Il treno arrivò a Milano sferragliando lungo i binari che corrono sotto alla gigantesca volta di vetro. Scesi dal vagone e mi sentii piccola nell'immensa galleria, con tutte le persone che mi passavano accanto e mi superavano senza lasciarmi molto spazio sulla banchina. L'aria era impregnata degli odori e dei profumi della gente, della pipì dei cani che lasciavano chiazze grigio scuro sulle colonne di marmo.
Scesi le scale della galleria principale sollevando il trolly. Ai lati della scalinata vecchi ubriaconi e giovani tossicodipendenti mi chiedevano qualche moneta. Io tiravo dritto, senza dar retta a nessuno. Volevo arrivare all'ingresso della metropolitana al più presto.
All'improvviso mi sentii sollevare il trolly di peso. Un ragazzo, sotto a un cappellino nero gli occhi mobili sulla faccia sporca mi disse "Ciao bella, non ti preoccupare, ti aiuto io a portarlo, tu sei troppo magra per portare pesi."
Afferrai la sua maglietta logora con tutta la forza delle mie dita e gli feci perdere l'equilibrio. Vidi il mio trolly rotolare giù per le scale e schiantarsi sul fondo con un rimbombo. Il ragazzo riuscì ad afferrarsi alla balaustra ed evitare di fare la stessa fine della mia valigia. Iniziò a correre, saltando due scalini per volta. Gli corsi dietro ma era troppo rapido. Per fortuna due poliziotti stavano passando nella galleria dell'ingresso. Il ragazzo svicolò e scomparve inghiottito dal sottopasso della Metro.
"Tutto bene signorina?", mi chiese uno dei poliziotti mentre l'altro raccoglieva il trolly dal suolo e me lo porgeva, piuttosto ammaccato ma ancora integro.
"Si grazie agente, purtroppo il tipo che voleva rubarmelo è scappato".
"Deve stare attenta, la stazione è piena di borseggiatori e persone poco raccomandabili".
"Me ne sono accorta", dissi tra un sospiro e l'altro, cercando di riprendermi dallo spavento.
I due poliziotti mi augurarono una buona giornata e si allontanarono. Per questa volta avevo avuto fortuna. Pensai ai miei genitori e mi invase la tristezza per essermene andata in quel modo. Avevo spento il telefono per non vedere le loro chiamate e non sentire il tono allarmato della mamma dopo aver letto il messaggio che avevo lasciato. Al ripensare alla sua voce stridula e al disinteresse di mio papà ripresi il coraggio, mi passai una mano tra i capelli e scivolai nella metro.
Mi misi in coda all'edicola per comprare un biglietto e mi guardai attorno sperando di non inciampare in qualche altro ladruncolo. Davanti a me un signore occupato a leggere il giornale e dietro dei ragazzini che dovevano essere appena usciti dal liceo. Mi tranquillizzai. Comprai il biglietto e scesi alla banchina della linea verde in direzione Cadorna.
Una volta seduta nel vagone, accesi il cellulare che esplose in un raffica di notifiche. Plim, plim, plim. A quanto pare funzionava anche là sotto. Lo misi in modalità silenzio e decisi di non leggere i messaggi, per il momento. Scorsi le notifiche, senza aprire whatsapp, per non lasciare la spunta di lettura e vidi una marea di messaggi della mamma. Da parte di mio papà neanche uno, doveva essere ancora al lavoro e, a sua volta, non guardava i messaggi della mamma. Meglio così. Selezionai la modalità silenzio e guardai il mio volto riflesso nell'amplia finestra: la pelle sembrava più pallida del solito, qualche ciuffo dei capelli castani raccolti mi cadeva sulle tempie. Mi sistemai come meglio potevo e rimisi il cellulare nella borsetta, lasciandomi cullare dal movimento lineare della metro. Davanti a me, perfetti sconosciuti, intenti a leggere il loro telefono o ad ascoltare musica. Qualche giovane ad ascoltare Spotify o guardare una serie.
Scesi alla fermata Cadorna e andai direttamente all'indirizzo dello Studio. Uscii sul piazzale come mi aveva indicato Giorgio dell'agenzia e camminai in direzione di un viale alberato. Le larghe foglie delle querce lasciavano cadere un'ombra fresca sotto la quale era piacevole camminare. A luglio non c'era molta gente e poche macchine erano parcheggiate sui bordi dei marciapiedi.
La facciata del palazzo di via Jacini, dove si trovava lo studio, era imponente: grandi finestre si alternavano separate da blocchi di pietra grigia. La maggior parte delle persiane erano chiuse per non far entrare il caldo e la luce del sole. Il portone di legno antico era incastonato sotto un arco semicircolare. La placca dei campanelli era in ferro battuto antico, con venature verdi. I singoli campanelli sembravano perle bianche levigate. Schiacciai il bottone che corrispondeva allo studio Giorgio Vergari e rimasi in attesa.