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Biografia Guy Gilbert
Guy Gilbert
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Padre Guy Gilbert (Rochefort, 1935), parroco dei balordi amato da Wojtyla Lo chiamano «le curé des loubards», come dire «il parroco dei balordi». Sono più di 40 anni che padre Guy Gilbert si occupa dei ragazzi delle banlieues, in particolare di quelli che la società bolla sbrigativamente come «irrecuperabili»: emarginati, delinquenti, spacciatori, tossicodipendenti, esclusi dalla scuola, avanzi di riformatorio. A forza di vivere a contatto con i loubards, il sacerdote, che ha appena compiuto 71 anni, ha finito per adottare i modi, il linguaggio, gli abiti, il look dei suoi protetti. Capelli lunghi fin sulle spalle, orecchini, giubbotto di pelle con le borchie, jeans, stivaletti texani alla John Wayne, sembra quasi una caricatura. Gira in motocicletta e, quando apre bocca, si esprime con il gergo caratteristico dei giovani di periferia, parolacce comprese. Nato a Rochefort (nella regione della Charente), seminarista a Saintes, chiamato sotto le armi all?epoca della guerra d?Algeria, proprio ad Algeri completò gli studi di teologia e fu ordinato sacerdote. Dopo la proclamazione dell?indipendenza (1962) decise di fermarsi in Algeria, come vicario a Blida (la città natale dello scrittore Albert Camus). Una notte, in una strada deserta, s?imbatté in Alain, un ragazzino fuggito da casa. «I suoi genitori», racconta Guy Gilbert, «lo trattavano peggio di un animale: pensate che lo costringevano a mangiare gli avanzi nella scodella del cane». Il sacerdote offrì ospitalità al ragazzo, gli insegnò a leggere e a scrivere, lo allevò come un figlio. «Grazie ad Alain scoprii la mia vera vocazione: salvare i ragazzi smarriti». Guy Gilbert porta sempre alla mano destra, come un amuleto, l?anello d?argento regalatogli da Alain diventato adulto e padre di famiglia. Educatore e prete di frontiera nelle periferie francesi, il "parroco dei balordi" conosce la banlieue di Parigi come le proprie tasche. Ha appena festeggiato i 40 anni di sacerdozio ricevendo anche la Legion d?onore dalle mani del presidente Chirac, e la sua notorietà ha varcato le frontiere: Guy Gilbert è popolarissimo, fra l?altro, in Belgio e in Canada, dove i libri nei quali ha raccontato la propria esperienza sono andati a ruba. Il sacerdote ne ha scritti una quindicina (in Italia alcuni sono stati pubblicati da San Paolo ed Elledici) e ha venduto oltre due milioni di copie: grazie ai diritti d?autore ha potuto acquistare una vecchia fattoria nei pressi del villaggio di Faucon in Provenza, e l?ha trasformata in un centro che può accogliere fino a una trentina di giovani "asociali". Nella fattoria, i ragazzi si occupano dell?allevamento di animali: ovini, bovini, maiali, cinghali, ma anche alcuni lama e persino un dromedario donato dai monaci di Tibehirine (in Algeria), gli stessi frati che furono trucidati, nel 1996, da un gruppo di fanatici islamici. «Ognuno dei giovani che approdano qui si vede affidare la responsabilità di un gruppo di animali», spiega Guy Gilbert. Sul medesimo modello sono state create delle comunità in Belgio e in Canada; e capita spesso che siano gli stessi magistrati ad affidare a Guy Gilbert e ai suoi collaboratori i ragazzi "irrecuperabili". Il modo di vivere, di vestirsi e di parlare non ha nuociuto alla popolarità del "curé des loubards". Nonostante le perplessità di una parte della gerarchia ecclesiastica, Giovanni Paolo II lo apprezzava, non si scandalizzava per il suo anticonformismo e lo riceveva volentieri a Roma. Guy Gilbert dice che papa Wojtyla era il suo "idolo": «Ci capivamo al volo, perché anche lui era un uomo d?azione e non solo un uomo di preghiera». La scorsa primavera Guy Gilbert è stato chiamato a concelebrare, a fianco del cardinale Danneels primate del Belgio, il matrimonio del principe Laurent, uno dei tre figli del re Alberto II e della regina Paola. Era stato Laurent, che da tempo si occupa dei giovani emarginati in Belgio, a volere il "parroco dei balordi". E per convincerlo gli aveva trasmesso un messaggio: «Venga pure con il giubbotto, i jeans, gli stivaletti texani». In questa fine d?anno 2005, Guy Gilbert ha seguito con passione, e con molta tristezza, la rivolta dei giovani che ha messo a ferro e a fuoco le banlieues di Parigi e delle altre grandi città francesi. «L?esplosione di violenza non mi ha affatto sorpreso», dice. «Era da un bel po? di tempo che me l?aspettavo. Tutti gli ingredienti erano riuniti: per i ragazzi neri e arabi la probabilità di trovare un lavoro è meno della metà che per i loro coetanei bianchi. Per guadagnare un po? di soldi non resta loro che spacciare droga o rubare. Le responsabilità dello Stato sono pesanti: le banlieues sono state abbandonate al loro destino, mancano le scuole, gli ospedali, le strutture culturali, i trasporti pubblici; la polizia è assente, e quando si fa vedere è spesso inutilmente violenta. I giovani hanno il sentimento che il loro orizzonte sia sbarrato: in Francia gli immigrati africani e nordafricani, i loro figli e nipoti rappresentano quasi il 10 per cento della popolazione, ma questa percentuale è di gran lunga inferiore nella pubblica amministrazione o nei media». «Il pericolo», conclude Guy Gilbert, «è che questi ragazzi, spinti dalla disperazione, si radicalizzino sempre di più. Quando li ascolto parlare, mi si rizzano i capelli: hanno 13, 14, 15 anni e dicono che non hanno più alcuna speranza, e dunque che non hanno più nulla da perdere. Hanno conosciuto solo rigetto, odio, discriminazione, esclusione. Definirli racaille (feccia) come ha fatto il ministro degli Interni Sarkozy è dare prova di disprezzo. Si sentono esclusi da tutto, in una società che li rifiuta. Semianalfabeti, sanno che li aspetta la disoccupazione, il carcere o l?ospedale psichiatrico. Ci sono dei momenti in cui anche io mi perdo d?animo: quello che mi sforzo di fare per questi ragazzi è come una goccia d?acqua nel mare. Per fortuna, il mio sconforto non dura mai molto a lungo: alla fine mi dico che il mare è fatto di tante gocce d?acqua?». Paolo Romani

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