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L'imbarazzante attualità di Giuseppe Giusti

Pubblicato il 11-05-2009


Duecento anni addietro, il 12 maggio nel 1809, nasceva a Monsummano Terme (in provincia di Pistoia) il grande poeta toscano Giuseppe Giusti. Era il figlio di un possidente terriero e di una donna molto ricca; dopo aver condotto i suoi studi in giro per vari collegi della Toscana, si laureò in Giurisprudenza a Pisa nel 1834 superando i molti contrasti col padre - il quale lo accusava d’indisciplina e scarso rendimento - che contribuirono a provocare dei disturbi psichici trasformatisi in una vera e propria nevrosi depressiva (scrisse: «La felicità è una condizione di equilibrio perfetto tra la realizzazione delle nostre aspirazioni e quanto gli altri ci chiedono»). Trasferitosi a Firenze per esercitare la professione, frequentò il mondo fatuo della nobiltà che fece bersaglio dei suoi strali morali e della sua satira sociale, specialmente rivolta contro voltagabbana, approfittatori, arricchiti, borghesi avidi e aristocrazia decadente (ancora oggi la sua satira è di un’attualità che stupisce). Durante i moti toscani del 1848, fu eletto come deputato all’assemblea della Toscana Costituzionale ma - dopo il ritorno del Granduca Leopoldo II sostenuto dagli Austriaci - lasciò la vita politica, anche a causa delle precarie condizioni di salute; aveva contratto, infatti, una grave tubercolosi polmonare che lo portò a morte prematura il 31 marzo del 1850.
La sua opera poetica è costituita da un centinaio di poesie (ben accolte dal pubblico e dalla critica), che circolavano affidate alla memoria o manoscritte e che avevano come bersaglio la piccola e media provincia toscana con i suoi privilegi e le sue magagne. Esse erano animate da un pungente umorismo, ora giocoso ora malinconico. Fra le più note sono da ricordare: “Lo Stivale” (chiara allegoria dell’Italia e delle sue vicende storiche: «Io non son della solita vacchetta,/né sono uno stival da contadino/.../ Dalla coscia giù giù sino al tallone/sempre all’umido sto senza marcire/.../Chi m’ha veduto in piede a lui, mi dice/che lo Spagnolo mi portò malissimo/.../se volete rimettermi davvero,/fatemi, con prudenza e con amore,/tutto d’un pezzo e tutto d’un colore/.../Il guaio è che nessuno ha mai badato/per quale piede l’hanno fabbricato!»); “Gli Umanitari” (satira diretta contro quegli utopisti che rinnegano la patria in nome dell’umanità: «.../Tu, gelosa ipocondria,/che m’inchiodi a casa mia,/escimi dal fegato;/e tu pur chetati, o Musa,/che mi secchi colla scusa/dell’amor di patria./Son figliuol dell’universo,/e mi sembra tempo perso/scriver per l’Italia./...»); “Il Brindisi di Girella”, filastrocca esilarante dedicata all’opportunista per eccellenza (ne ricordo le strofe iniziali: «Girella (emerito/Di molto merito),/Sbrigliando a tavola/L’umor faceto,/Perde la bussola/E l’alfabeto;/E nel trincare/Cantando un brindisi,/Della sua cronaca/Particolare/Gli uscì di bocca/La filastrocca./...»); “Il Re Travicello” («Al Re Travicello/piovuto ai ranocchi,/mi levo il cappello/e piego i ginocchi;/.../Là là per la reggia/dal vento portato,/tentenna, galleggia,/e mai dello Stato/non pesca nel fondo:/che scienza di mondo!/che Re di cervello/è un Re Travicello!/.../Che popolo ammodo,/che Principe sodo,/che santo modello/un Re Travicello!»); e “Il papato di prete Pero” (in cui immagina un buon prete «lieto, semplice, alla mano» che diviene un pontefice in grado d’incarnare il perfetto ideale evangelico ma che viene avvelenato con l’arsenico dai potenti corrotti - Non ci ricorda qualcosa di tremendamente contemporaneo e di quasi profetico! -).
Degna di nota è anche “Sant’Ambrogio” (1845) (notissimo l’inizio: «Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco/per que’ pochi scherzucci di dozzina,/e mi gabella per anti-tedesco/perché metto le birbe alla berlina./...»), che mescola toni commossi e meditativi con incisi scherzosi e motivi patriottici; include anche versi di nobile comprensione del nemico: ascoltando un inno tedesco all’interno della Chiesa, Giusti «.../Sentìa nell’inno la dolcezza amara/de’ canti uditi da fanciullo; il core/che da voce domestica gl’impara,/ce li ripete i giorni del dolore:/un pensier mesto della madre cara,/un desiderio di pace e di amore,/uno sgomento di lontano esilio,/che mi faceva andare in visibilio./.../e quest’odio, che mai non avvicina/il popolo lombardo all’alemanno,/giova a chi regna dividendo, e teme/popoli avversi affratellati insieme./.../Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale,/colla su’ brava mazza di nocciolo,/duro e piantato lì come un piolo.». Quale straordinaria contemporaneità in queste parole, che indicano come spesso i popoli siano meglio dei loro governanti!

Di Silvia Iannello


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