Ad un certo punto della sua vita Gesualdo Bufalino sapeva di vendere come il pane. Diceria dell’untore e Le menzogne della notte, per esempio. Strega e Campiello sono soltanto due degli innumerevoli riconoscimenti assegnati allo scrittore prematuramente morto. Scrisse soprattutto romanzi. Ma Gesualdo Bufalino pubblicò due libri Museo d’Ombre e Bluff di Parole che lungi dall’essere romanzi sono la miscellanea di mille paragrafi pittoreschi dove sicilianità, sollecitudine amicale, figure emblematiche dei mestieri del mare e della terra, modi di dire, forme patriarcali e matriarcali di riverenza familiare che seppure trascendono l’icona letteraria incarnata da Gesualdo Bufalino, tuttavia parlano moltissimo di lui e della Sicilia. E non per i paragrafi dedicati all’epistolario. No. Anche se non crea ma traduce letteralmente, non inventa e storicizza paccottiglia; anche se trascrive versi e aforismi e descrive ambientazioni bucoliche corrispondenti al mese a cui si riferiscono e alle emozioni che suscitano, questi almanacchi dicono molto si più di quanto si possa leggere o condividere, perché Bufalino le fa intimamente sue, si riconosce in loro anche quando paga i diritti d’autore. Quindi, c’è da chiedersi perché l’inimitabile Gesualdo Bufalino, l’originalissimo virtuoso della sintassi, lo spregiudicato ossimorista e allegorico Pindaro, il letteratissimo, si abbandona al populismo e non disdegna la promiscuità con autori italiani e stranieri che, però, portano la sua firma? Signori e signore, un attimo di istruita riflessione e vi sarà subito chiaro che non è affatto ovvio. Siamo mano manina con Bufalino in procinto del salto di qualità, con lui cittadini nel mondo degli osservatori, filosofi, scrittori e poeti che sodalizzano con il lato cosmico di Gesualdo Bufalino che sa di non essere solo. Come nella formidabile poesia scritta da Biagio B. un uomo che nasce il 1° dicembre del 1891 e campa novant’anni, i due libri assegnano valori e giudizi di valore alla infinità di occasioni che danno Senso alla Vita. Un trovarsi insieme fra i rigaggi senza fini di lucro, bensì per la pedagogia vitalista. Quelli che Bufalino chiama ricordi assurgono a paradigmi da condividere nella visione del mondo. Dove e quando i mestieri fanno il giro del mondo, cosa importa se lo spaccapietre è u pirriaturi. Invece, l’eccellente cosa, è il mestiere che incarna il ricordo indelebile di un modo d’essere della sicilianità e quindi del resto del mondo speculare e non alternativo a u pirriaturi o spaccapietre. Dove e quando le piccole stampe degli anni trenta hanno una memoria comune, allora tutti gli uomini del mondo che le ricordano, sono simili, hanno condiviso le medesime emozioni. Museo d’Ombre e Bluff di Parole abbattono frontiere. Dice Bufalino con grande maestria, che la memoria è un fiammifero fra due bui e un vizio di rivisitarsi a ritroso. In altre e più cosmiche parole, si tratta di paradisi perduti nel consumismo, ma custoditi nell’accorata memoria. Gli aneddoti e i modi di dire sono ambientati dalle parti di Comiso dove lui stesso è nato. Ma si estendono anche oltre la provincia di Ragusa, per esempio nella identificazione della “La Vecchia dell’Aceto” che fu un personaggio micragnoso, una strega palermitana. Ci avviciniamo ad un altro aspetto della cosmogonia. Bufalino è già un mago della parola e della sintassi, e anche il lettore di diporto nota immediatamente la sua complessiva singolarità. Ma il lettore siciliano scivola nel campanilismo trascinato nella epigenesi tutta isolana dove troneggia l’amor di Sicilia. In fondo, asseveriamo deontologie esistenziali che si prestano alla universalizzazione. La silloge L’Amaro Miele, è una icona di territorialità anche fuori dai confini isolani, perché dove manca il territorio c’è invece il personaggio, il protagonista. Che sia Bufalino o Adelmo (che troviamo anche nella Diceria), l’amore fraterno e il dolore di quella morte sono pregni di umanesimo siciliano. Non solo la capacità creativa di intrecciare le storie più disparate, bensì l’adattamento di queste alla sua visione della vita, un quotidiano che vuole essere monito di buona esistenza e messaggio pedagogico contro la crudeltà dell’esperienza e la brutalità del destino. L’animosità è trasparente, è vera, è il dolore di un sudista, è la disperazione in chiave maschile di tutte le urla materne o matronali velate di nero al cinematografo. La fine di tutte le sofferenze è nella drammaturgia radicale. In Diceria dell’Untore vorrebbe morire al posto di Adelmo: perfetta lirica siciliana del protagonista che non può essere eroe nella solitudine della tisi, emblematica icona di morte contro la quale Bufalino si scaglia impietoso e furioso per fermare il tempo e cambiare il corso degli eventi. Seppure pagine di pathos veemente, il virtuosismo sintattico è la dolcezza dello stile. Stile, inteso come modo di vedere la realtà. Straniamento prospettico, lo hanno definito, che rendono le opere di Gesualdo Bufalino opere corali. Talmente ricche di introspezioni da non sembrare l’opera di uno. E questo gradiente è un cosmo di sottofondo che si ascolta imperituro. Dall’inizio alla fine, cori di angeli, di paesani, di diavoli e di donne, di compagni di scuola, di colleghi e amici. Struttura del paratesto che al contrario della revisione, nasce spontanea consentendo a Bufalino soprattutto di rammemorarsi in un ensamble di costrutti e sottotrame prima di revisionare lungamente l’opera che alla fine s’illumina di stile, di ossimori, di contraddizioni in itinere, di paradossi verbali, di spregiudicate allegorie e – come dico io - di accorate decifrazioni semantiche. Dal generale al particolare. Questo è il genio di Gesualdo Bufalino: la capacità incontestabile di astrarre dall’universo di sicilianità e sicilianitudine una trama e l’intreccio di una storia quasi comune che tuttavia conserva l’anagrafe isolana come in Qui Pro Quo, firmando opere conclusive irripetibili esattamente come Michelangelo plasmò il marmo nella forma scarificando la pietra fin nei minimi particolari per raggiungere la perfezione. Un metodo scientifico, uno stilema che riduce il caos all’ordine, una intellettualità parusica e una verbalità prosodica che raccolgono dall’osservazione con l’intento di purificare la realtà unendola al pensiero e alla creatività del Paradiso, dove Lui passeggia come un Dio da presentare ai numerosi ospiti. Un ensamble contemplativo di uomini e cose che partecipano al processo d’agnizione deontologica. Insomma, Bufalino si chiede come fare una società perfetta e chiamando intorno a lui i collaboratori, narra di un probabile Eden. Calende Greche, purtroppo l’ultimo libro di un grandissimo Bufalino, testimonia concretamente questa sperimentazione. Che non è la teoria della sperimentazione, ma la sperimentazione, quella di Gesualdo Bufalino. Un remarque autoiconico che non è mero narcisimo: sarebbe troppo semplice e miope. Il suo grande merito è riuscire a confinarsi nel mediterraneo e contemporaneamente essere cittadino del mondo. Per fare un esempio tratto da Qui Pro Quo, scrive del commissario di p.s. Massimiliano Currò incaricato del caso d’omicidio: Poi, con una torsione dell’avambraccio, allargando insensibilmente le cinque dita, la lasciai [una lettera] cadere nel Mediterraneo. Del resto il romanzo deve pur finire. Ho pensato a lungo e credo di avere le idee chiare se affermo che la latente cosmogonia di Gesualdo Bufalino è il motivo delle impressionanti prefazioni che ingrossano addirittura le versioni tascabili, annotazioni che valgono tanto quanto un saggio. Note e appendici scritte per chi rimane nell’aporia del metapersonaggio e vuole risolvere il dilemma. E non solo questo. Il fatto è che Gesualdo Bufalino è ricchissimo di messaggi nascosti che fanno sorgere nel critico letterario il dovere di investigare sulle cause e le fonti informative che faranno parte della trama. Ok, basta con il discorso difficile. Si tratta di questioni che gli estimatori di Bufalino scrittore, possono sorvolare. Io non sono il ragazzo dai capelli verdi. Magari li avessi sarei comunque contento della loro verdità, purché folta. La chiave di lettura che ci permette di scoprire il lato cosmico di Bufalino sta nel latinismo memini ergo sum che fa la parodia al cogito ergo sum. Dunque, Bufalino pensa, ma soprattutto di ricordi mi ammalo e di ricordi mi curo, chissà che non comprenda fra tanti risorgimenti la macchia di sangue, il ramo d’oro, l’ustione celeste, il segno che aspetto per [appunto] riconvincermi e per ritrovare in guerra col tempo la mia dilapidata immortalità di bambino. E allora? Allora Bufalino sale la china dei ricordi a volte lentamente (come nella Diceria) a volte velocemente (quando trasforma le informazioni in esperienza) fino all’ipotetico podio che occupa per esaustione stilistica della realtà. Invero, per quanto possa sembrare paradossale, è un lavoro di sintesi. Scrive con pomposità e aristocrazia complementari al neovitalismo che insegna, coerente con le oscillazioni dei timbri alti e bassi dell’abbrivo esistenziale che si dipana tra odio e amore, tra vita e morte, fra spontaneità e saggezza. Un impegno letterario molto complesso che necessita dell’invenzione di neologismi e dell’uso sistematico di prefissi, nuovi come pata e rappa, oltre ai più comuni meta, pro, anti, para che esprimono tutto l’ineffabile dell’autorità di una coscienza che altrimenti sarebbe muta. Una coscienza siciliana e un punto di vista onnisciente che, ripeto, sa andare a braccetto col resto del mondo. Un barone di Munchausen senza il fantastico, un desiderio di immortalità consapevole della morte, un contorno mediterraneo grande quanto un mare ricco di sorprese. Tuttavia, come ho fatto io, se qualcuno volesse provare ad imitarlo, non potrebbe non essere siciliano. In lui resiste la fucina che ha trasformato il sangue di Baudelaire, Stendhal, Hugo, Voltaire e altri autori che palpitano di scirocco e di agrumeti, di tonnara e arsiccio di atavica lupara. E’ la conclusione naturale dopo la purificazione della caldera ribollente di letteratura durante la lunga degenza negli ospedali e sanatori che lo ospitarono ipotecato dalla morte che falciò tutti i malati di tisi. Ho pochissimo spazio. Devo sacrificare molto della cosmogonia di Bufalino racchiusa nelle metafore e allegorie che sono nel genio di Henry Miller e di Charles Baudelaire, tanto per eguagliarne l’efficacia e l’intensità. Perciò concludo con la sua affermazione che vuole la Diceria nata dal ricordo del Trionfo della Morte, l’affresco misterioso tuttora esposto a Palazzo Abatellis e del quale una copia è visibile a Palazzo Sclafani, sempre a Palermo. Non sappiamo chi lo abbia disegnato, ma nella prossima metempsicosi proveremo a chiederlo a chi si intenderà di Sicilia, sicilianitudine e sicilianità. Tre gambe: Trapani, Zancle e Lilibeo e tre lingue: siciliano, italiano e… bufaliniano.
Marcello Scurria
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