Appena sentì il tocco sulla spalla, aprì gli occhi. Aveva dormito per un’ora ed era ancora mezzo rincoglionito. Riconobbe il volto di suo padre, ma per qualche istante non capì dov’era. Finché ricordò di essere in treno. Allora sogghignò al faccione serio che aveva di fronte e, mentre stiracchiava le gambe, voltò il capo e guardò l’orizzonte attraverso il finestrino.
La campagna era finita da un pezzo. Erano scomparsi i boschi, le montagne in lontananza e il lago. Adesso non scorgeva più niente di familiare. Nulla che gli piacesse; soltanto palazzi grigi, lunghi viali trafficati e luci colorate nel crepuscolo.
«Ancora dieci minuti e saremo in stazione» sussurrò suo padre.
Lui assentì, ma non distolse lo sguardo dal finestrino.
«Vedrai» aggiunse l’uomo. «Ti piacerà!»
“Ti piacerà!” ripeté a se stesso, e per un attimo avvertì il desiderio di piangere.
«Capisco ciò che stai provando» continuò suo padre. «L’ho sperimentato anch’io. Ricordo benissimo quando andai in collegio. Te l’ho raccontato tante volte. Il mio vecchio, tuo nonno, mi aveva comprato un vestito nuovo per l’occasione: un completo blu notte. Mi faceva sentire molto strano. Come se dovessi affrontare una prova di coraggio… E le mura dell’istituto quando arrivai: Gesù mio, che posto! Pareva una prigione. Dico sul serio! Pensavo che stesse cambiando tutto attorno a me, ma non ero infelice. Non sentirti triste.»
«Non sono triste!»
«So che non mi deluderai. Sei sempre stato un bravo ragazzo. Farai strada. Diventerai qualcuno. Ti abituerai, ne sono sicuro. Non fare i miei errori. È la scelta migliore che poteva capitarti. Non avere paura.»
Si girò a guardarlo. «Non ho paura!»
«Già! Hai quattordici anni ormai. Sei grande.»
«Lo so!»
«Quella ragazzina, come si chiama?»
Glielo disse
«La dimenticherai, puoi esserne certo. Tra qualche mese scorderai addirittura il suo nome. Conoscerai altre ragazze. Ti innamorerai, ne sposerai qualcuna e avrete dei figli. Sarete felici. Così vanno le cose. Ora, però, vai a lavarti la faccia, siamo quasi arrivati.»
Ubbidì. Si alzò e attraversò la carrozza sino alla toilette. Entrò, chiuse la porta alle sue spalle, fece pipì in equilibrio precario e poi sciacquò gli occhi e le guance con l’acqua fredda davanti allo specchio. Si soffermò a osservarsi il viso: era emaciato e si vedeva diverso. Forse aveva ragione suo padre.
Ritornò da lui nel momento in cui il treno imboccava, rallentando, una delle arcate d’acciaio della Stazione Centrale. Attese in piedi che si fermasse, poi aspettò che suo padre levasse le borse dal portabagagli.
Scesero. Suo papà portava il bagaglio e lui lo seguiva rimanendo sulla destra. Percorsero i lunghi e lucidi corridoi interni in silenzio, tra la folla che li guardava curiosa.
Suo padre aveva il bagaglio ma era come se lo portasse lui: un peso da trascinare senza parlare per chissà quanto tempo. Scesero una larga scalinata e oltrepassarono le biglietterie e alla fine sbucarono sul piazzale della Stazione nelle luci della sera che parevano mosse dal vento.
Ma non si trattava di un disturbo del vento; era il calore dell’astronave a creare l’effetto. Era proprio lì davanti e rimase senza fiato. Non credeva che facesse questa sensazione vista da vicino. Era molto più grande di quello che aveva sospettato e occupava tutta la piazza di fronte all’Hotel Gallia.
Avvertì davvero un po’ di timore a questo punto e si strinse a suo padre mentre si avvicinavano timidi all’ufficio di imbarco.
La ragazza dietro il banco sobbalzò sulla sedia appena li vide. La osservò guardare suo padre, e notò quando gli lanciò un’occhiata mista di stupore e di meraviglia. Alla fine si compose sullo sgabello e sorrise. «Avete i documenti?» chiese.
«Solo lui parte» disse suo padre.
«Oh» rispose la ragazza. Tornò a osservarlo curiosa. «E dove vai?»
«Diglielo» lo supplicò suo padre.
«Do… Dogon» balbettò.
«Sul sistema di Sirio B?» chiese la ragazza.
«Aha, in collegio» rispose.
«In collegio… che bravo.»
Lui sorrise.
«Non avevo mai visto un terrestre» disse la ragazza senza levargli lo sguardo di dosso. «Siete una rarità. Dicevano che eravate estinti.»
Suo padre sogghignò. «Siamo duri a morire.»
La ragazza alzò le spalle. «Lo vedo.»
Lui non disse nulla. Si limitò ad ascoltare e sedette in disparte ad aspettare che papà finisse con le procedure necessarie alla partenza. Guardò di nuovo l’astronave. Risplendeva trasparente nel chiaroscuro della sera e metteva soggezione. Pareva pronta al decollo e c’era una fila di viaggiatori pronta per l’imbarco.
Dieci minuti e sarebbe stato uno di loro. Poi via. Sei mesi a zonzo tra le stelle, giorno più giorno meno. Sei mesi su una nave spaziale, finché sarebbe sbarcato su un pianeta che orbitava attorno a una stella di cui conosceva l’esistenza solo grazie ad alcuni libri che aveva letto. La sua nuova casa per i successivi dieci anni. Un collegio per il suo avvenire. Dieci anni di nuove scoperte, emozioni, nuove tristezze e malinconie.
Pensò che sarebbe cambiato tutto della sua vita, ma sarebbe stato forte. Avrebbe mangiato pietanze particolari e avrebbe incontrato esseri diversi. Avrebbe imparato una lingua diversa e forse sì, si sarebbe innamorato di un'altra ragazza. Probabilmente si sarebbe sposato e avrebbe avuto dei marmocchi, come sosteneva suo padre. Magari avrebbe perso la testa per una donna uguale a quella che lo aveva appena accolto.
Sorrise e la guardò di nuovo.
Pensò che il colore verde della pelle e gli occhi rosa dello sguardo non fossero poi così strani una volta visti da vicino, ma l’odore no. Quello strano e intenso aroma misto di agrumi e candeggina che emanavano era proprio duro da digerire. No, difficilmente si sarebbe abituato a una di loro, neanche in dieci anni di tempo.