Ciao a tutti, vi presento un mio scritto in più parti. Questa è la prima parte. Spero che vi piaccia e sono ben accette anche le critiche.
In treno
Il paesaggio scorreva rapido dal finestrino dello scompartimento. Gli alberi si alternavano a case e palazzi di periferia. Accarezzavo con le dita il bordo metallico della finestra mentre lasciavo che gli occhi seguissero il rapido sfarfallio della luce tra i pioppi. Ero un po' nervosa. Appoggiato sul sedile accanto giaceva il giornale dove avevo letto l'annuncio che aveva iniziato il mio viaggio.
"Cercasi modella non professionista" dai 25 ai 30 anni per shooting fotografico a milano per servizi retribuiti regolarmente. Contatto via whatsapp".
Avevo ritagliato l'articolo e l'avevo tenuto nella borsetta per una settimana prima di decidermi. Avevo inserito il numero nella rubrica del cellulare e poi me n'ero dimenticata per un'altra settimana. La mia cameretta a Molinella, nella pianura bolognese, era stata il mio rifugio per tanti anni. La mia tana dove nascondermi quando mi sentivo triste, il letto dove sdraiarmi, chiudere gli occhi e sognare mondi lontani.
Avevo studiato letteratura all'università di Bologna per due anni. Avevo passato diversi esami con un buon punteggio ma arrivò un momento che non potevo più, mi sentivo soffocare ogni volta che aprivo un libro, le pagine pesavano tra le dita. Volevo viaggiare, respirare aria nuova, allontanarmi da quella camera che iniziava ad appestare a stantio. Avevo iniziato a odiare il tavolo dove passavo le ore a studiare, a odiare i passi della mamma che trascorreva le giornate a pulire la terra lasciata dalle zampe dei gatti incrostate dalla polvere della lettiera.
"Voglio andare via!" gridavo nella mia testa. Oppure "Voglio morire" quando la disperazione mi invadeva, non ne potevo più e piangevo con la faccia sprofondata nel cuscino.
E poi accadde, un giorno smisi di piangere, asciugai le lacrime e rimasi distesa con lo sguardo rivolto verso il soffitto. La mente vuota ma piena di una nuova risoluzione: "voglio andare via, ma per davvero", ripetei con una nuova convinzione. Non erano più parole buttate all'aria, gridate dentro di me, implose ma le avevo dette ad alte voce. Mi accorsi che le parole dette ad alta voce avevano una forza diversa, un'energia che prendeva vita nelle onde sonore che le trasportavano.
Sfilai dall'armadio un piccolo trolley tappezzato di girasoli e lo riempii con un paio di vestiti, qualche ricambio di biancheria e il beauty. Controllai il borsellino e che fosse presente la carte del bancomat con tutti i miei risparmi.
Aspettai che mia madre andasse a fare la spesa. Scrissi un biglietto e lo lasciai sul tavolino all'ingresso.
"Mamma, papà non preoccupatevi. Sono partita per Milano per un appuntamento di lavoro. Non vi ho detto niente per non farvi arrabbiare. Vi chiamo appena posso. Baci. Marina"
Mio padre non c'era, lavorava dal lunedì al sabato in una fabbrica di giocattoli che aveva costruito con un'amico d'infanzia. Passava più tempo tra i suoi giocattoli che in famiglia.
Era luglio, faceva caldo e non avevo bisogno di molti vestiti. Salii di casa con una camicetta bianca, semplice, leggermente scollata, dei pantaloni corti e il trolly al seguito . Guardai Leopoldo e Brigida, i miei due gattoni che non facevano altro che rimpinzarsi tutto il giorno. Leopoldo strisciò il folto pelo arancione della testa sulle all-star bianche mentre Brigida mi guardava dal corridoio inarcando la schiena.
Accarezzai Leopoldo per l'ultima volta e chiusi delicatamente la porta alle mie spalle.
Scesi le scale lentamente come se i piedi mi pesassero. Ma dopo alcuni scalini le gambe mi sembrarono più leggere. Mi sentivo libera per la prima volta nella mia vita. Una volta all'ingresso mi girai e guardai l'androne del palazzo. Il portone del garage dove papà parcheggiava l'auto ogni sera. Il muro dove la mamma appoggiava la bici e la legava con una catena alla grondaia. Tutti quei segni di quotidianità che danno un senso di sicurezza ma che uccidono lentamente.
Non volevo fare la fine del papà di Francesca, la mia vicina di casa e amica da quando eravamo bambine. Aveva lavorato tutta la vita nella fabbrica di cioccolata e sognava di arrivare alla pensione per viaggiare in camper per tutta Europa. Quando andavo a trovare Francesca mi faceva vedere i depliant del camper che gli sarebbe piaciuto comprare. Mi diceva: "Vedi lo voglio così" e metteva il dito sulla foto della pagina patinata dove svettava il camper bianco nuovo di zecca. "Non una cosa enorme, una taglia media diciamo, non più di 7 metri ma neanche meno di 6, altrimenti non c'è spazio per il gavone dietro per mettere le bici. Capisci?"
Terminava sempre le frasi così, cone quel "Capisci?". Un giorno incontrai Francesca che piangeva sulle scale del palazzo. Mi sedetti accanto a lei e l'abbracciai. "Cosa succede Franci?". Lei non parlava, affossava il viso e i capelli tra le braccia raccolte sulle ginocchia piegate. "Papà...", disse tra i singhiozzi, prima di alzarsi e scomparire dietro la porta del suo appartamento.
Poi seppi dal tam tam dei vicini che il papà di Francesca si era ammalato di un brutto male e gli avevano dato 7 mesi di vita.
Esattamente 7 mesi e una settimana dopo la notizia celebrarono il funerale del papà di Francesca e nella spazzatura condominiale incontrai un pacco di riviste di camper, buttate tra i sacchi neri. Alcune pagine avevano un angolo piegato a mo' di segnalibro, erano quelle con le foto dei camper tra i 6 e i 7 metri di lunghezza.