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William Saroyan, autore armeno-americano quasi neorealista

Pubblicato il 31-08-2008


Cento anni addietro, il 31 agosto del 1908, nasceva a Fresno (California) William Saroyan, scrittore statunitense di origini armene. Rimasto orfano piccolissimo, fu ospitato con i fratellini in un orfanotrofio californiano e ben presto conobbe la strada e i suoi derelitti, dei quali divenne voce e cantore. Abbandonata la scuola all’età di 15 anni, fu strillone e fattorino telegrafico ma intanto iniziava a scrivere e studiava da autodidatta. Le difficoltà esistenziali nell’ambito della comunità armeno-americana di Fresno, negli anni della Grande Depressione, hanno riempito d’impudente ottimismo e gioia di vivere le sue prime opere; per William, la vita era degna di essere vissuta nonostante la fame e la povertà (scrisse: «Cerca per quanto sia possibile di essere sfrenatamente vivo, con tutte le tue forze... Cerca di essere vivo, sarai morto abbastanza presto»); i falliti e i derelitti erano per lui gente di valore (scrisse: «Le brave persone sono buone perché sono arrivate alla saggezza attraverso l’insuccesso»); ma soprattutto metteva l’uomo al centro di tutto (scrisse: «Io credo solo che vi è l’uomo. Il resto è trucco, artifizio»).
I racconti del suo esordio, raccolti nel 1934 in “L’ardimentoso giovane sul trapezio volante” (titolo ispirato da una nota canzone dell’Ottocento), sono irriverenti e particolari, realistici ma sognanti, animati da candidi personaggi vulnerabili («Un trapezio verso Dio o verso il nulla, un trapezio volante verso una qualche forma d’eternità»). Considerati i migliori, sono entrati nella storia della letteratura americana. Saroyan era conscio del suo ruolo artistico; scrisse: «Lo scrittore è un anarchico spirituale, come lo è ogni uomo nel profondo del suo animo. Egli è insoddisfatto di ognuno e d’ogni cosa... è il migliore amico di ciascuno ma anche il suo solo buon e gran nemico... in nessun caso cammina con la moltitudine. Lo scrittore, che è uno scrittore, è un ribelle che mai si ferma... L’arte consiste nel guardare le cose in modo diverso da come hanno l’abitudine di guardarle gli altri». Questi racconti suscitarono entusiasmo sia in America che in Europa; fu amatissimo in Italia - ove era considerato un autore di gusto quasi neorealista (che mescolava toni poetici e realismo) - e il suo stile fu imitato da molti: tra gli altri, da un giovane Elio Vittorini che lo tradusse facendolo conoscere ai lettori italiani.
Scrittore molto prolifico (scriveva rapidamente e pubblicava rapidamente, ma altrettanto rapidamente spendeva nell’alcol e nel gioco d’azzardo i suoi guadagni), diede alle stampe molte cose ottime ma anche tanto materiale scadente. Al primo volume, seguì la raccolta di novelle “Il mio nome è Aram” (1940), divenuto ben presto un best-seller internazionale. Per la commedia “I giorni della vita” gli fu conferito il Pulitzer che rifiutò, sia perché convinto che il lavoro non fosse «né più grande né migliore» delle altre cose che aveva scritto, sia perché riteneva il premio una valutazione commerciale dell’arte. Dal testo teatrale “Il mio cuore è sugli altipiani” (1939), A. Brissoni nel 1957 trasse il film con Albertazzi; mentre da “La commedia umana” (1942) fu ricavato il film di C. Brown con Mickey Rooney che vinse l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale. Seguirono i romanzi autobiografici “In bicicletta a Beverly Hills” (1952) e “Ti voglio bene mamma” (1957). Col tempo la sua vena si appannò sfumando nel sentimentalismo e nel bozzetto, sparirono i conflitti e diminuì la forza coinvolgente della sua condanna sociale e dei suoi personaggi vibranti di vita. I lettori, tuttavia, continuarono ad amare questo autore che incarnava il tipo medio americano, pur essendo così originale e sempre ispirato dalla sua infanzia complicata, dalla famiglia armena, dal difficile matrimonio, dalla paternità e dal sofferto divorzio (nei suoi testi, sono fortissimi gli elementi autobiografici).
Dal 1958 per motivi fiscali andò a vivere a Parigi; in questo periodo scrisse: «Sono un uomo alienato... alienato da me stesso, dalla mia famiglia, dai miei amici, dalla mia patria, dal mio mondo, dal mio tempo, dalla mia cultura». Morì di cancro a 72 anni il 18 maggio del 1981 nell’amata Fresno; amante della vita, lasciò scritto: «Tutti devono morire, ma ho sempre pensato che nel mio caso si sarebbe fatta un’eccezione. E ora che succede?». Molte delle sue carte e diversi suoi manoscritti sono conservati presso la Stanford University, mentre a Fresno è stata creata la “The William Saroyan Society” per custodire la memoria di questo grande americano.

Di Silvia Iannello


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