Il sostantivo didascalia deriva dal greco “didaskalìa” (= istruzione), da didáskalos (maestro) e da didásko (io insegno).
A chi osserva un’opera d’arte in un museo o in una mostra la didascalia dà la sintetica informazione o spiegazione che permette di comprendere il dipinto, la scultura, ecc..
Il francese Gérard Genette (1930 – 2018) era un critico letterario e docente di letteratura francese alla Sorbona. E’ noto per il testo di filosofia estetica “L’opera d’arte” e per il saggio titolato “Soglie”. In quest’ultimo libro mette al centro della sua indagine classificatoria i “dintorni dei testi”, cioè le pratiche che 'accompagnano' la produzione e la ricezione di un volume: la copertina, il nome dell’autore, il titolo, la prefazione, le illustrazioni con le didascalie. Queste “protesi” con funzioni specifiche che fanno parte del libro, Genette le definisce “paratesto”.
La paratestualità ha la funzione di far meglio accogliere il testo. Se fosse senza alcuna istruzione per l’uso, come leggeremmo l’Ulysses di Joyce se non si intitolasse Ulysses?.
Alcuni anni prima, nel 1978, il filosofo francese Jacques Derrida (1930 – 2004) nel suo libro “La verità in pittura” si era interrogato sul concetto di “parèrgo”, sostantivo che deriva dal latino párergon = “accessorio”. La parola è composta da “para” (= presso, accanto) + “èrgon” (= opera), allude alla necessaria aggiunta accessoria in un’opera letteraria o figurativa.
Necessarie aggiunte accessorie sono le didascalie con le informazioni necessarie al lettore o all’osservatore. Altre volte orientano, permettono di identificare qualcuno o qualcosa.
Nella sala di un museo nella quale sono esposti oggetti appartenenti a secoli diversi, iscrizioni in lingue note e ignote, le didascalie sono necessarie, ma spesso sono sintetiche, sembrano scritte controvoglia. Ciò che importa è la parte burocratica che non interessa l’osservatore, per esempio il numero d’inventario e la collocazione. Sono didascalie che servono all’uso interno e non al pubblico.
In altri casi le didascalie sono male illuminate o stampate con caratteri troppo piccoli, che creano difficoltà di lettura e fanno passare la voglia di leggerle, perciò l’osservatore si limita a guardare l’oggetto senza capire bene ciò che vede.
Spesso queste “epigrafi” vengono scritte ricorrendo a espressioni oscure, ermetiche, troppo specialistiche.
Si pensi ai musei di archeologia con pannelli che paiono rivolgersi solo a una ristretta élite., oppure alle mostre d’arte contemporanea, ricche di apparati scritti da curatori che tendono a non fornire adeguati accompagnamenti informativi ed evitano di descrivere le opere esposte, ma presentano testi vaghi, approssimativi, aggrovigliati.
È come se si avesse timore nell’essere divulgativi, chiari.
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