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Edna Ferber e gli ideali della borghesia media americana del Midwest negli anni ‘20 e ‘30

Pubblicato il 15-04-2008


Il 16 aprile del 1968 (40 anni addietro), nella sua casa di Park Avenue a New York, moriva  Edna Ferber. Nata nel 1887 nella provincia americana (Kalamazoo, Michigan) da una modesta famiglia di negozianti di origini ebreo-ungheresi, dopo un lungo girovagare per l’America appresso al padre di salute cagionevole e con problemi economici, a 12 anni si fermò ad Appleton nel Wisconsin, ove giovanissima iniziò a lavorare come reporter presso l’“Appleton Daily Crescent” per potersi mantenere agli studi.
Orgogliosa delle sue origini ebraiche, negli anni giovanili dovette subire insultanti atteggiamenti anti-semiti che suscitarono in lei una dura reazione di denuncia sociale nei confronti di qualsiasi anti-razzismo. Fu giornalista, corrispondente di guerra, scrittrice e commediografa, mettendo al centro della sua opera il piccolo interessante mondo della borghesia americana del Midwest e la sua brusca evoluzione sociale durante gli anni ‘20 e ‘30. Inizialmente, la critica sospettò che dietro il nome femminile fosse nascosto sotto pseudonimo uno scrittore di sesso maschile: Edna non si adontò per questa ipotesi anzi ne fu orgogliosa, perché era convinta che uno scrittore dovesse essere giudicato per le sue qualità, a prescindere dal sesso o dal colore della pelle.
Riuscì a raggiungere il cuore del pubblico medio americano con una serie di racconti brevi dedicati a un’eroina, Emma, che agiva in modo aggressivo nei panni di una donna d’affari di successo (in “Emma McCheneshey and Co.” del 1915), nei quali descriveva la battaglia delle donne per trovare un realizzazione nel mondo del lavoro e del “business”, affrancandosi da una tradizione secolare di passività nella conquista di un più moderno stile di vita. Ai suoi testi è stata rimproverata una certa superficialità priva di approfondimento psicologico, ma si è riconosciuto anche uno stile coinvolgente e vigoroso. Autrice prolifica, la Ferber ha scritto 13 romanzi, 8 commedie, due autobiografie e una serie innumerevole di brevi racconti. A “So Big”, che fu un vero bestseller (vendette più di 300.000 copie), fu conferito il premio Pulizer nel 1924. Dai suoi testi più importanti furono tratti musical e sceneggiature di famosissimi film, girati in epoche differenti:
- “Show boat” (1923), da cui Edna trasse la commedia del 1937 che ispirò un celebrato musical di Broadway (“Ol’ Man River” musicata da J. Kern con testo di O. Hammerstein è divenuta la canzone-simbolo della musica nel cinema e nel musical; dei versi della canzone, la scrittrice disse: «Li considero potenti, naif, tragici, e veri») e diversi film: uno del 1936 di J. Whale con Irene Dunn e Allan Jones, e un altro del 1951 di G. Sidney con Katryn Grayson e Ava Gardner;
- “So Big” (1924) che ispirò il film del 1932 di W.A. Wellman con Bette Davis e Barbara Stanwick, e il remake del 1953 di R. Wise con Jane Wyman; 
- “Cimarron” (1930) che ispirò il film epico del 1931 di W. Ruggles con Richard Dix e Irene Dunn, e quello del 1960 di A. Mann con Glenn Ford e Maria Schell;
- “Saratoga Trunk” (1941) che ispirò sia un musical di successo che il film del 1946 di S. Wood con Gary Cooper e Ingrid Bergman;
- “Giant” (1951), divenuto il famoso film del 1956 di G. Stevens con Elizabeth Taylor, Rock Hudson e James Dean (quella di Jett Rink fu la sua ultima struggente interpretazione).
Col drammaturgo e regista-produttore teatrale George S. Kaufmann, suo coetaneo (anch’egli di origine ebraica), scrisse diverse commedie, tra le quali “Pranzo alle otto” (1931) trasposta nel famosissimo film del 1933 di G. Cukor con Jean Harlow, e con John e Lionel Barrymore.
Edna fu così presa dalla letteratura da non sposarsi mai; morì di cancro a ottantadue anni nel 1968, lasciando beni e diritti di autore all’amata nipote Janet Fox, che fu attrice e che recitò in molte commedie della zia. Un necrologio apparso sul “New York Times” dopo la sua morte riportò che la nazione e i critici degli anni ‘20 e ‘30 non avrebbero esitato a definirla «la più grande scrittrice americana di quegli anni».


Di Silvia Iannello


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