Sono in fibrillazione da quando mi sono (ri)registrata... è possibile?
"Posto o non posto? Forse è meglio di no... potrei non... ma sì, dai... o forse... e se poi... sarebbe meglio... occhei no. Posto." Sto facendo questo da un'ora! Ero indecisa anche su cosa postare, perchè mi sono accorta che in tutto questo tempo non sono riuscita a scrivere niente di realmente leggibile... pensieri sparsi o qualche idea abbozzata, niente di più. Mi sono anche accorta che la vera spinta veniva da qui... l'ispirazione veniva da qui... la voglia di fare, anche.
Poi ho trovato uno scritto che mi rispecchia molto, e ho deciso che era il migliore per ripresentarmi e tornare tra voi. Bhè, sempre che voi mi vogliate ancora.
Oh! La smetto di annoiarvi và.... eccolo qui. Premetto che più che un racconto originale è una fan-fiction (e so già che piacerà ad uno in particolare... nel caso in cui voglia leggera..........). La finale del Roland Garros secondo Francesca Schiavone.
Dallo spogliatoio sentivo il brusio del pubblico in tribuna. Ormai mancava veramente poco, pochi minuti, perché iniziasse la finale del torneo. Continuavo a saltellare sul posto, nervosa. Nella mia mente si facevano largo mille pensieri, confusi, annodati, complicati. La testa rischiava di scoppiarmi. Diedi un’occhiata all’orologio, mentre mi piegavo per fare stretching. Tre minuti. Mi rialzai e ricominciai a saltellare. Andai al borsone, controllando che fosse tutto pronto. Non mancava nulla. Guardai di nuovo l’orologio, che scandiva i secondi, lento. Ero impaziente, ma allo stesso tempo non avrei voluto varcare l’ingresso dello stadio. Sugli spalti c’erano tutti: il mio allenatore, il mio preparatore atletico, i miei amici, i miei tifosi. I miei genitori erano a casa, a guardare la partita in tv insieme a mezza Italia. Tutti credevano in me, speravano che vincessi, mi incitavano. Sentivo la responsabilità di portare il mio paese alla vittoria, ma anche la paura di deludere tutti coloro che tifavano per me. Quei pensieri e quell’attesa mi stavano lacerando. La tensione si faceva largo dentro di me, divorandomi. Mi concentrai: dovevo sentire solo il mio cuore che batteva, forte, veloce. Chiusi gli occhi e respirai profondamente, sentendo l’orologio scandire gli ultimi secondi con il suo monotono ticchettio. Sospirai e riaprii gli occhi, dirigendomi verso il corridoio che portava al campo. La presentatrice stava annunciando con voce chiara i nomi dei guardalinee e dell’arbitro. La sentii pronunciare il nome della mia avversaria, che in quell’istante mi passò davanti senza considerarmi minimamente. Poi fu detto il mio, ed usci anch’io. Mi trovai al centro di uno stadio enorme, tutt’intorno gli applausi e le grida di tanta gente. Troppa. Per un secondo mi sentii mancare, poi mi ripresi, decisa. Poggiai il borsone sulla panchina alla sinistra dell’arbitro, e tirai fuori la racchetta. La guardai, attenta. Le corde erano nuove, il manico pulito. Era stato cambiato anche il grip. L’anti-vibration fosforescente risaltava sul piatto corde. Rialzai lo sguardo, incrociando quello di Samantha. Mi avvicinai alla rete e le strinsi calorosamente la mano. Avevamo giocato svariate volte insieme. Conoscevo il suo modo di giocare - quel dritto micidiale – e potevo ritenere di conoscerla anche al di là dei campi da tennis. L’arbitro prese una moneta e dopo aver stabilito testa o croce, la tirò. La battuta spettava a lei nel primo game. Tornammo a fondo campo e iniziammo a palleggiare. Tentai di sgomberare la mente e di pensare solo a riscaldarmi. Dopo qualche colpo provammo i servizi. Li misi a segno tutti e quattro con precisione. Era un buon segno: ero in forma. Ma anche la mia avversaria lo era.
L’arbitro chiamò l’inizio della partita, e Samantha si preparò a servire. Mi piegai leggermente, in posizione d’attesa, ondeggiando con le gambe e pronta a scattare. Sentivo l’adrenalina scorrere nelle mie vene, e gli occhi di tutti puntati ora su di lei, ora su di me. Bum, bum, bum. Il mio cuore non voleva rallentare. Di questo passo avrei avvertito la fatica ai primi colpi. Inspirai ed espirai, prima di correre verso la palla. I miei piedi filavano sulla terra, il campo quel giorno era perfetto. Colpii, e tornai velocemente al centro. Un altro colpo, ma stavolta la mia palla finì a rete. Maledizione. 0-15, così non andava. Mi spostai dall’altra parte del campo, pronta a ricevere. Un altro errore. Non c’eravamo proprio. Dovevo riprendermi o non sarei arrivata da nessuna parte. Finalmente un punto. Poi un altro. Iniziavo a scaldarmi, e a credere che potevo farcela. Perché potevo farcela. Vinsi il primo game.
Il servizio stava a me. Mentre facevo rimbalzare la pallina a terra, mi accorsi di essere senza fiato. Potevo perdere un po’ di tempo. Appena cinque o dieci secondi per recuperare. “Shh, Francesca, shh” disse una voce dentro di me “ci siete solo tu e la pallina. Non c’è nessuna avversaria, non c’è finale, non giochi nel Roland Garros e non c’è nessuno a guardarti. Sei sola. Pensa solo a colpire la palla. Colpisci. Forte.” Lanciai la palla in aria e caricai il braccio. Spam. La palla arrivò di là, perfetta. Potevo addirittura sperare in un ace. Ma era troppo presto e noi ancora troppo lucide. La palla mi tornò indietro ed io la colpii di nuovo. Quegli scambi sembravano non finire mai. Ogni volta mi allungavo verso la palla, schizzava sul piatto corde e tornava di là. Scesi velocemente a rete. L’occasione che aspettavo per mettere a segno il punto. Feci una volè impeccabile, e la palla fece due lievi rimbalzi dall’altra parte. Sì! Tornai alla battuta, dando un’occhiata veloce al pannello che segnava la velocità del servizio precedente. 135 km/h, potevo fare di meglio. Mi concentrai, tendendomi di nuovo e colpendo, più forte. Troppo forte, la palla non entrò nell’area di battuta. Non andava. Dovevo darle più effetto. Riprovai, più lentamente. Non potevo giocarmi il punto. E funzionò. Fu ace. La mia avversaria non amava particolarmente il rovescio, ed ogni volta si spostava per lo sventaglio. Se non ci riusciva, o lisciava la palla o la mandava fuori. Ma se invece la colpiva con quel dritto micidiale, non riuscivo neanche a vederla.
Il primo set finì 6-4 per me. Ero in vantaggio, ma non potevo rilassarmi proprio ora. Dovevo andare avanti e vincere. Andai a sedermi e bevvi. Mi sciacquai la bocca e mi bagnai i capelli. Dovetti persino premere la bottiglia d’acqua fredda sulle tempie, sul collo e sui polsi. Sotto quel sole cocente andavo a fuoco. Era appena il cinque giugno, eppure lì a Parigi sembrava fosse pieno agosto. Mi voltai verso gli spalti, affollati. Un gruppo di tifosi Italiani mi salutò, avevano una maglietta che diceva: “Schiavò, nothing is impossible” sorrisi e tornai in campo.
C’era tutto il secondo set da giocare, e probabilmente anche il terzo. Stavolta toccava a me battere per prima. Iniziai, più sciolta e sicura. Potevo farcela. Dovevo farcela. Forse fu la mia improvvisa sicurezza il mio errore. Le regalai due game, poi altri due. Così non andava. Sotto quel sole mi sembrava di morire, ma dovevo tenere duro. Samantha Stosur non era migliore di me. Certo, era australiana, si allenava sui campi in erba e tutte quelle cose lì. In quel momento, più che la tecnica, le invidiavo gli occhiali da sole ed il cappello. Tornai alla partita. Mi mancavano tre game per raggiungerla, ed altri due per vincere. Avrei dovuto essere molto più cauta ed attenta. Non potevo permettermi di rilassarmi o di distrarmi. Lanciai un’occhiata al mio allenatore, che mi sorrise, sereno. Lui credeva in me. “Pensa che sia un amichevole qualunque”, mi aveva detto prima di lasciarmi nello spogliatoio.
E, strano, ma quelle parole e quegli sguardi di conforto mi aiutarono. Recuperai la distanza tra me e la mia avversaria, prima di riprendere la scalata per la vittoria. Eravamo sei pari. L’arbitro fischiò il tie-break, noi riprendemmo fiato e rientrammo in campo.
I primi quattro punti furono i più sfiancanti. Andavamo avanti in parità. Mi sentivo un’equilibrista: se inciampavo o cadevo, se sbagliavo, era finita. Invece fu lei a mollare. Più andavo avanti e più mi sentivo leggera. L’australiana che tanto temevo quasi non combatteva più. 6-2, “Se fai questo ce l’hai fatta!” esclamò la voce dentro di me. Questo non mi aiutava. Lanciai un’occhiata veloce alla coppa che brillava a pochi metri da me. Poteva essere mia. Misi dentro la battuta con calma, poi tornai a colpire. Quel punto sembrò il più lungo di tutti, e quando Samantha sbagliò, mi ci volle un minuto buono per realizzare ciò che era successo.
Mi buttai a terra sfinita, baciai quella polvere rossastra, commossa. Non sapevo se dovevo ridere o piangere. E non mi importava. Mentre la folla intorno a me impazziva, io pregavo di non svegliarmi mai da quel sogno. Mi alzai, corsi agli spalti e mi arrampicai agilmente. Abbracciai il mio allenatore ed il preparatore, in lacrime, poi salii ancora. Fui assalita dai tifosi. Gente che conoscevo, gente che non avevo mai visto, ero abbracciata, strattonata, toccata da amici e sconosciuti. Ed era fantastico. Il premio più bello che potessi ricevere era quel calore e quell’affetto.
Tornai giù. Salutai velocemente l’Italia alle telecamere e mi diressi al centro del campo. Ricevetti i fiori, i saluti e poi, finalmente, la tanto attesa coppa. Abbracciai Samantha, complimentandomi per la partita meravigliosa. Parlai agli Italiani e spiccicai qualche parola in inglese, poi ancora incredula, rientrai rigirandomi il trofeo vinto tra le mani. Mi sentivo bene, mi sentivo realizzata. Ero finalmente al livello delle “grandi” del tennis, potevo dire di essere una vera campionessa.