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Cesare Pavese, un uomo tormentato che non poteva «vivere senza scrivere»

Pubblicato il 08-09-2008


Cento anni addietro (il 9 settembre 1908) nasceva a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, Cesare Pavese. Tutti conosciamo la fine tragica della sua vita, conclusasi il 28 Agosto del 1950 con un suicidio per ingestione di veleno e sedativi, all’età di appena 42 anni, di domenica, in una estranea camera d’albergo e in una Torino deserta per le ferie d’agosto. Si parlò di una pena d’amore, perché non sembravano esistere altri problemi: aveva appena migliorato la sua situazione lavorativa e vinto il Premio Strega. Era probabilmente anche angosciato dall’incubo della guerra (che aveva vissuto) e dal pericolo atomico (che sembrava incombente), ed era forse pieno di sgomento per il venir meno della vena creativa e per il dover «vivere senza scrivere». Lasciò scritto sulla prima pagina della copia di un suo libro (“Dialoghi con Leucò”), sul comodino, un messaggio che diceva: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Naturalmente, si fecero tantissimi pettegolezzi!
Della sua vita sappiamo un po’ meno: ebbe certamente una madre autoritaria, e a sei anni perse il padre per un tumore al cervello dopo un inutile intervento chirurgico (questo trauma probabilmente lo ha segnato in modo indelebile). Quand’era adolescente, morì suicida un suo caro amico; da allora, l’ossessione del suicidio non l’ha più abbandonato. Nel 1935 fu condannato a 3 mesi di confino per alcune lettere compromettenti, e al suo ritorno trovò la donna amata sposata a un altro (un nuovo grande trauma per un artista dal sistema nervoso fragile). Fu prima collaboratore de “L’Unità” e di Einaudi, e divenne poi direttore editoriale della casa editrice. Le soddisfazioni lavorative e letterarie certamente non gli mancarono. Comunista militante, ma critico nei confronti della burocratizzazione del partito, non fu in effetti molto apprezzato né dal partito che lo considerava un «cattivo compagno», né da una parte della critica - con Alberto Moravia in testa - che lo considerava un «decadente provinciale», e quindi in fondo un “cattivo scrittore”. Tra l’altro, ebbe il merito di averci fatto conoscere con le sue straordinarie traduzioni, attraverso i suoi occhi e la sua vibrante sensibilità, diversi autori americani contemporanei (fece nel 1941 la prima stupenda traduzione del “Moby Dick” di Herman Melville); dobbiamo a lui, l’aver conosciuto in Italia John Steinbeck, John Dos Passos, Ernest Hemingway, William Faulkner e James Joyce.
Le sue opere più importanti sono la poesia-racconto “Lavorare stanca” (1936), la raccolta di racconti e saggi “Feria d’agosto” (1946), il complesso romanzo “Dialoghi con Leucò” (1947) - una sorta di conversazioni sulla condizione umana - che considerava il suo romanzo più significativo ma che fu un fiasco, “La bella estate” (1949), e “La luna e i falò” (1950). Nel 1951, uscì postumo il volume di poesie d’amore che conteneva la struggente “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Anche la raccolta di scritti autobiografici di altissima forza drammatica “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950” fu pubblicata postuma; essa ci ha fatto conoscere - impietosamente e quasi impudicamente - un Pavese, a nudo, nelle sue corde più intime e nelle sue pieghe più segrete. Profeticamente, l’autore chiuse i suoi scritti con questa nota: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più»; e, purtroppo, quest’ultimo gesto è stato il suo tragico suicidio. Aveva scritto: «La vita ha valore veramente se si vive per qualcosa o per qualcuno», ma forse non aveva più nulla o nessuno per cui vivere!

Di Silvia Iannello


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