonna ad afferrarla con i denti aguzzi!
Ma proprio in quel momento, Eléna, davanti ai suoi occhi, affonda nelle pieghe della stoffa e si chiude in un ventaglio di arrendevolezza. Spaventato, non può far altro che buttarsi a terra dietro l’ombra di sua madre. Le afferra la vita stretta, la pelle aderisce ai fianchi. Appoggia la testa sulla sua schiena e ascolta il respiro, il cui riverbero sembra affievolirsi negli angoli bui della casa. È necessaria una cura, istantanea, che assorba le distanze fra le loro percezioni. Pioggia ha bisogno di un flusso magico, di un potere straordinario, quello imaginifico, e così, concentrandosi, si trasforma in un dottore. A compimento della sua miracolosa metamorfosi, ordina alle molecole dell’aria di avviluppare le sue cellule epiteliali e, in meno che non si dica, si trova a indossare un camice bianco. Le ultime esalazioni di magia lo aiutano a trasmutare il luccichio del sudore in uno stetoscopio nuovo di zecca. Infine, con sorprendente abilità, Pioggia fa aderire i guanti di lattice alle mani; l’emanazione salvifica dell’odore di talco. Prontamente, avvicina lo stetoscopio al cuore di sua madre, ma i battiti accelerano a una velocità incalcolabile; ora è impossibile comprendere a chi dei due appartengano. Pioggia preme i polsi contro le orecchie.
Un rumore assordante varca il suo corpo e raggiunge quello di sua madre, risuona nello spazio della loro incomunicabilità. Pioggia, spogliato del suo potere, alza lo sguardo e fissa la porta, oltre la quale si odono le scarpe di suo padre picchiettare sugli scalini. Per qualche secondo lo scalpiccio gli ricorda una sera di temporale quando, sigillato nell’automobile, lo aveva aspettato per più di mezzora prima che uscisse dal bar con una stecca di sigarette sotto braccio. La pioggia era scemata e le gocce d’acqua, precipitando dai rami frondosi degli alberi sul tettuccio, avevano reso l’attesa insostenibile, carica di elettricità e presagi. E ora, questo nuovo ticchettio possiede lo stesso doloroso e intenso scandire del tempo – gli eventi fuori e lui dentro. Pioggia ascolta in silenzio, il mento appoggiato alla spalla di Eléna.
Poi, il portone del condominio si apre, e con la stessa violenza dell’abbandono, viene sbattuto. I vetri tremano. Un’altra pausa, il frangente di un battito di ciglia. Non si ode più alcun rumore sugli scalini. I rami hanno smesso di gocciolare.


È il pomeriggio del primo giorno di un anno nuovo.
Pioggia ha le dita chiuse dentro la stoffa di un vestito da festa. Lo indossa Eléna, è sua madre, le ginocchia premute contro la bocca, gli occhi rossi, la ruvidezza del sale. Pioggia circonda il suo addome con le braccia, ma non ha la forza per raccoglierla in un abbraccio. Così, come può, le accarezza la testa, ma perdendo nel tremore l’identità del suo coraggio, all’improvviso, si stacca e, barcollando, si alza in piedi. È un gesto che non deve giustificare a nessuno, d’altronde è solo un bambino, e i bambini, almeno quelli del suo quartiere, sono tutti figli dell’irrazionalità.
Ha forse dovuto dare spiegazioni quando ha scavato una fossa nel mezzo del roseto per seppellire le tre ranocchie morte trovate sul ciglio della strada? Oppure quando ha svuotato la bottiglia di champagne di suo padre per realizzare un albergo di lusso per le formiche del cortile? Nessuno mai gli chiederà perché non sia riuscito a sollevare sua madre e a spegnere il suo pianto.
È solo un bambino.
Eléna si sposta una ciocca di capelli dal volto. Il suo sguardo non è rivolto al figlio, Dio quanto lo vorrebbe; invece è indirizzato verso il telefono. L’idea che non squilli entro pochi minuti la angoscia a tal punto da sgretolare la fragile ossatura dei suoi sensi.
Pioggia si accorge di non appartenere a quello stato di attesa e incomincia a correre verso le stanze dell’angusto appartamento. Vede di fronte a sé il centro di un universo illimitato, e contemporaneamente sconosciuto. A nove anni è consapevole di star solo attraversando, a piedi scalzi, un corridoio freddo e spoglio, ma tutto quanto sembra avere il sapore di un gioco eccitante e senza regole.
Ci sono ostacoli a sorpresa, semi di papavero che tracciano sentieri. Basta guardarsi attorno. I coriandoli, che sua madre ha realizzato forando vecchie riviste di moda, punteggiano la volta terrestre del salotto. Piccole schegge di un calice rotto occhieggiano dal pavimento. Nel lavello, l’acqua scroscia a cascata sui piatti melmosi. Sul vassoio, in cucina, è rimasto solo un uovo sodo tagliato a metà; occhio vigile e guardingo. Le stelle filanti pendono dal lampadario, attorcigliate come sinuosi serpenti dalle scaglie lucenti. Ci sono briciole che scricchioleranno sotto le scarpe per qualche giorno ancora: briciole di pane di segale, briciole di crostata alle ciliegie, briciole di pizzette e salatini al formaggio. Una dietro l’altra disegnano un percorso che conduce Pioggia alla porta socchiusa della camera da letto dei suoi genitori. Scavalca i vestiti buttati a terra, apre il cassetto del comodino di sua madre e incomincia a rovistare. È tardi, il cuore gli martella il petto, non ha più tempo. Butta sulle coperte tutto quello che trova. Il libretto degli assegni. La collana di biglie che le ha regalato per il suo ventottesimo compleanno. L’opuscolo sulla dieta agli agrumi. Un biglietto da visita accartocciato. Una fotografia di lei con Raoul, il padre di Pioggia, al ristorante del faro (occhi annacquati dalla birra, mani intrecciate sul tavolo di legno, il piatto con le lische di pesce, la cameriera di profilo che parla a un uomo corpulento).
Quando trova la cassetta dei successi dei Toto, un dolore acuto gli afferra le tempie; il suo piccolo corpo è una nave che imbarca l’acqua salata di un mare in tempesta. Si volta verso l’armadio dei vestiti di suo padre, dove si nascondeva dopo aver rubato monetine e caramelle al malto dalla tasca della giacca di pelle. Non c’è nulla da fare per le lacrime. Incominciano a sgorgare, a tracciare solchi lungo le guance arrossate. Stringe tra le mani l’unica possibilità che ha per far tornare Raoul.
La loro canzone. Il leitmotiv che li ha fatti ballare a ogni capodanno. Si precipita sullo stereo, infila la cassetta, preme i tasti a caso, il nastro scorre veloce, avanti, indietro. Non la trova. È troppo tardi, ripete a se stesso. Suo padre è già lontano, non potrebbe sentirla neppure se alzasse il volume al massimo.
E allora corre a ritroso, inciampando nei semi di papavero, nelle briciole che si disintegrano, nei serpenti che si accartocciano. Corre dalla madre, con la cassetta in mano, la vista annebbiata. Si butta in ginocchio, i legamenti scrocchiano, le afferra un braccio, non si accorge nemmeno che le sta facendo male.
«Come si chiama la canzone?» le grida in un orecchio. Nella penombra scorre i titoli in inglese. Le parole si mescolano, si sciolgono in una colata nera, una densa, oscura inquietudine che scivola sotto le palpebre.
«Come si chiama» grida ancora, a occhi socchiusi.

I Won’t Hold You Back, Pioggia

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