Francesco
Avrebbe voluto dirglielo al suo capo: lasciami in pace.
Lo usavano come caprio espiatorio di tutte le rogne dello studio: era l’avvocato delle cause già perse, quelle rognose, impossibili, ma lui era dannatamente bravo. Conosceva il diritto, eccelleva nella sua interpretazione, era un vero fuoriclasse. Lo sguardo azzurro e saldo da dominatore, la bellezza tagliente dei lineamenti, gli attiravano in egual misura invidiosi ed apostoli con il loro corollario di sgambetti e suppliche.
Francesco era tornato a casa quella mattina perché aveva dimenticato dei documenti.
Il caos che lo accolse era innaturale. Ludovica nutriva un gusto maniacale per gli assetti geometrici e minimalisti del suo ambiente: non usciva mai prima di aver sistemato ogni cosa.
Il letto disfatto, i panni spiegazzati sulla poltrona, la macchinetta del caffè smontata nell’acquaio, le ciabatte abbandonate nel corridoio, la scarpiera aperta, erano un grido lacerante, l’immagine scomposta di un vetro, un nanosecondo prima di disintegrarsi in mille pezzi.
Francesco lavò la caffettiera, la riempì, la mise sul fuoco, si allentò la cravatta.
C’era una lava di ansia pronta a scivolargli addosso da un foro imprecisato del soffitto, riusciva tenerla lì sospesa semplicemente ignorandola.
Alla seconda tazzina di caffè il suo capo lo chiamò per avvisarlo che l’udienza di quella mattina era stata rinviata. Stai a casa e mettiti a lavorare alla memoria difensiva del Rinaldi; Francesco capì solo: stai a casa. Era quello che avrebbe fatto in ogni caso, una volta tanto era d’accordo con il suo capo.
Fece un po’ di ordine poi si decise a cercare sua moglie, così, tanto per comunicarle penso io al pranzo, pochi secondi, che ci voleva? Ludovica era al lavoro come sempre, era lui fuori luogo, fuori tempo. Certo, c’era quella faccenda del disordine, quel tassello che non entrava nel puzzle, il brutto anatroccolo figlio di un’altra storia ma insomma.
Cercò sua moglie in ufficio ( la signora ha avvisato che sarebbe rimasta a casa perché aveva la febbre); al cellulare ( il cliente desiderato… ); chiese di lei in garage ( l’auto è stata prelevata come sempre alle 8.30).
L’azzurro cupo dello sguardo era una striscia di terra irrigata dall’angoscia ora.
Telefonò ancora: amici, parenti, conoscenti. Nessuno l’aveva vista.
Erano le 12.20. Alle 13.30 Ludovica torna a casa. Sempre. Un’ora, solo un’ora poi chiamo la polizia.
Quanto può durare un’ora così? Infinitamente. Cosa si può fare in un’ora del genere? Qualcosa di memorabile, da poter poi raccontare cominciando così: “ E mentre aspettavo che trascorresse quell’ora interminabile mi misi a…”
Sembra facile, anche la grazia leggera del funambolo fa sembrare illusoriamente naturale il suo camminare su di un filo sospeso a molti metri dal suolo.
Si mise a fare una torta. Era difficile per lui, questo lo avrebbe costretto a concentrarsi. Era una cosa frivola, quindi lo avrebbe obbligato a vivere quell’ora all’interno di un destino di normalità e leggerezza senza virare un’ora prima verso la tragedia.
Era una scelta adeguata.
Si liberò rapidamente del suo giacca-cravatta di ordinanza e si consegnò docile alla sua morbida tuta blu di pile.
Indossò il grembiule di Ludovica. Prese il libro con le ricette delle torte dalla mensola; lo riconobbe dal dorso azzurro perfettamente allineato a quello rosso delle ricette macrobiotiche e a quello giallo della cucina vegetariana. Sfogliò e si fermò a pag.10:
PASTAFROLLA
Fare la fontana con la farina, riunire al centro il burro a pezzetti, morbido, aggiungere lo zucchero e cominciare a lavorare…
La farina scorreva dalla fontana della busta, scivolava,
come uno scroscio d’acqua scendeva senza scemare da quel cielo di carta.
Pioveva a dirotto quel giorno. Ludovica correva. Francesco leggeva il giornale seduto nell’autobus n.4 Ferrovia – Tribunale.
Ludovica entrò in un autobus a caso fermo alla stazione per sfuggire a quello schiaffo d’acqua inesorabile. Era furiosa.
Francesco le sorrise. Lei, grondante, gli sorrise. Parlarono fino alla fine della pioggia.
…aggiungere sale, marsala, tuorli, scorza di limone
Piovve molto quell’inverno e Ludovica continuava a dimenticare l’ombrello. Continuavano ad incontrarsi nell’autobus. Dopo poco tempo conoscevano tanti dettagli l’uno dell’altro che sommati, aggregati, diventarono piccoli cristalli di sale, una fitta grandine di ricordi.
Il disco giallo del sole era un tuorlo d’uovo perfetto dopo la pioggia quando loro, al bar di fronte alla stazione, consumavano l’ormai solita cioccolata calda con scorza di limone, alla maniera amalfitana.
… lavorare velocemente l’impasto, farne una palla e metterla a riposare al fresco una mezz’ora, avvolta in un panno bianco…
Di quel primo appuntamento fuori dall’autobus, Francesco ricordava le lenzuola candide di bucato della casetta al mare, tirata a lucido da Ludovica.
Si abbracciarono talmente tanto da sembrare una palla di farina impastata, morbida carne umana dopo la breve lotta di un desiderio urgente, lievitato molto tempo prima nell’immaginazione.
Ore 13.00
Decise di preparare la marmellata di cachi da mettere sulla pasta frolla.
Lavare i cachi e togliere i noccioli…
Senza quel cuore duro i cachi si aprivano nelle sue mani, da un solo frutto saldo si staccavano facilmente quattro pezzi separati.
Fu così anche dopo l’incidente, dopo la morte di Lorenzo e zio Valerio: zia Ester, Ludovica, sua madre, suo padre, divennero un frutto smembrato.
Frullare la frutta e aggiungere zucchero e succo di limone
Ludovica era cambiata dopo la morte del fratello e dello zio.
Più dolce in certi momenti, come un cieco che si affida alla mano che lo sorregge, ma anche scontrosa, aspra, nei giorni in cui certe assenze diventavano insopportabili. In quei momenti continuava a girare nel labirinto delle sue domande, come in un frullatore che amalgama tutto, fino a rendere irriconoscibili la realtà e la fantasia, il passato e il presente, la morte e la vita.
Ore 13.20
La cucina era in ordine, con gli odori ancora nitidi, rinfrescati dallo scroscio dell’acqua appena spento: aveva lavato tutto.
La paura lo aggredì all’improvviso, sembrava emersa dallo strofinaccio con cui si stava asciugando le mani. Da dove altrimenti? Da quale foro dell’anima sbuca quel turbamento che rende tutti piccoli allo stesso modo? E’ un livellatore di potenza la paura, sinistramente tendente allo zero.
Ore 13.25
Spalmava la marmellata sulla pasta frolla. Crostata di cachi, una buona unione, pensò, con tutti gli ingredienti giusti:
una lava incandescente di marmellata appassionata su di una terra compatta di pasta frolla per un solido progetto di vita in comune;
l’argine rispettoso della crosta per evitare derive appiccicose;
l’accogliente porosità disponibile alle contaminazioni ma non alle fusioni.
Ecco: era pronta.
Ore 13.28
Se adesso entri da quella porta,
ti dico le cose più dolci, più banali, perché siccome non te le dico mai sono diventate solo mie come il tesoro di un avaro, la refurtiva di qualcosa che ti appartiene;
Se adesso entri da quella porta,
ti chiedo scusa per aver fatto diventare normale e ordinaria la tua presenza nella mia vita, per aver banalizzato la gioia, il privilegio di te;
Se adesso entri da quella porta,
pronuncio la mia arringa più commovente, la mia difesa più alta, per convincere il tuo dolore a lasciarti andare alla tua vita, alla tua vita con me;
Se adesso entri da quella porta…
Lo scatto della serratura lo colpì in pieno petto.
I passi nel corridoio.
Le chiavi poggiate sul mobile di fronte all’attaccapanni, sotto lo specchio.
Il cappotto sfilato.
I passi.
Più vicini.
Sempre più nitidi.
Ad un passo.
“Francesco”
“Ludovica”
“ “
“ “
“ Ho fatto la crostata.”