Piero l’aveva trovato solo un giorno e mezzo dopo, quando stavano per dare l’allarme anche in Italia. Tutta l’isola aveva saputo la storia dell’italiano che era scappato e magari si era tolto la vita.
A lui di uccidersi non era mai passato dalla testa. Aveva, questo sì, avuto voglia di uccidere, ma anche questa gli era ben presto passata. Voleva starsene per conto suo, da solo cullarsi il suo dolore, curarsi con la medicina del risentimento e dell’autocommiserazione.
All’inizio si era steso sul fondo di una piccola barchetta nel porto. Sotto una tendina che lo proteggeva dal sole e dagli sguardi dei curiosi, si lasciava dondolare dal mare che compativa le sue pene e scioglieva piano il suo odio. Lì era stato fino all’alba del giorno dopo, quando il pescatore proprietario della barchina lo svegliò. Era un uomo strano con corpo da vecchio e un viso da giovane, lunghi capelli neri che gli arrivano alle spalle e due occhi dolci e vivacissimi. Il viso era disteso e privo di rughe, il corpo magro, rinsecchito, leggermente piegato in avanti e segnato da tante cicatrici. La voce era profonda, forse troppo per quel corpo esile, il suo italiano fatto di pochi termini ma corretti.
E fu anche strano che non gli chiese niente, non volle sapere nulla ma gli disse “Se vuoi stare solo, conosco posto buono per te”.
Lui fece un cenno d’assenso, il pescatore liberò la cima, si mise a remi e partirono. Quando furono fuori del porto, si fermò, apri una sacca, ne cacciò fuori un pezzo di pane e uno di formaggio e li divise con lui. Poi prese una bottiglia di vino denso e scuro che colorava il vetro. Lui tentò di rifiutare il vino, dicendo d’essere astemio.
“Astemio, cosa essere astemio? Bevi, non vino questo, questo medicina per te”.
Bevve un sorso, poi bevve ancora e poi ancora di nuovo. E fu davvero salutare.
Non si ricorda quando il pescatore si rimise ai remi né quando arrivarono e scese dalla barca. L’ultimo ricordo è il vino denso che gli riempiva la bocca e anestetizzava il dolore.
Piero lo aveva trovato in una grotta naturale di una piccola caletta sconosciuta i più.
Nel vederlo, gli si era fatto incontro abbracciandolo stretto.
“Portami via” gli disse “Non voglio vedere nessuno né quella puttana né quel bastardo”.
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Pizza, mondiali e maturità. In realtà, il loro motto, tutto maschile, era “fica, mondiali e maturità”. E specificavano, “nell’ordine”. Anche se qualcuno, pochi esaltati, era disposto ad mettere i mondiali prima della fica.
Ma avevano usato una versione più soft e unisex.
15 membri del gruppo: mancavano in pochi. La Marinella, la più intelligente e libera della classe, era sicuro che si sarebbe tenuta fuori dalla nuova schiavitù dei social network, e infatti non c’era. Poi ne saranno mancati degli altri, perché in classe erano una ventina, ma non gli venivano in mente.
Anna non ci poteva essere, visto che era un anno più piccola. Ma c’era Massimo. Quanto l’aveva odiato: quanto l’odiava ancora, trent’anni dopo.
L’odiava non tanto perché s’era scopato la sua ragazza: in fondo visto che lei c’era ampiamente stata, forse, forse gli aveva anche fatto un piacere. Ma l’aveva condannato al cinismo, tradendolo. Aveva ucciso quel ragazzo aperto, cordiale, fiducioso in tutti e l’aveva trasformato in una persona aggressiva e diffidente: gli aveva strappato l’illusione che il mondo fosse innocente. D’allora non scendeva in strada se non indossava la sua armatura.
E alla fine si trovò sul suo account, quasi senza volerlo. Non gli aveva chiesto l’amicizia, e non gliela comunque avrebbe data se lui avesse avuto il coraggio di chiederla. Ma Massimo aveva settato il suo profilo in modo che tutti i membri del gruppo PMM lo potessero vedere.
Seguendo un infantile desiderio, sperava di scoprirlo solo, fallito e infelice. Ma ovviamente non fu così. Era un professore universitario di Storia alla Sapienza. Sposato con Giulia, una donna non bellissima, ma dal viso intelligente e con un corpo ancora discreto almeno se erano veritiere le foto sul suo profilo. Tre figli, due femmine e un maschio, un mucchio di amici e una collaborazione con blog di politica contemporanea di cui aveva sentito parlare.
La vita sembrava essere stata più che generosa con lui.
Sorrise all’idea che Massimo campava con la storia e lui aveva vissuto una storia che non lo faceva campare.
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Piero era sulla barca di Christos che si era offerto di aiutarli a cercarlo.
“Voglio tornare a casa, senza vederli, aiutami”.
Senza fare troppe domande, Piero lo caricò sulla barca e invece di raggiungere il porto turistico vicino alla casa presa in affitto, andarono al porticciolo dei pescatori e Christos lo piazzò in casa sua per farlo riposare e per dargli da mangiare e da bere.
Voleva ringraziare il pescatore che lo aveva portato alla grotta e lo aveva curato con il vino. Lo descrisse a Christos perché lo portasse da lui. Christos si fece ripetere la descrizione e ogni volta faceva delle domande sempre più particolari sui modi di fare e sull’aspetto del pescatore che lo aveva aiutato.
Tanto che lui rimase stupito quando il pescatore disse, non senza mostrare imbarazzo:
“Non conosco nessuno così, non so chi sia.”
Piero organizzò tutto: prese i suoi bagagli dalla casa che avevano preso in affitto, cambiò la data al suo biglietto, lo accompagnò al traghetto. Gli aveva chiesto ripetutamente se volesse essere accompagnato, ma lui rifiutò. Voleva viaggiare da solo, così, forse, poteva dimenticare ciò che era avvenuto.
Nel salutarlo, Piero gli chiese:
“Ma cosa hai raccontato a Christos per turbarlo tanto?”
“Niente di particolare. E lui che mi è parso strano, io volevo solo mi conducesse dall’uomo che mi aveva aiutato”.
“Christos dice che questo tizio è morto dieci anni fa”.
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“Mi scusi signora, ma ha mica visto un libro che ho dimenticato su questa panchina”.
La voce era leggermente affannata, come di uno reduce da una corsa.
Giulia alzò gli occhi e subito arrossì.
Era stata sorpresa a leggere la dedica.
“Non so se mi spaventa di più l’idea di perderti,
o quella di perdermi in te. Per sempre”
“Oh, mi scusi. Era qui sulla panchina. L’ho preso istintivamente”.
“Non si preoccupi. L’importante è che l’ho ritrovato.”
Senza chiedere permesso si sedette alla panchina.
“Mi scusi se approfitto, ma ho fatto una corsa, appena mi sono accorto di averlo lasciato qui.”
“Per me questo libro è importante e non voglio perderlo”.
Giulia gli porse il libro. Era “Di cosa parliamo quando parliamo di amore” e disse.
“Anche a me piace molto Carver, anche se questo non l’ho ancora letto”
“E’ il mio scrittore preferito: i suoi racconti sono asciutti, taglienti. Sono carta vetrata che leviga la vita quotidiana. Racconta in modo mirabile vicende banali di persone mediocri, rendendole storie straordinarie.”
Poi ridacchiò e continuò: “Ho usato troppi aggettivi, Carver non scriverebbe mai un dialogo così”
Sorrise anche lei.
“E poi sono legato proprio al libro, al volume”.
“La capisco. La persona che glielo ha regalato deve volerle molto bene”.
Lui la guardò con fare interrogativo.
“Le chiedo scusa ma ho letto la dedica, volevo vedere se c’era un nome, così magari da restituire il libro”
“Io. Io le volevo molto bene. Che dico... l’amavo da morire. L’ho scritta io la dedica. Quando mi ha lasciato, cinque mesi fa poco prima che ci sposassimo, non ho voluto niente indietro. Le ho chiesto solo di ridarmi il libro con la dedica”
“Pensi che non si ricordava nemmeno dove l’avesse messo”.
“Si dice che un diamante è per sempre; sbagliato. Una parola, una parola scritta è per sempre”.
La guardò negli occhi. Il suo viso era più bello visto da vicino, le foto non le rendevano giustizia. Lei rispose al suo sguardo senza abbassare gli occhi.
Quasi vergognandosi di essersi aperto troppo, saluto frettolosamente e andò via, senza presentarsi.
Voleva che lei pensasse a lui con curiosità e mistero.
Fece passare un paio di giorni e tornò.
Tornò con un sorriso e un pacchettino in mano. Sapeva di trovarla alla solita panchina.
Lo sguardo che lei gli regalò quando lo vide gli confermò che il piano che aveva studiato con cura funzionava a meraviglia: il pesce stava abboccando.
“Mi sono permesso di comprarti una copia del libro dell'altra volta e speravo proprio di ritrovarti qui.”
Le disse passando direttamente al tu.
Non era speranza, era certezza, l’aveva osservata bene nei giorni precedenti. Così come consultando il suo account su facebook aveva scoperto anche i suoi gusti letterari.
Iniziarono a parlare, di letteratura, di vita e di loro stessi.
Era un bell’uomo, consapevole del fascino che esercitava sulle donne. E poi ci sapeva fare.
Benché fosse profondamente diffidente nei confronti delle donne, o forse proprio per questo, le conosceva bene. Sapeva parlar loro e ancora di più le sapeva ascoltare.
Amava le donne così quanto odiava l’amore.
Fu più facile di quanto avesse pensato.
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La portava sempre allo stesso albergo, dove portava tutte le sue conquiste, almeno quelle che non avevano una casa dove far l’amore. Nessuna era mai venuta a casa sua, con nessuna aveva mai passato la notte.
Aveva filmato di nascosto buona parte dei suoi incontri con lei.
La faceva parlare del matrimonio e della vita sessuale con suo marito. La spingeva a fare paragoni dai quali lui usciva vincente e Massimo umiliato. Le faceva dire che pensava a lui e al suo cazzo mentre apparecchiava la tavola o aiutava i figli a fare i compiti o mentre faceva malvolentieri l’amore con il marito.
Il suo piano era quello di mettere i filmati in rete nei siti di video hard amatoriale. Di lì si sarebbero facilmente diffusi e prima o poi qualcuno avrebbe riconosciuto la professoressa di matematica del liceo Pasteur o meglio ancora la moglie di un noto professore della Sapienza. E avrebbe avuto la sua vendetta. E avrebbe trovato pace. Almeno così pensava.
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“Sai ieri a scuola è successo un piccolo dramma. Due ragazzi si sono presi a botte”.
Dopo l’amore siamo tutti diversi. C’è chi si addormenta, chi si fuma la classica sigaretta. Una donna con cui aveva passato un mese denso di incontri, aveva l’abitudine di mangiare appena fatto l’amore. Si portava sempre dei biscotti da mangiare dopo a letto.
“L’antica e vecchia questione del triangolo: lui aveva sorpreso la sua ragazza con il migliore amico”.
Abbiamo comportamenti diversi dopo l'amore. Giulia parlava, parlava, parlava. Gli raccontava episodi della sua giovinezza così come episodi di vita familiare o dei suoi studenti.
“Praticamente non abbiamo fatto lezione: fortuna che nelle ultime due ore avevo compito in classe nella terza. Altrimenti avrei dovuto gestire io anche il dopo scazzottata: sono il docente referente della classe.”
Lui rispondeva spesso a monosillabi inserendo una sorta di pilota automatico della conversazione che gli permetteva di rimanere nel suo mondo e di pensare alle sue cose. Adesso poi era del tutto indifferente. Aveva deciso di finirla lì. La sera prima aveva caricato in rete la maggior parte dei video, nei quali aveva oscurato il suo viso mentre quello di lei era ben in evidenza. Tanto lui fra 10 giorni sarebbe partito. Ma avrebbe seguito tutto sul pc. Lo scandalo sarebbe stato grande.
Ma all’improvviso il suo radar d’emergenza captò qualcosa che lo interessò: le parole Massimo e Grecia. Si sintonizzò immediatamente sul racconto di Giulia.
“Ma la storia di Massimo era molto più complessa e romantica. Non riuscì mai a dirglielo al suo amico. Lui non lo volle mai incontrare. Poi gli scrisse una lettera, ma non ha risposto.”
“Comunque al mio alunno è saltato un dente e vuole chiedere i danni”.
“Scusa cosa hai detto?”, chiese interessato mentre il cuore gli era saltato in gola.
Si era messo a sedere sul letto e il suo viso era teso.
“Ti stavo dicendo che i dentisti ci guadagnano anche dai conflitti amorosi adolescenziali.”
“Che cazzo me ne fotte dei dentisti, raccontami di tuo marito e della Grecia”.
“Che te ne importa? E’ una storia di trent’anni fa.”
“Ma non se l’era scopata Massimo, la ragazza del suo amico? “
“No”.
“Allora era Piero!”
Lei spalancò gli occhi del tutto sorpresa.
Le aveva preso le spalle fra le mani e la stava strattonando.
“Allora è stato Piero? Dimmelo cazzo.”
La lasciò subito quando vide che la sua espressione era passata dalla sorpresa al timore.
“Piero si, Piero quel gran figlio di buona mamma. Io non lo sopporto. Lo sai che ci provò anche con me poco tempo dopo che mi ci eravamo messi insieme. Massimo comunque ha praticamente smesso di frequentarlo: non gli ha mai perdonato di non aver confessato la verità al loro amico.”
Poi lo guardò dritto negli occhi e aggiunse, “Ma tu come sapevi che si chiamava Piero?”
Lui si stava già rivestendo.
Si ricordava delle lettera che gli era arrivata quasi un mese dopo. L’aveva tenuta sul tavolo indeciso se leggerla per più di dieci giorni. Poi l’aveva buttata nel camino senza aprirla.
Si girò verso Giulia, le accarezzò il viso.
“Perdonami, perdonatemi”, le disse.
Lei si meravigliò delle parole ma ancora di più del viso distrutto dal dolore. Le lacrime che gli stavano riempiendo gli occhi, li rendevano ancora più verdi e vivi. Quegli occhi le avevano fatto fare cose che mai avrebbe immaginato di fare, quegli occhi che gli avevano fatto dire che mai aveva detto a Massimo e che credeva che non avrebbe detto mai a nessuno. Quegli occhi che ora amava disperatamente.
Lo vide andar via e ancora non capiva perché. Ma sapeva che non l'avrebbe più visto. E allora pianse anche lei.