Nota Preliminare.
Anche questo racconto non è mio. L’ho trovato su internet. L’autore si firma Diagoras. Vi auguro buona lettura.
Victor.
LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.
La neve continuava a cadere fitta, un’incessante cortina bianca che univa il cielo. basso e di un grigio uniforme, con il terreno, quasi abbagliante nel suo gelido candore.
Avanzavamo faticosamente, affondando fino alle ginocchia nel manto bianco ed infinito.
Erano giorni e giorni, ormai, che camminavamo.
Il fronte, verso Stalingrado, era stato dapprima sfondato e poi spazzato via.
I russi, determinati a liberare la loro terra dagli eserciti invasori, avanzavano inesorabili, spietati ed implacabili nella loro determinazione e nella loro ferocia.
Avevamo avuto ordine di ripiegare verso le retrovie, e quindi di approntare una nuova linea di resistenza.
Ma mentre noi ripiegavamo in quell'abisso di gelo che era la sterminata pianura russa, a trenta gradi sotto lo zero, senza indossare gli indumenti adatti per quel clima terribile, senza mezzi di trasporto per la penuria di carburante, senza cibo e praticamente disarmati, anche le nostre retrovie erano state costrette ad attestarsi ancora più indietro, decimate e massacrate, attaccate da più parti e da forze nemiche soverchianti.
E così quelle retrovie, sempre più simili ad un miraggio, noi non le avremmo mai raggiunte, trasformando quella marcia angosciosa in una disfatta senza fine; la nostra ritirata era divenuta prima una sconfitta, poi una fuga disperata.
Era la marcia di un'umanità sconfitta nel corpo e nella mente, vinta dalla storia, aggredita ed umiliata in ogni momento da quell’orribile natura gelida ed aliena, braccata e colpita da quei temibili e feroci nemici che erano i partigiani e l'esercito russo.
Guardavo i miei commilitoni, i miei amici diventati fratelli nella disgrazia, gli uomini che avevano diviso con me quell'esperienza tremenda che era stata la guerra; li vedevo marciare e arrancare accanto a me, davanti e dietro di me.
Un fiume di poveri fanti dagli occhi spiritati e senza più lacrime, dai visi emaciati e sofferenti, dagli abiti stracciati, dalla mente sconvolta e straziata dall’orrore.
I tedeschi, come al solito efficienti e coordinati, infinitamente meglio organizzati ed equipaggiati di noi, ci passavano accanto, in lunghe colonne di camion e di carri armati, di auto e di moto.
Passavano senza degnare di uno sguardo noi, gli italiani, i loro alleati; passavano indifferenti e quasi infastiditi da quell’umanità che a piedi sfidava l'inverno russo, che con la sola forza delle gambe cercava di percorrere centinaia di chilometri, con le scarpe sfondate ed i guanti a pezzi, la carne resa insensibile dal gelo e l’anima dilaniata dall’orrore.
Anche loro, i tedeschi, erano in ritirata, anche loro erano stati sconfitti, ma correvano per ricostruire una nuova linea di difesa, una linea che arginasse le truppe di Stalin, che le bloccasse e le obbligasse ad una dura guerra di posizione.
Credevano, e forse ne erano convinti per davvero, di poter resistere fino all’arrivo della primavera e del caldo, per poi riprendere quell’offensiva scellerata e senza speranza.
Era un'utopia, un sogno disperato, perché la guerra era segnata e Hitler l'aveva irrimediabilmente persa.
La sua megalomania non aveva fatto i conti con l'inverno russo, come, prima di lui, era già successo a Napoleone.
In quell’infinita pianura innevata, un esercito sconfitto, un’interminabile colonna di disperati, si trascinava penosamente, stremato dalla fame, falcidiato dalle armi dai russi, massacrato dal freddo e dall'angoscia della fine imminente.
Italiani, romeni, ungheresi: non si riusciva più a capire che fossero soldati di eserciti diversi, uomini che parlavano lingue diverse.
Non si capiva, perché nessuno più parlava.
Usavamo le poche forze rimaste per camminare, per aiutare un commilitone ferito, per chiudere gli occhi a chi non ce l'aveva fatta e si era arreso alla morte, troppo spesso benvenuta in quei giorni d’inferno.
Eravamo rimasti in una quindicina, di tre plotoni diversi: il tenente Ferrara cercava di incoraggiarci, di spronarci.
Incitava senza sosta i suoi uomini a credere nella salvezza, nella fine di quell'incubo, nel ritorno alle nostre case e ai nostri affetti.
Ma non era facile credergli.
Perché lui per primo, ormai, non ci credeva più.
Con venticinque-trenta gradi sotto lo zero, il vento che ululava senza tregua, la neve che ti accecava, le scarpe rotte e gli abiti laceri e a brandelli, il liso cappotto troppo leggero per quel gelo, le orecchie congelate ed il muco del naso rappreso e incrostato, era francamente impossibile credere ai miracoli.
Sapevi che quella sarebbe stata la fine.
Lo capivi ogni minuto che passava.
Le nostre vite erano appese ad un filo sempre più sottile.
E allora c'era chi imprecava contro tutto e contro tutti, chi impazziva e non la smetteva più di ridere, chi bestemmiava contro Dio, e chi quel Dio invece lo pregava, gli gridava tutto il suo smarrimento e la sua paura di uomo fragile e distrutto.
Non è cosa semplice tradurre in parole lo straziante ricordo di quei giorni.
Quando si vedeva un corpo disteso a terra, qualcuno andava a controllare se il disgraziato fosse ancora vivo: se ti trovavi di fronte ad un cadavere, come fossimo sciacalli della peggior specie, lo si spogliava degli stivali, o del cappotto, o magari di una sciarpa stracciata, lavorata a mano, in un'altra vita, da qualche moglie o fidanzata.
Se, al contrario, lo sventurato era ancora in vita, lo si lasciava lì: lo avrebbero spogliato quelli che ora marciavano uno o due chilometri più indietro.
Era un incubo senza fine e incredibilmente doloroso da rammentare.
Quando, su una bassa e spoglia collina alla nostra sinistra, apparve sferragliando il primo carro armato con la stella rossa. tutti noi fummo quasi contenti di vederlo.
I russi si stavano preparando a sferrare l’ennesimo attacco, e presto ci avrebbero fatti a pezzi, avrebbero spazzato via senza pietà quella lunga teoria di cenciosi, di poveri pezzenti, un tempo non lontano fieri soldati, ragazzi spensierati, uomini coraggiosi, ora tutti ridotti a semplici larve consumate.
E, con le loro bombe ed i loro proiettili, sarebbe giunta per noi l’agognata morte, la liberazione da quel tormento, la fine di quell'agonia interminabile.
Era quasi con sollievo che li vedemmo arrivare.
Ma, nel momento stesso in cui la prima granata esplose con fragore, cento metri davanti a noi e disseminando l’aria di schegge, quando vedemmo i corpi dei nostri commilitoni scaraventati in alto come disarticolate bambole di pezza, per poi ricadere come pupazzi nella neve subito rossa di sangue, quando udimmo le loro urla disperate di dolore e d’agonia, la paura di morire ci assalì in modo incontrollabile, e l'istinto di sopravvivenza prese ancora una volta il sopravvento.
Abbandonando il più rapidamente possibile la strada, ci buttammo a terra, negli alti cumuli di neve.
I carri armati, diabolici mostri avvolti da una nera nube di gas di scarico, erano diventati cinque e avanzavano velocemente, in una sorta di osceno balletto, ben consapevoli della nostra assoluta impotenza.
Le esplosioni si susseguivano una dietro l'altra, come in un orribile tiro al bersaglio.
Accanto a me c'era Marco, un soldato del Genio Militare, anche lui, come me, di Napoli; poco più dietro, Giovanni, un semplice fante, pregava a voce alta, piangendo, in ginocchio e con le mani giunte.
Gli urlammo di buttarsi giù, di nascondersi nella neve; ma lui, ormai, completamente assorto nel compito di affidare l’anima a Dio, non sentiva nemmeno più le nostre grida disperate.
E quando la granata esplose, e una scheggia gli portò via di netto la testa dal collo, Giovanni stava ancora recitando il Padre Nostro.
Inorridito, stordito dalla paura, tra il fragore delle esplosioni e le urla dei feriti e dei moribondi, sentii che il cielo, grigio ed uniforme come piombo fuso, si andava riempiendo del ruggito stridente degli aerei in avvicinamento.
In un lampo, un terribile e nitido attimo che mai potrò dimenticare, seppi che era veramente finita.
I caccia si abbassarono improvvisamente di quota: erano tre, mi pare di ricordare, e come uccelli rapaci sorvolarono a poche decine di metri d’altezza la strada, spazzandola più volte con le mitragliatrici, e così completando il lavoro iniziato dai carri armati.
Ancora sdraiato nella neve, terrorizzato, sapevo di non avere scampo.
Eravamo in trappola.
Volsi il capo e dissi a Marco: "Dai, scappiamo. Tanto ci ammazzano comunque. Proviamo ad arrivare a quel bosco laggiù!"
Nessuna risposta mi giunse.
Lo guardai, ma lui non si mosse.
Lo scossi.
Urlai il suo nome.
Lo supplicai di rispondermi.
Ma era tutto inutile.
Marco era morto, colpito da un proiettile di mitragliatrice, e la neve, attorno a me, era diventata rossa del suo sangue.
Pazzo di rabbia, di dolore, di terrore, incapace di ragionare, mi alzai e mi misi a correre, barcollando, incespicando, cadendo.
Tra il sibilo dei proiettili e il fragore delle bombe, come una marionetta senza fili, come un animale in fuga da un incendio, cercai una salvezza che sapevo essere impossibile.
Corsi.
A perdifiato.
Fino a farmi scoppiare i polmoni, tagliati in due da quella lama affilata che era l’aria gelida che inspiravo.
(Continua)