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Recensione Lawrence Block

Lawrence Block

Intervista

Lawrence Block è uno dei grandi interpreti della letteratura poliziesca americana. La sua bibliografia, che inizia alla fine degli anni Cinquanta e continua ad arricchirsi di nuovi titoli ogni anno, indica chiaramente come ci si trovi al cospetto di una figura storica. Tradotto in Europa fin dagli anni Sessanta, il suo Mona entrò già nel 1962 nella prestigiosa Série Noire di Marcel Duhamel, Block si è mosso con agilità tra i codici della letteratura di genere, alternando il thriller alla spy story e all'hard boiled, il poliziesco più muscolare e metropolitano che rappresenta lo scenario preferito delle storie del detective Matthew Scudder, senza alcun dubbio il suo personaggio di maggiore notorietà e successo. Abbiamo incontrato Lawrence Block nei giorni scorsi a Roma, dove è venuto a presentare il suo Le colpe dei padri, appena pubblicato da Fanucci.


Nato a Buffalo e cresciuto nell'Ohio, lei ha scelto di vivere dalla fine degli anni Cinquanta a New York. Subito dopo l'11 settembre ha scritto un romanzo, "Small Town", che racconta come i newyorkesi hanno attraversato quella tragedia. Cosa ha rappresentato tutto questo per uno scrittore che ha sempre "giocato" con le paure dei propri lettori e che si trova di fronte a un avvenimento così spaventoso da superare qualunque invenzione narrativa?

Scrivendo "Small Town" ho cercato di rispondere con gli strumenti che conosco meglio a quell'evento terribile. Non saprei rintracciare dentro di me le ragioni più profonde o le origini di quel romanzo, ma certo per me si è trattato di dare una risposta all'11 settembre. Sentivo il bisogno di scrivere di quanto era accaduto davanti a me, nella mia città. Non so se il fatto che la tragedia delle Twin Towers, la realtà, abbia superato l'immaginazione narrativa, potrà cambiare davvero il modo di pensare o di fare letteratura. Il processo creativo che è sempre alla base di un romanzo non credo che potrà cambiare per questo.

New York, anche prima dell'11 settembre, ha sempre rappresentato lo scenario favorito delle sue storie. Quanto, di quello che vede ogni giorno intorno a lei nelle strade di questa metropoli, finisce nei romanzi?

Io vivo a New York ed è quindi abbastanza naturale che la maggior parte delle mie storie siano ambientate in questa metropoli. Ho passato buona parte della mia vita in questa città che mi affascina ancora moltissimo e dalla quale traggo costantemente ispirazione. Credo che questo connubio tra vita e scrittura sia naturale, o almeno lo è per me. New York mi fa percepire un forte livello di energia, come se la città stessa fosse un concentrato di energia. Si tratta di una metropoli che gli europei, almeno quelli che vengono da grandi città come Roma, Parigi o Londra, trovano molto congeniale, come se si sentissero a casa, anche più di quanto accade per gli americani che arrivano invece dalla provincia. Mi interessa sottolineare questo aspetto, perché credo che questo elemento dell'"energia" accomuni tra loro le metropoli del pianeta. In ogni caso a New York si ha l'impressione che le cose avvengano più velocemente che altrove.

E quanto è cambiata la città nell'ultimo mezzo secolo, vale a dire da quando lei vive lì?

Ho l'impressione che i cambiamenti vissuti da New York in questi anni assomiglino a quelli che hanno vissuto molte grandi città del mondo. Non saprei cogliere gli elementi specifici della trasformazione della mia città, perché non so se ve ne sono stati in realtà. Negli ultimi vent'anni una cosa è senz'altro mutata: l'attenzione posta alla sicurezza dei cittadini, questo è sì un elemento che ha mutato un po' il modo di vivere in città. Vi faccio un esempio banale: un tempo quando andavo dal mio editore, in un grattacielo del centro, dovevo mostrare i documenti ai poliziotti di guardia. Oggi è molto più complicato, il tuo nome deve essere registrato prima e vieni "scortato" fino al piano dove devi andare.

In Europa si discute con sempre maggiore frequenza del fatto che la letteratura poliziesca possa rappresentare il modo più adeguato di raccontare la complessa realtà circostante di oggi. E in questa riflessione tornano spesso i riferimenti alla tradizione dell'hard boiled d'oltre oceano. Vista dagli Stati Uniti, come giudica questa analisi?

Credo che questa capacità di raccontare "il mondo" dipenda dal libro e dall'autore. Nel mio caso la scelta dello stile dell'hard bolied è soprattutto un mezzo per raccontare ciò che voglio, non necessariamente la realtà che mi circonda, ma anche quella. Quanto mi circonda ha sì un'importanza, ma nel mio caso è al processo creativo più intimo che presto maggiore attenzione. Diciamo, per essere chiari, che io parto da una storia che si sviluppa e cresce nella mia fantasia, nella mia immaginazione, me che, certo, deve essere conforme al mondo circostante. Raramente, invece, mi accade di fare il contrario.

Oltre all'osservazione diretta della realtà, lei, che ha studiato letteratura all'Università e che ha lavorato a lungo presso un importante editore newyorkese, sembra dare molta importanza alla formazione dello scrittore. E' così anche per gli autori di crime story?

Ho cominciato a scrivere racconti quando ero ragazzo: a diciott'anni scrivevo già delle storie per delle riviste letterarie e a ventuno ho pubblicato il mio primo romanzo. Prima di allora ho letto molto, soprattutto i grandi nomi della letteratura americana, ma non saprei trovare un riferimento particolare, come non lo saprei trovare negli studi che ho fatto. Quel che è certo è che questo lavoro non si improvvisa, ha bisogno di basi solide, di una vera formazione a differenza di quanto molti sembrano immaginare. Per quanto mi riguarda, io ho cominciato a scrivere negli anni Cinquanta e credo di essere stato influenzato nelle mie scelte dalla cultura americana dell'epoca e da quella del periodo tra le due guerre mondiali.

Il poliziesco è stato considerato per molto tempo come letteratura di genere, oggi sembra essere diventato una sorta di linguaggio universale, non disdegnato neppure dagli scrittori più noti. Per lei cosa è la crime story?

Personalmente ho una visione piuttosto ampia della letteratura di genere, della crime fiction o della detective novels che dirsivoglia. Credo si possa trattare anche di "letteratura alta". Del resto cosa erano le tragedie shakespiriane se non della crime fiction? L'"Amleto", ad esempio, è un grande poliziesco. No, per me non si può trattare di un genere da confinare negli angoli della narrativa, questa è vera letteratura.

Guido Caldiron - LIBERAZIONE – 03/02/2005



In inglese, Intervista audio con Lawrence Block.

Ascolta l'intervista da wiredforbooks.org

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