Carlo Michelstaedter, genio luminoso che brillò troppo poco
Pubblicato il 20-10-2010
Il 17 ottobre di cento anni addietro moriva suicida a Gorizia ad appena ventitré anni Carlo Michelstaedter multiforme genio italiano nato a Gorizia il 3 giugno del 1887. Fu un grande filosofo ma anche uno scrittore e un poeta (la sua poesia, influenzata dal tema "amore e morte" di Leopardi, era il prolungamento della sua visione tragica della vita). Disegnatore sensibile e pittore moderno, inseguì una «immagine irraggiungibile» (così ha scritto Antonella Gallarotti). La sua grandezza esplose dopo la sua morte prematura, perché tutti i suoi scritti sono stati pubblicati postumi.
Michelstaedter è venerato a Gorizia e conosciutissimo tra gli addetti ai lavori: la celebrazione del centenario si è svolta per tutto l'anno 2010 con incontri culturali e mostre che hanno coinvolto scuole e istituzioni goriziane (Università della Terza Età, Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei, Comune e Provincia, Associazione culturale èStoria, Associazione Docenti Italiani di Filosofia, Comunità Ebraica di Trieste, Libreria Editrice Goriziana, Fondazione Cassa di Risparmio, Biblioteca Statale Isontina e Teatro Verdi, Associazioni culturali Prologo ed Ex Border).
Ritengo, però, che Carlo Michelstaedter sia poco conosciuto al grande pubblico, e a questo articolo affido la memoria di un così straordinario ingegno, di un talento così creativo da divenire negli anni un emblema di antiretorica e un'icona di giovinezza pura e incontaminata seppur tragica.
Nacque, ultimogenito di quattro figli, da una benestante famiglia israelita. Il padre, colto e laico, era un tipico rappresentante della borghesia ottocentesca attratto dai canoni dell’Impero austro-ungarico e lo educò con severità. Ben presto Carlo s'interessò alla metafisica, discutendone vivacemente con il suo professore di filosofia e con l'amico Enrico Mreule che gli fece leggere "Il mondo come volontà e rappresentazione" di Arthur Schopenhauer, che tanta influenza ebbe sulla sua speculazione filosofica. Amò il Vangelo, Platone, Leopardi, Tolstoj e il nordico Ibsen (al quale si sentiva particolarmente affine per la rigidità della formazione educativa, e del quale scrisse alla madre: «Dopo Sofocle, è l'artista che più m'è penetrato e m'ha assorbito»). S'iscrisse prima in Matematica presso l'Università di Vienna, poi a Lettere nell'Istituto di Studi Superiori di Firenze, città in cui visse per quasi quattro anni (vi conobbe Gaetano Chiavacci, il curatore di molte sue opere pubblicate nel 1958 dalla Sansoni), dedicandosi anche al disegno e alla pittura. In questo periodo, iniziò a scrivere in modo compulsivo sia testi letterari e filosofici, sia lettere agli amici e alla sorella Paula, manifestando un grande male di vivere (in una poesia aveva scritto: «Non ha sole la mia giovinezza, non conta gli anni il mio core / l'anima mia dolorosa non sa le primavere»). Nel 1907 si tolse la vita la donna amata Nadia Baraden, e un anno prima della sua morte morì tragicamente per un incidente (forse un suicidio) il fratello più grande Gino, emigrato a New York. Il suo destino sembrava segnato da quest'atto tremendo e definitivo che non poteva non coinvolgerlo (ne "Il dialogo della salute" aveva scritto: «E con la crudele, abituale sincerità verso se stesso, esamina il proprio intento, lo analizza, quindi con calma e ragionata risoluzione si uccide restituendo alla madre terra le energie che in lui combattono inutili.»); si fece dare da un amico che meditava il suicidio la sua pistola e prese a portarla sempre con sé. Negli ultimi due anni di vita si dedicò allo strenuo lavoro sulla tesi di laurea, che riguardava la persuasione e la retorica in Platone e Aristotele. Iniziarono, intanto, gravi sofferenze esistenziali che lo portarono a un isolamento quasi mistico, a un rifiuto di eventi mondani e comodità e a gravi restrizioni alimentari (aveva scritto: «non c'è premio, non c'è posa, la vita è tutta una dura cosa»). Il 17 ottobre 1910, dopo un litigio familiare, prese l'inseparabile pistola e si tolse la vita (sulla copertina della tesi, aveva scritto in greco «io mi spensi»). Venne sepolto nel cimitero ebraico di Rožna dolina, oggi nel comune sloveno di Nova Gorica nei pressi del confine italiano (in occasione del centenario è previsto un intervento di restauro per le tombe di Carlo Michelstaedter">Carlo Michelstaedter">Carlo Michelstaedter e dei suoi familiari).
Dopo la sua morte, per il desiderio di condividere con gli altri la sua originale personalità, amici e parenti iniziarono a studiare tutte le sue carte inedite e a pubblicare le sue numerose opere e il suo epistolario ricco di ben 200 lettere (uno tra i curatori più appassionati è stato Sergio Campailla). Tra i suoi testi più importanti sono da ricordare "La persuasione e la rettorica", "Le Poesie", gli "Scritti su Platone" e "I dialoghi", tra i quali è notevole soprattutto "Il Dialogo della salute".
In questi ultimi trent'anni sono state pubblicate diverse biografie e hanno visto la luce numerosi studi critici che lo concernono. Fu definito: «il Buddha dell'occidente» (E. Mreule), «il maestro del deserto» (A. Acciani) - aveva scritto Michelstaedter: «l'uomo è solo nel deserto, e deve creare tutto da sé: dio e patria e famiglia e l'acqua e il pane» - , «il filosofo del nulla e della folle speranza» (N. Cinquetti), «il filosofo del frammento» (D. De Leo), «il filosofo della persuasione dell'impersuadibilità» (P. Colotti), «il filosofo di una filosofia oscura» (F. Innella), «il filosofo nichilista» (C. La Rocca), «l'imperfetto pessimista» senza mondo e senza Dio (G. Pulina), e «il filosofo dell'intensità... un maestro occulto del pensiero contemporaneo» (A. Marroni). Giuseppe Auteri ha parlato di «metafisica dell'inganno», Licia Semeraro invece di «svuotamento del futuro», Laura Furlan ha precisato il suo «essere straniero» da parte di un moderno intellettuale, Angela Michelis ha individuato «il coraggio dell'impossibile», Paolo Pulcina ha esplorato «l'illusione della retorica e le ragioni del suicidio», mentre per Sergio Campailla era un individuo «a ferri corti con la vita».
Si ritiene che in Michelstaedter abbia prevalso la volontà di vivere, ispirata dal desiderio di un altro modo e di un altro luogo metafisico, insieme all'irrequieta esplorazione di nuovi mezzi espressivi (Giuseppe D'acunto ha parlato di «parola nuova»), allo studio dell'essenza del pensiero occidentale, alla nostalgia del mondo pre-socratico (che ne fa un discepolo di Schopenhauer), alla "persuasione" (intesa come visione dell'uomo che ha compreso che l'essere è finitezza) e alla consapevolezza tragica che lo costringe ad abbandonare ogni illusione di sicurezza e di conforto (e in ciò potrebbe forse considerarsi anche allievo di Nietzsche), alla convinzione che niente conta e che «non c'è niente da aspettare, niente da temere, né dagli altri uomini né dalle cose». E infine al centro del suo pensiero esiste l'idea che con il piacere s'incontra il dolore e con la vita si sperimenta la morte (aveva scritto in una poesia: «Vita, morte / la vita nella morte / morte vita /
la morte nella vita. / Noi col filo / col filo della vita / nostra sorte / filammo a questa morte»; aveva anche detto: «Chi teme la morte è già morto... Solo nella morte avrà la libertà»). Ed è la paura della morte che spinge l'uomo a rifugiarsi nelle false certezze di una vita non autentica, e la paura della morte altro non è che paura della vita che nasce insieme all'uomo, in quanto essere destinato alla morte. L'uomo soggiace alla «jiloyucia», all'attaccamento alla vita (a quello che Michelstaedter chiama «il dio del piacere»), ed è convinto che nella soddisfazione di tutti i piaceri potrà raggiungere una felicità da paradiso terrestre; ma è impossibile soddisfarli tutti perché essi sono infiniti, e soltanto la morte può realizzare l'Assoluto, rappresentando la negazione della finitezza, dei bisogni e dei piaceri (la paura della morte spesso è l'unico motivo per il quale si vive). Il filosofo, l'uomo superiore, non teme la morte e non la sceglie ma superandola e vivendo con la stessa intensità ogni attimo della sua vita riesce ad andare oltre la morte; però il saggio non teorizza il suicidio (la scelta della morte), giacché se essa niente toglie, non può neanche dare niente). Scrisse Emilio Cecchi: «Nel suo frenetico orgoglio intellettuale, nella sua fame di assoluto, nell'appassionata violenza dei suoi ventitré anni, Michelstaedter aveva finito col comporre di sé un audace modello di stoicismo filosofico; aveva creato se stesso come una sorta di mito eroico, e lo vagheggiava e lo perfezionava; finché non poté più sopportare che il suo carnale io vivente non s'identificasse con l'altro, con l'io del mito. Inseguendo questo si trovò alla morte.».
Di Silvia Iannello
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