Lev Nikolaevič Tolstoj, «il profeta di Jasnaja Poljana»
Pubblicato il 05-11-2010
Il sette novembre cade il centenario dalla morte di Lev Nikolaevič Tolstoj, grandissimo scrittore russo, nato il 28 agosto del 1828 alla periferia di Mosca nella tenuta agricola di Jasnaja Poljana da un’antica e nobile famiglia (il padre era conte e la madre principessa). Rimasto orfano, insieme ai quattro fratellini fu cresciuto da alcune zie e da una lontana parente tra Mosca, Pietroburgo e Kazan. Da giovane seguì in modo incostante gli studi di filosofia e giurisprudenza, conducendo una vita inquieta e scioperata, giocando e perdendo tantissimo (Dostoevskij, anch’egli accanito giocatore, a proposito di questo aspetto trasgressivo del carattere russo parlò di «scandalosità russa»). Tentò in seguito la carriera burocratica e si arruolò quindi tra i granatieri, ma nel 1851 aveva iniziato a scrivere e a pubblicare i primi racconti, con buon favore della critica. Nel 1860 fu all’estero, anche per incontrare il fratello Nikolaj gravemente malato di tubercolosi che morì tra le sue braccia (in Anna Karenina, lo scrittore ne rappresentò la morte orribile descrivendo quella del fratello di Levin). La scomparsa prematura del fratello destò in Tolstoj sentimenti di terrore e pressanti domande esistenziali che non trovarono risposte nella ragione e che aggravarono una crisi psicologica dalla quale era tormentato da tempo. Nel 1862 sposò Sofia, una ragazza diciassettenne di nobili origini, figlia del medico di corte, che amò per moltissimi anni dandole tredici figli: la moglie lo aiutò spiritualmente e materialmente nella difficile stesura del lungo capolavoro Guerra e pace, copiando e ricopiando con dedizione il manoscritto come una fedele e affettuosa segretaria.
In età avanzata lo scrittore si ritirò nella tenuta natale, ove lavorò moltissimo dal punto di vista letterario e ove tentò di trovare una soluzione ai gravi problemi di natura socio-economica del suo popolo (tra i quali, l’emancipazione dei contadini russi dalla servitù della gleba). Per anni fu tormentato da incertezze religiose, crisi mistiche e lacerazioni interne che lo misero in urto sia con le autorità religiose (nel 1901 lo scomunicarono) sia con quelle statali (lo sottoposero a censure e persecuzioni governative), ma fu sostenuto sempre dall’«idea grande, enorme» di una nuova religione corrispondente allo sviluppo dell’umanità, superiore ma terrena, alimentata da «pensieri alti… sentimenti puri» e nutrita da «una fede che non è un dovere ma uno slancio». Questa religione e questa fede, insieme, avrebbero dovuto costituire la «dottrina che dà un senso alla vita». Tolstoj assunse spesso atteggiamenti anti-intellettualistici, anarcoidi e fortemente critici del mondo arcaico della Russia zarista ma fu anche un moderno educatore e un sensibile pedagogo (organizzò una scuola rurale con corsi dedicati ai bambini dei suoi contadini).
I suoi più grandi romanzi sono Guerra e pace (1869), ponderoso testo corale in sei libri dedicato agli avvenimenti storici che partono dall’invasione napoleonica del 1812 (gli meritò grande fama in patria), e Anna Karenina, dalla difficile gestazione (Tolstoj era stato ispirato da un fatto realmente accaduto a Mosca e vi lavorò per ben cinque anni, in un momento di forte crisi spirituale). Per motivi politici - una larvata polemica nei confronti della guerra che la Russia zarista aveva appena intrapreso contro la Turchia e che era vista dallo scrittore come una soluzione selvaggia e terribile - fu costretto a pubblicarlo a sue spese nel 1877; ebbe però un successo travolgente, addirittura superiore a quello di Guerra e pace. Tra le opere dell’ultimo ventennio sono da ricordare il dramma teatrale La potenza delle tenebre (1886), i racconti La morte di Ivan Ilič (1886) e La sonata a Kreutzer (1889), il romanzo Resurrezione (1899) (i cui diritti fece devolvere a una setta religiosa perseguitata), e il dramma Il cadavere vivente (1900). Scrisse anche alcuni saggi, tra i quali sono da non dimenticare Che cos’è l’arte (1897) e Il diavolo (1909).
Nel 1900 fu nominato accademico di Russia, guadagnandosi l’influenza di un opinionista molto ascoltato e osannato dai contemporanei, e il carisma di un’alta guida morale. Gli ultimi anni di vita non furono felici da un punto di vista familiare: si guastarono irrimediabilmente i rapporti con la moglie, che non comprendeva più le sue idee e i suoi comportamenti, e che si vedeva costretta a vivere con i figli sul lastrico per la sua rinunzia ai diritti d’autore. Tolstoj cominciò a sentire il peso del vincolo matrimoniale che gli appariva come una prigione dalla quale desiderava liberarsi (Tolstoj era nato lo stesso anno di Ibsen e l’idea che il matrimonio non fosse altro che una vecchia istituzione in crisi serpeggiava ormai per tutta l’Europa). Alla fine dell’ottobre del 1910, a ottantadue anni, stanco e amareggiato (era pressato piuttosto violentemente dalla moglie e dai figli per redigere un testamento in loro favore), riuscì a realizzare la sognata fuga da casa («il salto decisivo»), spinto anche dal sentimento eroico di abbandonare secondo i dettami di Cristo quei privilegi che aveva condannato per tutta una vita (alla moglie lasciò scritto: «Ti ringrazio per i quarantotto anni di vita onesta che hai passato con me e ti prego di perdonarmi tutti i torti che ho avuto verso di te, come io ti perdono, con tutta l'anima, quelli che tu hai avuto nei miei riguardi.»). Salì su diversi treni di terza classe che andavano in Crimea accompagnato dall'amico e medico personale Makovitskij, ma dopo appena dieci giorni moriva per una polmonite nella fredda stazione di periferia Astapovo, stroncato dalla malattia, dalla vecchiaia e dall’abbandono (era il 7 novembre). Quando era morente, accorsero parenti, amici e giornalisti e alla figlia Aleksandra dettò le sue ultime parole-testamento: «Dio è quell'infinito tutto, di cui l'uomo sa d'essere una parte finita. Esiste veramente soltanto Dio. L'uomo è una sua manifestazione nella materia, nel tempo e nello spazio. Quanto più il manifestarsi di Dio nell'uomo - la vita - si unisce alle manifestazioni - alle vite - di altri esseri, tanto più egli esiste. L'unione di questa sua vita con le vite degli altri si attua mediante l'amore. Quanto più grande è l'amore, tanto più l'uomo manifesta Dio, e tanto più esiste veramente.».
Di Silvia Iannello
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