Recensioni libri

Raymond Chandler, non solo Philip Marlowe e polizieschi

Pubblicato il 27-03-2009


Cinquanta anni addietro moriva di polmonite a La Jolla, il 26 marzo 1959, Raymond Chandler, scrittore anglo-americano di thriller polizieschi e fine intellettuale nato a Chicago il 28 luglio 1888. Trasferitosi in UK con la madre irlandese dopo l’abbandono da parte del padre, nel 1912 ritornò in USA e si stabilì a Los Angeles, vivendo di giornalismo e poesia. Durante la I Guerra Mondiale, si arruolò prima nell’esercito canadese, poi nella RAF. Nel 1933 (aveva 45 anni) pubblicò il suo primo racconto su una rivista, e nel 1939 uscì il primo romanzo “Il grande sonno”, dedicato al detective privato Philip Marlowe, un romantico eroe moderno, cinico e sprezzante, misogino e omofobo, che si scontra contro tutto il marcio possibile degli ambienti dell’alta società losangelina con i suoi locali di lusso, le sue bellissime donne corrotte e fatali e le sue amicizie virili che non hanno bisogno di parole ma richiedono un’assoluta lealtà. Seguirono sei romanzi (tradotti in parte anche in Italia) che celebravano le gesta di Marlowe, caratterizzati da dialoghi ironici e mordaci, da frasi stentoree e conclusive, e da giochi dialettici corrosivi e paradossali; e l’occhio dell’autore non segue soltanto la soluzione ragionevole dell’enigma ma bada anche a rivelare la realtà umana dei suoi personaggi (l’umanità di Marlowe ha qualcosa in comune con quella del Maigret di Simenon). Da quasi tutti questi libri sono stati tratti grandi film, divenuti dei classici del noir americano, con diversi grandi attori nel ruolo del dective privato «duro e puro» per eccellenza (Humphrey Bogart, Dick Powell, Robert Mitchum ed Elliott Gould).
Non essendo riuscito a sfondare con i suoi romanzi, Chandler nel 1943 fu assunto come sceneggiatore dalla Paramount e scrisse diversi adattamenti per il cinema (“La fiamma del peccato” per Wilder, “The Blue Dahlia” per Marshall, e “Delitto per delitto” per Hitchcock). Il suo rapporto con il mondo di Hollywood non fu però felice; pur essendo riuscito a guadagnare più di 4.000 dollari a settimana grazie al successo dei suoi adattamenti, provò ben presto nausea e stanchezza per il vacuo mondo di Hollywood, decidendosi di abbandonarlo per La Jolla, città di mare vicino San Diego (a proposito della sua esperienza hollywoodiana, scrisse: «Se i miei libri fossero stati peggiori, non avrebbero dovuto invitarmi a Hollywood, e se fossero stati migliori, non avrei dovuto andarci.»).
Nell’ottimo romanzo “Il lungo addio” (1953) che gli meritò l’Edgar Award, scrisse: «La maggior parte della gente consuma metà delle proprie energie cercando di proteggere una dignità che non ha mai posseduto». Daniel O’Brien (dell’Hollywood Survivor), a proposito del Marlowe di questo romanzo e della relativa trasposizione filmica di Altmann (1973), osservò: «è lo studio di un uomo pieno di morale che scorda senza rimorso - a causa di una società oppressiva e crudele - tutte le nozioni di amicizia e lealtà che aveva appreso» (famosissima è una battuta di questo film: «Nulla dice addio come una pallottola... »).
Nel 1944 scrisse sull’Atlantic Monthly il saggio “La semplice arte del delitto”, in cui criticava i gialli degli anni ’20 e ’30 (inclusi quelli di Agatha Christie) e rivendicava al poliziesco maggior realismo; scrisse: «Almeno la metà dei racconti gialli pubblicati viola la regola che la soluzione, una volta svelata, deve sembrare inevitabile.». Non amava, inoltre, l’essere ingabbiato in quelle impostazioni fisse e ripetitive che imperversavano nel noir tradizionale («La sola idea di essere condannato a uno schema prestabilito mi atterrisce»).
Chandler non fu un uomo felice: era divorato dall’alcol («L’alcol è come l’amore: il primo bacio è magico, il secondo è intimo, il terzo è routine»), tormentato da crisi depressive, lacerato da complicate relazioni sentimentali. Dopo la morte della moglie Cissy Pascal (una ex modella di 20 anni più grande di lui), nel 1955 tentò il suicidio: e purtroppo non era il primo tentativo!


Di Silvia Iannello


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