Lo scrittore e filosofo epicureo di epoca romana Tito Lucrezio Caro (98 a. C. circa – 55 a. C. circa) nel poema didascalico titolato “De rerum natura” (La natura delle cose), suddiviso in 6 libri, espone le sue teorie sulla natura, sul ruolo dell’individuo nell’universo e sulla religione: "Spesso proprio la religione ha dato vita ad azioni delittuose ed empie". Egli nega il finalismo provvidenziale di origine divina: la natura è "matrigna", non ha per fine il benessere dell'individuo, l’uomo è abbandonato a sé stesso. La natura ha per fondamento originario il caso e i suoi risultati rappresentano la cieca necessità naturale.
Nel libro V Lucrezio dice di non credere che la natura sia stata creata per ispirazione divina né che sia strutturata secondo un progetto volto al bene e alla felicità dell’uomo.
"Nessun oggetto nasce mai, per origine divina, dal nulla"; "nulla può essere creato dal nulla"; "nulla ritorna nel nulla".
Lucrezio dice che l’individuo non deve temere né la morte né l’Inferno. Deve usare la ragione per raggiungere la “voluptas”, ossia il piacere.
Nel IV libro espone la sua teoria sull’amore che crede basato sui sensi e sviluppa la sua concezione della passione amorosa: “la più grande e la più tragica tra le illusioni dei sensi”. I “mutua gaudia” che eros elargisce sono lo strumento col quale la natura coinvolge uomini e donne nella frode del desiderio e ve li tiene avvinti".
Proviamo a seguire l’argomentazione di Lucrezio nell’intento di spiegare didascalicamente la fisiologia del desiderio erotico (vv.1037-1057) che mira al possesso di un corpo ma ha origine dalla mente: “idque petit corpus, mens unde est saucia amore” ( verso n. 1048). Corpus / mens: in questa opposizione sta la chiave che spiega perché il desiderio è di per sé insaziabile e in questo consiste la fraus (frode) della natura.
Lucrezio definisce la libido (v.1046) la “cupido muta” (1057) perché l’intensità del desiderio è inesprimibile con le parole.
Coerentemente con il suo intento didascalico, Lucrezio mette in guardia il lettore contro i pericoli della passione, gli consiglia di “fugitare simulacra e absterrere pabula amoris”, di separare il desiderio sessuale dall’amore e teorizzando che il piacere sessuale è più puro senza amore: “Nec Veneris fructu caret is qui vitat amorem, sed potius quae sunt sine poena commoda sumit” (vv. 1073-74).
Lucrezio, mettendo al centro della sua analisi l’uomo, indaga il meccanismo psicologico del desiderio calandosi all’interno della mens che desidera, esprimendo la dannazione del desiderio sempre frustrato, l’angoscia della gelosia, il rimorso per lo spreco di energie e di vita, l’impazienza dell’amante che di fronte all’oggetto del proprio desiderio vorrebbe possederlo tutto insieme nello stesso istante e non sa da dove cominciare.
“Haec Venus est nobis; hinc autemst nomen amoris, hinc illaec primum Veneris dulcedinis in cor 1060 stillavit gutta et successit frigida cura. Nam si abest quod ames, praesto simulacra tamen sunt illius et nomen dulce obversatur ad auris”. (vv. 1058-1062)
(= “Presagisce infatti il piacere un muto desiderio. Questa è Venere in noi; da qui poi è il nome di amore, da qui per la prima volta stillò nel cuore quella goccia della dolcezza d’amore e gelido affanno seguì. Infatti pur se è lontano quel tu ami, vicino tuttavia ti stanno i suoi simulacri ed il dolce nome nelle orecchie ti risuona”.)
Secondo Lucrezio chi evita l’amore non è privo di piacere, può invece godere la voluptas.
“Nec Veneris fructu caret is qui vitat amorem, sed potius quae sunt sine poena commoda sumit. 1075 Nam certe purast sanis magis inde voluptas quam miseris. Etenim potiundi tempore in ipso fluctuat incertis erroribus ardor amantum nec constat quid primum oculis manibusque fruantur”.( vv. 1073- 1078)
(= “E non è privo del frutto di Venere chi evita l’amore, ma ne coglie piuttosto vantaggi che sono senza pena. Qui infatti è più puro il piacere per i sani che per gli infelici, perché nel momento stesso del possesso oscilla in un incerto vagare l’ardore degli amanti e non è chiaro di che cosa per prima godano con gli occhi e le mani”.)
Diversamente, l’uomo non può che essere infelice, tormentato da stati d’animo in cui si alternano momenti contrastanti di irrequietezza, furore, violenza, tenerezza e illusione, ed ossessionato dal miraggio di quel corpus, con l’illusione di un appagamento che non trova, provando invece un piacere che è solo temporanea interruzione di una frenesia destinata a riproporsi con intensità maggiore. Si concepisce infatti l’assurda speranza che proprio il corpo, da cui proviene l’ardore della passione, possa diventare il mezzo per spegnerla: considerazione e comportamento destinati ad accrescere la sofferenza. Si genera di conseguenza l’insaziabilità che, a differenza del desiderio di cibo e bevanda, non può essere appagata dagli inconsistenti “simulacra” di un bel viso, e genera una condizione di continua sofferenza.
parafrasando Luigi Pirandello: "Così è (se vi pare)