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Biografia Pino Puglisi
Pino Puglisi
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I ragazzotti lo prendevano in giro, e lui ci stava. Gli affibbiarono il nomignolo «3P» (Pino Puglisi Parroco), e lui se ne appropriò firmando biglietti e lettere allo stesso modo. Mimarono alla sua entrata in scuola la favola di Cappuccetto Rosso: il prete ha bocca grande (e l’aveva) per meglio divorarci, ha mani grandi (e le aveva) per picchiarci meglio, ha piedi grandi (e li aveva) per meglio prenderci a pedate. Lui ci rise di gusto, e aggiunse: «Avete dimenticato la mia pelata grande, per illuminare gli ignoranti!». E risero tutti insieme. Ma quando cominciava a insegnare religione, allora più nessuno scherzava. Parlava piano, cercando con difficoltà le parole giuste. Sembrava che nell’universo, per lui, esistessero solo i suoi alunni. Cercava veramente di comunicare loro ciò che era la luce e la sostanza della sua vita, con lucidità, con ordine perfetto, con una carica di entusiasmo contenuto che andava ben più lontano e più in alto del testo (che del resto usava molto poco). Comunicava le sue certezze, quello per cui viveva, per cui rischiava la vita ogni giorno, nel quartiere Brancaccio di Palermo. «L’ho conosciuto tra i banchi all’ora di religione - testimonia Francesco Deliziosi, che poi diventerà suo biografo con un libro coraggioso e documentatissimo -. Prima di lui entrava il suo sorriso. Entrava in classe infreddolito nel suo immutabile, logoro giubbotto blu. Non l’ho mai visto con un cappotto. Sotto le sue ali siamo cresciuti io e Maria, la compagna di classe che è divenuta mia moglie». A Brancaccio c’era nato, don Puglisi, nel 1937. Suo padre Carmelo faceva il calzolaio e sua madre Giuseppina la sarta, nella zona più povera di Palermo. Lungo la via del mare, Pino incontrava la chiesa di san Giovanni Bosco. Nel 1950 conosce il vecchio parroco don Calogero. Ricordava: «Era un uomo di grande cultura. Dimostrava una libertà di pensiero non comune, soprattutto per quanto riguardava l’indipendenza della chiesa dai politici. Cacciò via a male parole, sotto i miei occhi, un galoppino elettorale che gli offriva un ricco assegno in cambio di un appoggio al suo deputato. Era amico del grande don Sturzo, aveva aiutato a costruire le casse rurali per sostenere i contadini. Oltreché parroco era professore di greco e latino al liceo Gonzaga di Palermo». IL SACCO DI PALERMO Don Calogero lo preparò al seminario, dove Pino fu ordinato sacerdote il 2 luglio 1960. La prima nomina lo manda vice-parroco a Settecannoli, limitrofo a Brancaccio e rettore della chiesa di san Giovanni dei Lebbrosi. Da lì don Pino assiste al «sacco di Palermo», cioè allo stravolgimento della città, lasciata senza piano regolatore per vent’anni. Scrive Deliziosi: «II centro storico fu svuotato a forza, le radici culturali di un popolo sepolte tra crolli e macerie. I poveri furono portati nei casermoni-dormitorio, la borghesia si trasferì nei nuovi quartieri residenziali, costruiti grazie a licenze edilizie consegnate a raffica e con una densità mai viste di edifici multipiano, acciaio e cemento. Finirono in cancrena non solo il cuore della città vecchia ma la Conca d’Oro e l’intera costa orientale, trasformata da stazione balneare in fognatura a cielo aperto». In quella zona dov’era nato, don Pino mise la sua tenda tra gli ultimi. Abitò in un ammasso di case popolari senza strade asfaltate e senza luce. Poi si trasferì in una bidonville di baracche di legno e di lamiera. E, naturalmente, appoggiò ogni battaglia per i diritti civili della gente, si unì alle proteste che sfilavano in strada, le assemblee le ospitò nella sua chiesa. Accettò le telecamere della tv, diede interviste ai giornali portando i giornalisti sui luoghi del «sacco di Palermo». Fu quindi accusato di essere un «prete rosso». Cominciarono le accuse dei benpensanti: «I panni sporchi si lavano in casa, non alla televisione»; «È ora che la smetta di farci fare brutta figura davanti a tutta l’Italia». Nel 1967 per il «viceparroco scomodo» Pino Puglisi cominciano i trasferimenti. Cappellano presso l’Istituto per orfani di lavoratori Roosevelt, parroco di Godrano, un piccolo paese arrampicato su un cocuzzolo di montagna. RICHIAMATO DAL CARDINALE Nel 1977 a Palermo è cardinale Salvatore Pappalardo, che nomina don Pino direttore spirituale del Seminario maggiore. È come dirgli: «Forma dei preti come te». Il 29 settembre 1990 (a 53 anni) è parroco a Brancaccio, e rimane direttore spirituale del Seminario. Don Pino continua a Palermo la vita dei poveri. Indossa maglietta e pantaloni recuperati alla San Vincenzo. Regala tutto il suo tempo agli altri, non ha conto in banca, ha le tasche vuote e la casa (popolare) con lo scaldabagno rotto e i rubinetti che schizzano acqua dappertutto. Ma ha la parete occupata da uno scaffale pieno di libri, e il tempo che riesce a rubare al sonno lo passa a pregare e a studiare. Nel gennaio 1992, al «Centro diocesano vocazioni» espone una lucida analisi del luogo e della situazione: «La borgata rurale di Brancaccio aveva tremila persone, oggi sono ottomila. Non esiste una scuola media... Il primo strato sociale è costituito dagli antichi abitanti nati nella zona. Hanno venduto i campi e gli agrumeti, e abitano in palazzi nuovi. Sono agiati... Lo strato più miserabile è formato da famiglie di sfrattati che vivono in una zona posta tra due passaggi a livello. Si vive in catoi, baracche-fantasia affittate per pochissimo. Povertà materiale e morale che fa paura: il bene e il male si stabiliscono in base alle necessità e alla situazione del momento. Non si riconosce nessuna dignità, né propria né altrui. Ragazzi sono stati ospiti dell’istituto penale minorile. Ragazzi e ragazze si mettono insieme a 14-15 anni e si lasciano quando gli pare». I FATTI CHE FANNO PAURA Nella «Sentenza» del processo per la uccisione di don Puglisi, alle pagine 73-74, si legge: «Nella variegata galassia delle cosche mafiose, quella di Brancaccio era saldamente nelle mani dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano... Il collaboratore Emanuele Di Filippo ha spiegato che “tutto quello che succedeva (estorsioni, rapine, omicidi), tutto quello che veniva comandato, noi dovevamo saperlo”». Nella relazione al convegno «Chiesa e mafia» don Pino specificò: «Pure la microcriminalità a Brancaccio deve rispettare certe regole. Tutto deve essere fatto “con il permesso di”. Ad esempio, subito dopo l’arrivo degli sfrattati dal centro storico ci fu un’ondata di furti d’auto. Alcuni di questi ladruncoli, per punizione, sono improvvisamente scomparsi. Agivano senza seguire le regole imposte dai mafiosi del luogo: chissà, forse li ritroveremo dentro qualche pilastro di cemento. Poi, evidentemente, c’è stata la sottomissione, e da allora non è più scomparso nessuno. I furti colpiscono, ma colpiscono solo chi non è protetto dalla mafia e non paga puntualmente il pizzo». I TAVOLI DAVANTI ALLA CHIESA Davanti a questi fatti, don Pino si circonda prima di tutto di amici e di volontari disposti a lavorare per la comunità senza nessuna ricompensa eccetto quella promessa dal Signore. A essi espone le linee scarne di ciò che occorre realizzare, e con fiducia si incomincia: Primo obiettivo: le fogne. Bisogna mettere fine alla faccenda che spurghi, acqua inquinata e topi siano il luogo dove giocano i bambini. Secondo obiettivo: l’istituzione del distretto socio-sanitario. Non è tollerabile che Brancaccio sia lontano dall’assistenza medica e dagli assistenti sociali come una zona del Burundi. Don Pino, per la raccolta delle firme, fa piazzare i tavoli anche davanti alla chiesa, e durante l’omelia della messa invita i fedeli a sostenere l’iniziativa. Terzo obiettivo: si chiede ancora una volta la realizzazione della scuola media, la prima in un rione di ottomila abitanti. Don Pino sa che una scuola media significa togliere dalla strada i ragazzi quando cominciano a ricevere le offerte di manovalanza mafiosa. L’istruzione e la formazione possono dar loro una diversa conoscenza del mondo e di se stessi. La scuola fa crescere. La mafia invece ha interesse che non crescano: non conoscano la Costituzione, i diritti del cittadino, le leggi. Si rassegnino a credere che solo obbedendo alla mafia si ha lavoro, soldi, rispetto. AVVERTIMENTI In quel 1992 la Sicilia è devastata da due orrendi attentati. Vengono assassinati Falcone e Borsellino, due giudici che lottano contro la mafia. Nel primo anniversario, don Pino guida una marcia silenziosa per le vie del quartiere. Sfilano anche i giovani del liceo. La manifestazione, in parte, è trasmessa in diretta dal TG3. Ma a un convegno di assistenti sociali, don Pino dice amaramente: «Per molti di quelli che hanno sfilato, il problema vero è riuscire a mangiare ogni giorno. Nella zona dei catoi, dopo aver agitato bandiere, in una stanza tornano ad ammassarsi sette bambini con papà e mamma disoccupati. Che cosa volete che facciano? La prima proposta della mafia l’accettano come una grazia, per non morire di fame». Bisogna occuparsi urgentemente del lavoro delle famiglie, del pane quotidiano. Il piccolo e mite prete comincia a dar fastidio. Cominciano gli avvertimenti. Una per una vengono incendiate le porte delle case dei suoi volontari. Due giorni dopo la sfilata silenziosa, da una moto gettano bottiglie molotov davanti alla chiesa. Gli scoppi e le fiamme spaventano la gente. I DUE KILLER II 13 settembre 1993, nella cappella del Centro vocazioni, don Pino incontra l’amica Enza Maria Motellaro, e legge con lei un brano della liturgia delle ore di quel giorno. Sono parole di san Giovanni Crisostomo, l’arcivescovo di Costantinopoli martirizzato dai cristiani benpensanti per la sua disturbante coerenza cristiana: «Minacciose tempeste mi sovrastano, ma non ho paura di essere sommerso perché sono fondato sulla roccia. Cosa dovrei dunque temere? Per me vivere è Cristo e morire un guadagno. E se Cristo è con me, di chi avrò paura?». Dieci giorni prima la cupola l’aveva condannato a morte… Nell’aula del processo, Salvatore Grigoli, il killer incaricato di eliminarlo (aveva già eseguito 39 omicidi) racconterà: «Decidemmo di attenderlo sotto casa. Lui arrivò. E io e Gaspare Spatuzza siamo scesi dalle auto. Il padre si stava accingendo ad aprire il portoncino di casa. Aveva il borsello nelle mani. Lo Spatuzza si avvicinò, gli mise la mano nella mano per prendergli il borsello. E gli disse piano: “Padre, questa è un rapina”. Lui si girò, lo guardò, sorrise - una cosa questa che non posso dimenticare, che non ci ho dormito la notte - e disse: “Me l’aspettavo”. Non si era accorto di me, che ero alle sue spalle. Io allora gli sparai un colpo alla nuca» (Verbale 7 luglio 1997 e Sentenza pp. 117-118). (Da “Dimensioni Nuove” Agosto/Settembre 2002, pagg.50-52) 11:24 Scri Di Teresio Bosco

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