Autore Topic: LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.  (Letto 1896 volte)

victor

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LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.
« il: Giugno 03, 2021, 21:28:56 »


Nota Preliminare.

Anche questo racconto non è mio. L’ho trovato su internet. L’autore si firma Diagoras. Vi auguro buona lettura.

Victor.



LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.

La neve continuava a cadere fitta, un’incessante cortina bianca che univa il cielo. basso e di un grigio uniforme, con il terreno, quasi abbagliante nel suo gelido candore.

Avanzavamo faticosamente, affondando fino alle ginocchia nel manto bianco ed infinito.

Erano giorni e giorni, ormai, che camminavamo.

Il fronte, verso Stalingrado, era stato dapprima sfondato e poi spazzato via.

I russi, determinati a liberare la loro terra dagli eserciti invasori, avanzavano inesorabili, spietati ed implacabili nella loro determinazione e nella loro ferocia.

Avevamo avuto ordine di ripiegare verso le retrovie, e quindi di approntare una nuova linea di resistenza.

Ma mentre noi ripiegavamo in quell'abisso di gelo che era la sterminata pianura russa, a trenta gradi sotto lo zero, senza indossare gli indumenti adatti per quel clima terribile, senza mezzi di trasporto per la penuria di carburante, senza cibo e praticamente disarmati, anche le nostre retrovie erano state costrette ad attestarsi ancora più indietro, decimate e massacrate, attaccate da più parti e da forze nemiche soverchianti.

E così quelle retrovie, sempre più simili ad un miraggio, noi non le avremmo mai raggiunte, trasformando quella marcia angosciosa in una disfatta senza fine; la nostra ritirata era divenuta prima una sconfitta, poi una fuga disperata.

Era la marcia di un'umanità sconfitta nel corpo e nella mente, vinta dalla storia, aggredita ed umiliata in ogni momento da quell’orribile natura gelida ed aliena, braccata e colpita da quei temibili e feroci nemici che erano i partigiani e l'esercito russo.

Guardavo i miei commilitoni, i miei amici diventati fratelli nella disgrazia, gli uomini che avevano diviso con me quell'esperienza tremenda che era stata la guerra; li vedevo marciare e arrancare accanto a me, davanti e dietro di me.

Un fiume di poveri fanti dagli occhi spiritati e senza più lacrime, dai visi emaciati e sofferenti, dagli abiti stracciati, dalla mente sconvolta e straziata dall’orrore.

I tedeschi, come al solito efficienti e coordinati, infinitamente meglio organizzati ed equipaggiati di noi, ci passavano accanto, in lunghe colonne di camion e di carri armati, di auto e di moto.

Passavano senza degnare di uno sguardo noi, gli italiani, i loro alleati; passavano indifferenti e quasi infastiditi da quell’umanità che a piedi sfidava l'inverno russo, che con la sola forza delle gambe cercava di percorrere centinaia di chilometri, con le scarpe sfondate ed i guanti a pezzi, la carne resa insensibile dal gelo e l’anima dilaniata dall’orrore.

Anche loro, i tedeschi, erano in ritirata, anche loro erano stati sconfitti, ma correvano per ricostruire una nuova linea di difesa, una linea che arginasse le truppe di Stalin, che le bloccasse e le obbligasse ad una dura guerra di posizione.

Credevano, e forse ne erano convinti per davvero, di poter resistere fino all’arrivo della primavera e del caldo, per poi riprendere quell’offensiva scellerata e senza speranza.

Era un'utopia, un sogno disperato, perché la guerra era segnata e Hitler l'aveva irrimediabilmente persa.

La sua megalomania non aveva fatto i conti con l'inverno russo, come, prima di lui, era già successo a Napoleone.

In quell’infinita pianura innevata, un esercito sconfitto, un’interminabile colonna di disperati, si trascinava penosamente, stremato dalla fame, falcidiato dalle armi dai russi, massacrato dal freddo e dall'angoscia della fine imminente.

Italiani, romeni, ungheresi: non si riusciva più a capire che fossero soldati di eserciti diversi, uomini che parlavano lingue diverse.

Non si capiva, perché nessuno più parlava.

Usavamo le poche forze rimaste per camminare, per aiutare un commilitone ferito, per chiudere gli occhi a chi non ce l'aveva fatta e si era arreso alla morte, troppo spesso benvenuta in quei giorni d’inferno.

Eravamo rimasti in una quindicina, di tre plotoni diversi: il tenente Ferrara cercava di incoraggiarci, di spronarci.

Incitava senza sosta i suoi uomini a credere nella salvezza, nella fine di quell'incubo, nel ritorno alle nostre case e ai nostri affetti.

Ma non era facile credergli.

Perché lui per primo, ormai, non ci credeva più.

Con venticinque-trenta gradi sotto lo zero, il vento che ululava senza tregua, la neve che ti accecava, le scarpe rotte e gli abiti laceri e a brandelli, il liso cappotto troppo leggero per quel gelo, le orecchie congelate ed il muco del naso rappreso e incrostato, era francamente impossibile credere ai miracoli.

Sapevi che quella sarebbe stata la fine.

Lo capivi ogni minuto che passava.

Le nostre vite erano appese ad un filo sempre più sottile.

E allora c'era chi imprecava contro tutto e contro tutti, chi impazziva e non la smetteva più di ridere, chi bestemmiava contro Dio, e chi quel Dio invece lo pregava, gli gridava tutto il suo smarrimento e la sua paura di uomo fragile e distrutto.

Non è cosa semplice tradurre in parole lo straziante ricordo di quei giorni.

Quando si vedeva un corpo disteso a terra, qualcuno andava a controllare se il disgraziato fosse ancora vivo: se ti trovavi di fronte ad un cadavere, come fossimo sciacalli della peggior specie, lo si spogliava degli stivali, o del cappotto, o magari di una sciarpa stracciata, lavorata a mano, in un'altra vita, da qualche moglie o fidanzata.

Se, al contrario, lo sventurato era ancora in vita, lo si lasciava lì: lo avrebbero spogliato quelli che ora marciavano uno o due chilometri più indietro.

Era un incubo senza fine e incredibilmente doloroso da rammentare.

Quando, su una bassa e spoglia collina alla nostra sinistra, apparve sferragliando il primo carro armato con la stella rossa. tutti noi fummo quasi contenti di vederlo.

I russi si stavano preparando a sferrare l’ennesimo attacco, e presto ci avrebbero fatti a pezzi, avrebbero spazzato via senza pietà quella lunga teoria di cenciosi, di poveri pezzenti, un tempo non lontano fieri soldati, ragazzi spensierati, uomini coraggiosi, ora tutti ridotti a semplici larve consumate.

E, con le loro bombe ed i loro proiettili, sarebbe giunta per noi l’agognata morte, la liberazione da quel tormento, la fine di quell'agonia interminabile.

Era quasi con sollievo che li vedemmo arrivare.

Ma, nel momento stesso in cui la prima granata esplose con fragore, cento metri davanti a noi e disseminando l’aria di schegge, quando vedemmo i corpi dei nostri commilitoni scaraventati in alto come disarticolate bambole di pezza, per poi ricadere come pupazzi nella neve subito rossa di sangue, quando udimmo le loro urla disperate di dolore e d’agonia, la paura di morire ci assalì in modo incontrollabile, e l'istinto di sopravvivenza prese ancora una volta il sopravvento.

Abbandonando il più rapidamente possibile la strada, ci buttammo a terra, negli alti cumuli di neve.

I carri armati, diabolici mostri avvolti da una nera nube di gas di scarico, erano diventati cinque e avanzavano velocemente, in una sorta di osceno balletto, ben consapevoli della nostra assoluta impotenza.

Le esplosioni si susseguivano una dietro l'altra, come in un orribile tiro al bersaglio.

Accanto a me c'era Marco, un soldato del Genio Militare, anche lui, come me, di Napoli; poco più dietro, Giovanni, un semplice fante, pregava a voce alta, piangendo, in ginocchio e con le mani giunte.

Gli urlammo di buttarsi giù, di nascondersi nella neve; ma lui, ormai, completamente assorto nel compito di affidare l’anima a Dio, non sentiva nemmeno più le nostre grida disperate.

E quando la granata esplose, e una scheggia gli portò via di netto la testa dal collo, Giovanni stava ancora recitando il Padre Nostro.

Inorridito, stordito dalla paura, tra il fragore delle esplosioni e le urla dei feriti e dei moribondi, sentii che il cielo, grigio ed uniforme come piombo fuso, si andava riempiendo del ruggito stridente degli aerei in avvicinamento.

In un lampo, un terribile e nitido attimo che mai potrò dimenticare, seppi che era veramente finita.

I caccia si abbassarono improvvisamente di quota: erano tre, mi pare di ricordare, e come uccelli rapaci sorvolarono a poche decine di metri d’altezza la strada, spazzandola più volte con le mitragliatrici, e così completando il lavoro iniziato dai carri armati.

Ancora sdraiato nella neve, terrorizzato, sapevo di non avere scampo.

Eravamo in trappola.

Volsi il capo e dissi a Marco: "Dai, scappiamo. Tanto ci ammazzano comunque. Proviamo ad arrivare a quel bosco laggiù!"

Nessuna risposta mi giunse.

Lo guardai, ma lui non si mosse.

Lo scossi.

Urlai il suo nome.

Lo supplicai di rispondermi.

Ma era tutto inutile.

Marco era morto, colpito da un proiettile di mitragliatrice, e la neve, attorno a me, era diventata rossa del suo sangue.

Pazzo di rabbia, di dolore, di terrore, incapace di ragionare, mi alzai e mi misi a correre, barcollando, incespicando, cadendo.

Tra il sibilo dei proiettili e il fragore delle bombe, come una marionetta senza fili, come un animale in fuga da un incendio, cercai una salvezza che sapevo essere impossibile.

Corsi.

A perdifiato.

Fino a farmi scoppiare i polmoni, tagliati in due da quella lama affilata che era l’aria gelida che inspiravo.

(Continua)

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Re:LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.
« Risposta #1 il: Giugno 03, 2021, 21:30:31 »


Non so come, non so perché, sicuramente per un capriccio benevolo del destino, ma riuscii a raggiungere incolume quel bosco di betulle che avevo visto in lontananza: e, appiattito dietro una bassa roccia, sepolto nella neve, le lacrime ghiacciate sul viso screpolato, pregai il buon Dio di salvarmi da tutta quella follia che mi circondava.

Rimasi lì, immobile, congelato, come una bestia in trappola, fino a notte inoltrata.

Il gelo mi mordeva le carni e i piedi non li sentivo più ormai da ore; ero senza energie, completamente svuotato, un corpo inerte e abbandonato nella neve.

Dopo che gli aerei e i carri armati ebbero finito il loro atroce lavoro, alcuni uomini, non so se soldati o partigiani russi, erano andati di corpo in corpo e, da lontano, li avevo visti controllare se vi fosse qualche sopravvissuto, qualche ferito che non aveva più la forza di invocare neppure la pietà dei suoi carnefici.

I secchi colpi d’arma da fuoco che, di tanto in tanto, giungevano alle mie orecchie, erano la testimonianza che quegli uomini avevano trovato un corpo ancora in vita, e che una pallottola sparata in testa a bruciapelo rappresentava l’epitaffio finale per quel povero disgraziato.

Non si facevano più prigionieri in quei mesi, non più, né da una parte, né dall'altra.

La guerra si lasciava alle spalle solo agghiaccianti montagne di cadaveri.

La notte e il ghiaccio erano la stessa cosa.

Il vento fischiava, gli alberi scheletrici oscillavano e scricchiolavano, lugubri presenze di quella terra aliena e sconfinata, ma per il resto ora tutto taceva.

In lontananza, poiché ero ancora nascosto in quel piccolo bosco che aveva rappresentato la mia temporanea salvezza, vidi che la lunga teoria di soldati in ritirata aveva ripreso a scorrere penosamente, subito dopo che i carri e gli aerei si erano allontanati per andare a portare la morte da qualche altra parte.

Ma, alla fine, di certo sarebbero tornati.

Ritornare sulla strada, mischiarsi agli altri soldati in ritirata, avrebbe voluto dire ricominciare ad attendere la morte.

L’alternativa, però, non era la salvezza, ma il morire da solo, congelato nella steppa desolata.

Comunque, sempre meglio che sotto le bombe.

Con un enorme sforzo di volontà mi costrinsi ad alzarmi.

Il bosco, con i bianchi tronchi delle betulle che mi circondavano, era debolmente rischiarato dalla luce di una pallida luna, apparsa tra uno squarcio improvviso tra le nubi.

Non nevicava più, ma il freddo era diventato ancora più insopportabile.

Dovevo allontanarmi da quella strada, dovevo fuggire da quel massacro.

Non avevo alcuna speranza di riuscire a salvarmi.

Desideravo solo morire dignitosamente, acciambellato nella neve candida, non arrossata dal mio stesso sangue.

Mi avviai così barcollando ed incespicando, ostacolato nei movimenti dalla neve alta e soffice.

D’albero in albero, di cespuglio in cespuglio, in quel mare di bianco ostile, lentamente mi allontanai sempre più dalla strada.

Sapevo che il freddo mi avrebbe ucciso presto, che non avrei potuto avanzare per molto; ero debole e sentivo i sintomi del congelamento espandersi dai piedi verso il resto del corpo.

Se mi fossi nuovamente fermato, anche solo per pochi minuti, sarei morto assiderato in breve tempo.

All'improvviso il bosco terminò.

Di fronte a me avevo un largo tratto di steppa completamente scoperto, innevato e battuto da quel vento glaciale che sembrava soffiare dal nulla, e che verso il nulla sembrava correre ululando follemente.

In lontananza, oltre il bianco uniforme della neve, al chiarore della luna intravedevo una sottile linea più scura, con ogni probabilità un altro bosco di betulle.

Davanti a me si apriva soltanto un gelido deserto.

Il nulla e il tutto allo stesso tempo.

Anche le mani, chiuse nei guanti ghiacciati e strappati, mi erano diventate insensibili, malgrado cercassi di riscaldarle battendole l’un l’altra.

Affondando nella neve fin sopra le ginocchia, passo dopo passo, mi mossi in quello spazio infinito, verso il mio destino e verso quella morte che sapevo essere inevitabile e che ora iniziavo sempre più a desiderare.

Lottavo per resistere alla tentazione di sdraiarmi anche solo un pochino, di riposarmi in quel letto soffice e bianco, così invitante e così suadente.

Se lo avessi fatto, avrei cessato di soffrire; il gelo mi avrebbe abbandonato e mi sarei assopito, cullato dal rumore del vento nel morbido ed eterno abbraccio della neve.

"Ancora dieci passi e mi fermo qualche minuto" mi dicevo.

E facevo quei dieci passi: e poi ne facevo altri dieci, e poi altri dieci ancora.

Ma ogni volta era sempre più difficile proseguire in quella marcia senza meta.

La mia forza di volontà vacillava sempre più spesso.

Dopo un paio d'ore di quel lento procedere, dopo numerose cadute nella neve, dopo un’infinità di quei " dieci passi ", dopo innumerevoli lotte con me stesso per non accoccolarmi in quel bianco giaciglio, quasi irresistibile nella sua promessa di porre fine alle mie sofferenze, all’improvviso la vidi.

Era spostata un po’ sulla mia destra, ed alle spalle aveva quel bosco di betulle che stavo tentando così disperatamente di raggiungere.

Era una semplice baracca di legno, una modesta costruzione di tronchi con il tetto spiovente ricoperto da uno spesso strato di neve ghiacciata.

Vidi un tenue chiarore brillare da una stretta finestra ed un filo di fumo, spazzato subito via dal vento, uscire quasi timoroso dal camino.

Luce e un po’ di calore.

Solo quello desideravo.

Solo di quello avevo necessità.

Pensai per qualche momento che avrei corso un grosso rischio ad avvicinarmi a quella baracca, perché gli occupanti avrebbero potuto essere magari dei partigiani, i quali mi avrebbero ucciso subito, senza esitare nemmeno per un istante: mi avrebbero visto come un nemico da abbattere, da cancellare con un colpo di fucile in un solo attimo.

E, dal loro punto di vista, avrebbero avuto anche le loro ragioni.

Ma non m’importava più di nulla.

Anche morire rapidamente, in quelle ore di disperazione, era meglio di quella lenta e tormentosa agonia.

La mia famiglia, i miei genitori, i miei fratelli.

Sapevo che non avrei rivisto più nessuno, che tutta la mia vita era irrimediabilmente perduta.

Volevo solo trovare il modo più semplice per non soffrire più.

Se non mi fossi diretto verso quella baracca, sarei anche potuto arrivare al bosco e lì, svuotato d’ogni energia, attendere la "dolce morte".

Ma non volevo più attendere: volevo che, in un modo o nell'altro, la mia agonia terminasse.

Con le ultime energie che non credevo nemmeno più di avere, mi diressi verso la baracca e, quando mi fui trascinato fin davanti alla porta di legno, non riuscii neppure a bussare: caddi letteralmente addosso al legno di quel battente, con tutto il mio peso, e svenni.

Quando ripresi i sensi, mi ritrovai al buio.

Completamente al buio, senza capire dove fossi e senza ricordare cosa mi fosse successo.

Mi ci volle più di qualche istante prima che i ricordi ed i pensieri tornassero ad occupare la mia mente.

Ero adagiato su una coperta ed altre coperte mi avvolgevano il corpo, che qualcuno pietosamente aveva spogliato, liberandolo dagli abiti laceri e gelati che indossavo.

Ero nudo, avvolto da quel meraviglioso e dolce tepore che solo la lana ci sa regalare.

Molto lentamente i miei occhi si abituarono alla mancanza di luce, a quella oscurità che però, sia pur vagamente, qualcosa lasciava intravedere.

Mi trovavo in uno spazio molto ridotto, lungo poco più del mio corpo sdraiato, largo forse un metro e mezzo, e alto qualche centimetro di più.

Con circospezione tirai fuori le braccia da sotto le coperte, e subito il freddo mi aggredì mordendomi le carni, facendomi di colpo tornare alla mente tutte le sofferenze che avevo patito.

Con la mano sinistra toccai un muro di ciocchi di legna accatastata; anche dietro la mia testa e oltre i miei piedi c'era legna per la stufa.

Alla mia destra, invece, sentii, con l’altra mano, una parete liscia, di legno piallato, meravigliosamente calda come un radiatore: udivo muoversi oltre quella parete, un insieme di rumore di stoviglie e voci di esseri umani.

Mi resi conto di trovarmi in una legnaia, annessa alla baracca che ora ricordavo di aver vista; oltre la parete alla mia destra vi era la casa, e sicuramente una stufa accesa che rilasciava il suo vitale e benefico calore.

Mi accostai il più possibile a quel legno caldo e, strettamente avvolto nelle coperte, mi addormentai quasi senza nemmeno accorgermene.

Più tardi fui svegliato dal rumore di una porta che si apriva scricchiolando, per poi richiudersi rapidamente.

Vidi una debole luce che filtrava tra i tronchi accatastati e udii qualcuno salire e scalare quella montagna di legna.

Alzai gli occhi e mi accorsi che il soffitto dello stretto ambiente in cui mi trovavo era composto da una larga tavola, sicuramente a meno di un metro e mezzo dalla mia testa.

Sentii spostare la legna e poi la tavola fu tolta, e un uomo si calò agilmente nel mio nascondiglio.

(Continua)

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Re:LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.
« Risposta #2 il: Giugno 03, 2021, 21:31:56 »


Aveva una cinquantina d'anni e l'aspetto tipico di un contadino russo: occhi chiari, capelli radi e biondi, carnagione arrossata dal freddo intenso.

La lampada a petrolio (la luce che avevo vista poco prima) era rimasta in alto, tenuta in mano da una seconda persona.

L'uomo mi guardò un attimo, forse sorpreso di trovarmi sveglio, mi sorrise debolmente, e poi, scostando le coperte, mi scoprì i piedi; da una tasca della giacca sformata che indossava estrasse una piccola bottiglia, si versò del liquido nel palmo di una mano, e iniziò a strofinarmi energicamente le due estremità.

Non avvertivo assolutamente nulla di quel massaggio.

Il congelamento ai piedi mi aveva tolto ogni sensibilità.

Continuò a massaggiarmi con vigore per alcuni minuti.

Alla fine mi guardò di nuovo negli occhi, poi mi ricoprì con le coperte i piedi, avvolgendomeli con cura, e dicendo un qualcosa, che però non ero in grado di comprendere, alla persona che era rimasta in alto con la lampada in mano.

Quindi l’uomo si arrampicò velocemente sulla legna ed uscì dalla mia visuale.

Subito dopo scese la seconda persona: era una ragazza di circa vent’anni, evidentemente la figlia dell’uomo che mi stava curando, perché, pur nella scarsa illuminazione, notai una certa somiglianza tra i due.

Il padre passò alla figlia prima la lampada e poi una scodella, si parlarono a bassa voce ancora per un attimo, e poi l’uomo se ne andò.

Sentii nuovamente la porta aprirsi e chiudersi, tra cigolii di cardini vetusti e scricchiolii di legno antico.

La ragazza s’inginocchiò accanto a me: posò la lampada in un angolo e, con un cucchiaio, prese delicatamente ad imboccarmi.

Ogni volta che accostava il cucchiaio alla mia bocca, mi guardava con occhi dolci e compassionevoli.

La minestra di cavoli e patate che lei mi stava offrendo forse non era la cosa più appetitosa di questo mondo, ma ricordo ancora oggi il senso di benessere che quel liquido caldo, scendendo nel mio stomaco, regalava al mio organismo.

Tra un boccone e l'altro, guardai con maggior attenzione la mia benefattrice: indossava una scura maglia informe di lana, sicuramente più grande della sua taglia, su una gonna tutta rattoppata, anch'essa di lana pesante.

Il suo abbigliamento era completato da pesanti scarponi, adatti alla neve ed al ghiaccio, e da spesse calze.

I capelli, biondi come la paglia, lunghi, ma arricciati e spettinati, e nemmeno tanto puliti, le incorniciavano il viso incantevole: naso piccolo, grandi occhi chiari, una bocca perfettamente disegnata dalle labbra morbide, la pelle rosea, luminosa e delicata.

Non so se fosse il mio precario stato di salute, ma la vidi bellissima, un angelo sceso in terra a prendersi cura di me.

Tirai fuori un braccio da sotto le calde coperte e con un dito indicai verso di me: "Ciao, io mi chiamo Enrico. Sono italiano … " le dissi con un sorriso. Anche lei sorrise e, mostrando di avere capito il mio gesto, indicò se stessa dicendo: "Natasha".

Continuò ad imboccarmi fino a quando la scodella fu vuota; poi con un panno mi pulì le labbra e, quindi, forse per sentire se avevo la febbre ancora alta, mi appoggiò con delicatezza una mano sulla fronte.

Quel semplice contatto, quel gesto carico d’umanità e di premura, dopo tutto quello che avevo passato e dopo tutti gli orrori che avevo vissuto, mi commosse quasi fino alle lacrime.

In quel mondo impazzito, dilaniato dalla guerra e travolto da mille orrori, anche una semplice mano, posata delicatamente sulla fronte di una persona, assumeva il significato della speranza, della speranza che tutto quell'odio venisse sconfitto e che l'umanità si riprendesse da quell'abisso infernale in cui era così drammaticamente precipitata.

Con un ultimo sorriso, Natasha andò via: riposizionò la tavola a fare da soffitto al mio giaciglio, la nascose sotto la legna, e uscì, tornando in casa.

Mi stavano curando e mi stavano rifocillando.

Quella famiglia di contadini russi rappresentava la mia temporanea salvezza.

Avevo incontrato gente semplice, buona ed onesta; cercavano di riscaldare non solo il mio corpo, ma anche la mia anima smarrita.

Il giorno successivo il tutto si ripeté per tre volte.

Al mattino, al pomeriggio e alla sera.

Il padre cercava di salvarmi i piedi dal congelamento e Natasha mi portava da mangiare.

Cominciavo a sentirmi meglio: quel gelo, che pensavo non mi avrebbe più abbandonato, lentamente se ne stava andando, grazie al calore delle coperte e di quella parete di legno sempre calda, e grazie, soprattutto, alle cure che mi venivano prestate.

Sentivo di non avere più la febbre e i piedi stavano recuperando sensibilità, e quelle minestre calde, di cavoli e patate, mi stavano restituendo parte dell'energia che avevo perso in quei lunghi giorni di marcia e di freddo.

Anche la mente aveva ripreso a ragionare con maggiore lucidità: incominciavo a pensare a cosa fare, a dove andare, visto che non sarei potuto rimanere in quella legnaia in eterno: ma più i miei pensieri s’indirizzavano verso il futuro che mi attendeva, più mi assaliva lo sconforto di trovarmi in una situazione senza una reale via d’uscita.

Ed il secondo giorno della mia permanenza fra quella brava gente, d’improvviso, lo spettro della morte tornò a presentarsi in tutta la sua drammaticità.

Il padre e Natasha erano andati via da poco, quando, agitati e preoccupati, e senza alcun preavviso, tornarono di corsa nella legnaia.

La tavola che chiudeva il mio nascondiglio fu tolta in tutta fretta e subito Natasha si lasciò cadere accanto a me.

Quindi il padre, il più velocemente possibile, riposizionò la tavola e la legna sopra di essa, chiudendo in quello spazio ristretto la figlia insieme a me, e, sempre con efficiente rapidità, uscì dalla legnaia, tirandosi la cigolante porta alle spalle.

I due non si erano detti nemmeno una parola, probabilmente perché non c’era bisogno di parlare.

Non capivo cosa diavolo stesse succedendo.

Guardai Natasha, in quel tenue chiarore che la luce del giorno faceva filtrare dall'esterno: ma lei aveva sul volto un’espressione seria e preoccupata, completamente diversa da quella delle volte precedenti in cui mi aveva portato da mangiare.

Quando i suoi occhi incontrarono i miei, la ragazza si portò un dito alle labbra, facendomi il chiaro segno di tacere e di non fare nessun rumore.

Passarono alcuni minuti interminabili e poi sentii le voci, voci di uomini, soldati o partigiani, che parlavano con i genitori di Natasha; li sentii entrare in casa e avvicinarsi alla parete dietro la quale eravamo nascosti, sicuramente per scaldarsi al calore della stufa.

E fu allora che capii.

Quel nascondiglio, quella tana dove mi stavano ospitando, era il rifugio predisposto per Natasha, il luogo dove i genitori la nascondevano per evitarle il rischio, se non la certezza, della violenza da parte degli uomini, fossero essi soldati russi o partigiani, o gruppi di sbandati che rubavano e violentavano.

La tenevano nascosta per proteggerla, per salvare la cosa più importante e preziosa che quella vita stentata aveva donato loro.

Sicuramente avevano dovuto difendere la figlia anche dai tedeschi, e forse dagli italiani, quando la loro avanzata era sembrata travolgente.

Cercavano amorevolmente di salvarle la vita, tentando disperatamente, e con tutti i mezzi a loro disposizione, di custodire quel tesoro che la provvidenza aveva offerto loro.

Era l'amore assoluto e incondizionato di una madre e di un padre verso la figlia.

Natasha era immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, persa in pensieri che sicuramente la tormentavano e l’atterrivano.

Restammo così per un tempo che mi parve lungo e terribile, fino a quando non sentimmo quegli uomini andare via.

Forse un'ora dopo che se ne furono andati, il padre tornò e fece uscire la figlia, riportandola in casa.

Erano ormai quattro giorni che mi trovavo nascosto in quella legnaia, e le mie condizioni di salute erano decisamente migliorate; i piedi erano tornati alla normalità, caldi e sensibili, e quel senso di sfinimento che mi aveva prostrato era alla fine del tutto scomparso.

A ventiquattro anni si faceva in fretta a recuperare le forze, anche nelle condizioni più disagiate.

Credo fosse pomeriggio inoltrato di quel quarto giorno, quando il padre di Natasha venne da me.

Da solo, in quell’occasione.

Ed era la prima volta che Natasha non lo accompagnava.

L’uomo aveva in mano abiti lisi e rammendati e un paio di scarpe che avevano visto tempi migliori, e anche un piccolo tascapane con un po’ di viveri: mi guardò a lungo e in quello sguardo lessi tutte le parole che non potevamo dirci.

Era giunto il momento che io me ne andassi.

Era dispiaciuto, lo capivo dall’espressione seria del suo volto, ma dovevo assolutamente andare via.

La mia presenza era, per tutti loro, un rischio troppo grande; se i soldati o i partigiani mi avessero trovato lì, in quella casa, l’intera famiglia sarebbe stata fucilata.

E capii anche che la paura di quell'uomo non era tanto per se stesso, ma per la moglie e la figlia.

Guardandolo sempre fisso negli occhi, annuii, in segno di comprensione, ringraziandolo mutamente per tutto quello che aveva fatto per me.

L'uomo tirò fuori della tasca un foglietto di carta sgualcito e me lo mise davanti agli occhi. Era come un disegno fatto da un bambino ai primi anni di scuola: una casa, il bosco alle sue spalle e, dopo il bosco, non si capiva quanto dopo, una strada.

Il padre di Natasha mi stava indicando la via per avere ancora una pallida speranza di salvezza.

Mi doveva mandare via, e sicuramente era dispiaciuto per quel suo gesto, ma voleva ancora una volta aiutarmi: i suoi occhi non mi vedevano come un nemico, ma solo come un ragazzo che avrebbe potuto essere suo figlio.

Nel disegno c'era anche una luna nel cielo.

Me ne sarei dovuto andare di notte, proprio quella notte che stava per arrivare.

(Continua)

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Re:LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.
« Risposta #3 il: Giugno 03, 2021, 21:33:17 »


Lo guardai, annuendo ancora.

Gli tesi la mano e lui me la strinse, a lungo.

Anche se non capiva l'italiano, lo ringraziai, sperando che intuisse la mia gratitudine dal tono della mia voce commossa.

Mi mostrò ancora una volta quel suo strano sorriso a metà, forse il massimo che le preoccupazioni di quei giorni gli potevano concedere, e andò via, lasciandomi solo nel rifugio che mi aveva salvato.

Dovevo andarmene.

E anche presto.

La notte era prossima.

Togliere loro il pericolo della mia presenza in quella casa: era quello l'unico modo che avevo a disposizione per mostrargli tutta la mia riconoscenza e gratitudine.

Era ora di ricominciare a cercare la strada per tornare a casa.

Riprendeva la mia strenua lotta per la sopravvivenza.

Era calata la sera.

Stava rapidamente giungendo il momento di andarsene.

Allungai le mani e presi i vestiti; trovai dei mutandoni di lana e, restando sotto le coperte per evitare il freddo, me l’infilai.

Stavo per indossare anche i pantaloni, che al tatto mi sembravano di due taglie più grandi della mia, quando un rumore sordo mi giunse all'orecchio.

In un attimo realizzai la natura di quel frastuono.

Erano motori sotto sforzo, lontani, ma che si stavano rapidamente avvicinando, secondo dopo secondo.

Qualcuno stava arrivando.

E, certamente, non per una visita di cortesia.

Improvvisamente la porta della legnaia si spalancò e Natasha, aiutata dal padre, si calò di corsa nel nascondiglio dove ancora mi trovavo.

Il padre, il più velocemente possibile, risistemò la copertura, accatastò i tronchi di legna e scappò via.

Intravedevo nell’oscurità Natasha, seduta contro la parete a confine con la casa vera e propria, che, visibilmente terrorizzata, si cingeva le gambe con le braccia.

Il ruggito dei motori andò aumentando sempre di più e capii, con un lungo brivido gelido di paura che mi si propagò lungo la schiena, che si trattava di carri armati.

Forse si trattava degli stessi che ci avevano sparato addosso il giorno che ero fuggito nella steppa, o magari erano tedeschi in ritirata.

Uno dopo l'altro arrivarono di fronte alla casa; non so quanti fossero, ma dal fragore che facevano ne immaginai almeno quattro o cinque.

Quando anche l'ultimo carro fu arrivato, i motori si spensero e, nell’improvviso silenzio, le voci di molti uomini si fecero chiaramente udire.

Erano voci inconfondibilmente russe.

I soldati sovietici iniziarono ad entrare in casa, cercando da mangiare e da bere: e a quel punto, una volta ubriachi, se ci avessero scoperto, io sarei morto rapidamente, ma per Natasha sarebbe stato molto peggio, un’agonia senza fine.

La ragazza ed io restammo immobili, quasi timorosi anche solo di respirare.

Stavamo correndo un rischio mortale.

E, con noi, lo stavano correndo i suoi genitori.

Ad un certo momento, e senza alcun preavviso, la porta della legnaia fu spalancata con un calcio, ed alcuni uomini entrarono, ridendo e parlando a voce molto alta.

Istintivamente allungai la mano e strinsi il braccio di Natasha, per darle conforto e per avere conforto da lei.

Sentivamo quegli uomini muoversi a pochi metri da noi.

Bastava un niente e ci avrebbero scoperti.

I soldati si caricarono di molta legna e, dopo un tempo che ci parve interminabile, con le braccia piene di ciocchi, uscirono per tornare in casa.

Richiudendo la porta, l'ultimo disse un qualcosa che turbò visibilmente la ragazza: sentii nettamente un brivido di paura percorrere il suo braccio che ancora stringevo.

La guardai e lei, additando se stessa e poi, con un gesto circolare, indicando l'intero nascondiglio, mi fece intendere che sarebbe rimasta nascosta con me molto a lungo.

Forse gli uomini volevano passare la notte in casa, al caldo.

Questo voleva dire che Natasha ed io saremmo dovuti restare nascosti, immobili e silenziosi, per tutte quelle ore che ci separavano dall’alba, quando, presumibilmente, i carri armati si sarebbero rimessi in movimento, per riprendere il loro cammino di morte.

Le voci e le risate sguaiate dietro la sottile parete di legno continuarono a lungo, per poi iniziare a scendere man mano d’intensità. fino a che il silenzio fu totale e avvolse come un sudario la casa.

Gli equipaggi dei carri armati si erano finalmente addormentati, ubriachi di vodka e di ferocia, e la notte, per Natasha e per me, sarebbe stata lunga e pericolosa.

Io continuavo a stare sdraiato sotto le coperte, al caldo, anche perché avevo indosso solo i mutandoni di lana che il padre mi aveva portato poco tempo prima, mentre la ragazza, addossata alla parete, e anche se vestita nei suoi consueti abiti pesanti, tremava, sia pure in modo impercettibile, ma il suo corpo era visibilmente scosso da un tremore lieve e continuo.

Forse la paura, forse la tensione, sicuramente il freddo: si stringeva le gambe alla ricerca di un po’ di calore, cercando in se stessa un briciolo di conforto.

Le presi una mano e la sentii gelata, le dita come sottili bastoncini di ghiaccio.

Fu a quel punto che scostai le coperte e, con un gesto, la invitai a sdraiarsi accanto a me, al tepore della lana e del mio corpo.

Lei mi guardò dritta negli occhi per quel poco che l'oscurità ci permetteva di vedere.

Sicuramente lesse sul mio viso la preoccupazione per lei, forse intuì che non avevo intenzione alcuna di approfittare di quella situazione venutasi a creare, ma che il mio gesto voleva significare che desideravo solamente scaldarla e confortarla.

Silenziosamente e con movimenti estremamente cauti, evitando qualsiasi rumore che potesse insospettire gli uomini che si trovavano in casa, si allungò accanto a me ed io coprii entrambi con le coperte.

Le ripresi la gelida mano tra le mie e la strinsi per riscaldarla e rincuorarla.

Restammo così, fermi, immobili e vicini, stretti l’uno all’altra per molto tempo; speravo che Natasha si addormentasse, che riuscisse a rilassarsi anche solo un pochino, che si abbandonasse ad un sonno privo d’incubi, scacciando, almeno per qualche ora, tutti i fantasmi che le si agitavano nella mente.

Quando la sentii respirare più tranquilla, convinto che avesse preso sonno, le lasciai la mano e scostai un po’ le coperte per prendere gli altri abiti che il padre mi aveva portato; avevo indosso solo quei benedetti mutandoni di lana e, malgrado la situazione drammatica in cui mi trovavo, ero molto imbarazzato dal contatto con la bionda ragazza russa.

Ma mentre afferravo gli abiti, la sua mano si appoggiò al mio braccio, tirandomi giù con decisione, vicino a lei, sotto le coperte.

Avevo creduto che dormisse, che la tensione di quelle ore l’avesse stremata al punto di cercare nel sonno una qualche fuga da quella terribile realtà.

Invece Natasha era ancora sveglia.

Mi rimisi sdraiato e lei, voltandosi sul fianco, mi appoggiò la testa sulla spalla e la mano sul petto, carezzandomi lievemente i radi peli che crescevano sui miei pettorali.

La abbracciai, passandole il braccio dietro le spalle, stringendola a me, per farle sentire la mia gratitudine, per darle un po’ d’affetto, per consolarla di quella vita angosciosa che il destino ci aveva riservato.

Lentamente il mio calore la scaldò; la sua mano, prima fredda, poi appena tiepida, ora era diventata calda.

La sentivo sul mio petto, le sue dita, leggere come un alito di vento, accarezzarmi i peli e sfiorarmi i capezzoli.

Di tanto in tanto dalla casa giungeva qualche rumore, segno evidente della presenza minacciosa degli equipaggi dei carri armati.

Voltai la testa e vidi che Natasha mi guardava.

Non mi è più capitato nella vita di leggere così chiaramente negli occhi di un altro essere umano: lei voleva che io la baciassi, perché sentiva il desiderio violento di appoggiare le sue labbra alle mie.

Senza pensarci, la testa vuota e sgombra da ogni pensiero, accostai la mia bocca alla sua e la trovai pronta e disponibile: le nostre labbra si schiusero e le lingue si incontrarono.

Fu un bacio lungo e carico di sensazioni: c'era la paura, c'era il terrore, c'era il freddo di quell'inverno interminabile, c'era la guerra che ci aveva dilaniato le anime.

Ma c'era soprattutto amore.

Amore per la vita.

C'era la voglia di vivere, di sentire il calore che solo il contatto con un altro corpo riesce a darci, e c'era la speranza di un futuro diverso e di una vita più giusta, senza sangue e senza odio, senza spari e senza bombe, senza soldati e senza pazzi.

C'era la vita in quel bacio che ci demmo in quella legnaia: un giovane soldato italiano ed una giovanissima contadina russa che univano le loro labbra, i loro cuori, i loro destini ed il loro presente.

C’era, in quel bacio, la vita, quella vita che non si ferma mai, che sconfigge la morte e la paura della morte.

Ci baciammo a lungo, dandoci calore, scaldando i nostri cuori e le nostre anime.

Capii che quella notte sarebbe stata infinitamente lunga e straordinariamente dolce.

(Continua)

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Re:LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.
« Risposta #4 il: Giugno 03, 2021, 21:35:12 »


Ci stavamo ancora baciando quando la mano di Natasha s’insinuò sotto i miei mutandoni, accarezzandomi il pene, già eretto per la straordinaria eccitazione che provavo in quei momenti, e iniziando a masturbarmi con infinita tenerezza.

Sentivo la sua mano portarmi delicatamente verso l'orgasmo.

Le sollevai un po’ il maglione e le presi un seno con la mano, il capezzolo tra le dita già duro.

Natasha lasciò il mio pene e silenziosamente, molto silenziosamente, si spogliò degli abiti pesanti e, nuda e bella come una dea, mi si strinse addosso.

Anche io mi liberai dei mutandoni, restando nudo come lei.

Senza fare il minimo rumore, Natasha si sdraiò sopra di me, entrambi avvolti dalle spesse coperte; la sua bocca sulla mia, il suo seno sul mio petto, le mie mani che accarezzavano la sua schiena e le sue natiche, la penetrai con una dolcezza infinita: e lei mi accolse, calda e fremente.

Facemmo l'amore nel modo più straordinario che nella vita mi sia capitato.

In silenzio, controllando i nostri respiri ed i nostri sospiri, senza una parola, ci amammo forse per pochi minuti, o forse per molte ore.

Quella notte, il tempo sembrava essersi fermato.

Tutto il mondo, per noi, si era fermato.

La guerra era finita ed i morti erano tornati in vita.

La guerra, forse, non c’era mai stata.

E per conservare quel silenzio, le nostre bocche non si staccarono quasi mai, unite in un bacio lungo ed interminabile: i miei respiri passavano in lei, i suoi gemiti entravano in me.

La sua pelle, liscia come la seta, era un fiore tra la sabbia della mia vita, una stella nella galassia di buchi neri che erano stati quegli anni.

Facemmo l'amore quasi senza muoverci, dando e ricevendo piacere, amore, conforto, speranza, dolcezza, in egual misura.

Se avessi fatto l'amore con Natasha tra la neve, anche questa sarebbe stata tiepida come quelle povere coperte che ci avvolgevano.

E credo che fu quella notte d'amore con lei, furono la sua vicinanza, il suo calore, le sue mani su di me e le mie su di lei, a salvarmi la vita.

A farmi credere ancora nel domani, nel futuro.

A regalarmi la speranza che la vita sarebbe stata diversa.

Solo una speranza, invero.

Perché ancora troppe ne avrei dovute passare, e ancora di più ne avrei dovute vedere, prima di potermi considerare un sopravvissuto.

Quando uscii da lei, da quella morbida e calda delicatezza che mi aveva ospitato, continuai a baciarla, a carezzarle il viso, ad asciugarle le lacrime che le scorrevano, incessanti, sulle guance.

Natasha piangeva.

Piangeva in silenzio, perché neanche piangere ci era permesso in quei momenti.

Ma piangeva, e oggi ne sono più che convinto, di gioia e di felicità per una speranza ritrovata.

Esattamente come, dopo la furia di un temporale, i raggi del sole creano l’arcobaleno, rifrangendosi sulle ultime e minuscole gocce di pioggia, così le lacrime di Natasha, quella notte, rappresentarono l’arcobaleno della speranza per le nostre giovani vite.

La sera successiva me ne andai.

Il padre di Natasha tolse la tavola, ed io uscii da quel nascondiglio che mi aveva ospitato per sei giorni.

Dopo averlo abbracciato, dopo esserci guardati negli occhi un'ultima volta, con la certezza che l’uomo non avesse intuito quello che era successo fra me e la figlia, me ne andai nella notte, prendendo la direzione che lui mi aveva indicato con quel rozzo disegno.

Natasha non c'era.

Non venne a salutarmi.

Ed era meglio così, per me e per lei.

Quello di cui avevamo bisogno l'avevamo avuto la notte precedente e avremmo portato per sempre nel cuore il ricordo uno dell’altra.

Seguii le indicazioni di quell'uomo che mi aveva salvato dall’assideramento e, dopo quattro giorni di faticoso cammino, nuovamente solo nel gelo e nella neve, nascondendomi ai russi che sembravano essere dappertutto, ancora una volta allo stremo delle forze, mi trovò una colonna di automezzi tedeschi in ritirata.

Dai vestiti che indossavo sembravo un russo, un contadino di quella terra gelata e spietata.

Due soldati non persero tempo: a calci e spintoni, malgrado le mie grida di terrore, mi addossarono ad una stentata betulla e caricarono i mitra per uccidermi.

Le mie urla richiamarono l’attenzione di un loro ufficiale: l’uomo parlava sommariamente l’italiano, e questa fu la mia salvezza.

Il controllo della piastrina di riconoscimento che avevo ancora al collo mi evitò d’un pelo la fucilazione.

Venni condotto, insieme con altri soldati sbandati, ad una stazione ferroviaria persa nel nulla, e quindi caricato su un treno, uno di quei convogli che solo molto più tardi seppi a cosa era servito in quegli anni di barbarie, per quante decine di migliaia di esseri umani fosse stato l'ultimo treno della vita.

Passai otto mesi in un campo di concentramento, tra la Germania e la Polonia, e il cui nome nemmeno voglio ricordare.

Gli italiani, ormai, erano diventati nemici dei tedeschi, non più alleati della loro follia.

Passai otto mesi tra stenti e privazioni, tra dolori e malattie; otto mesi che la mia mente ha oggi completamente rimosso, forse perché allora non era più in grado di assorbire tutti quegli orrori quotidiani.

Ricordo solo quella mattina in cui la porta della baracca, in cui ero alloggiato insieme ad altri duecento soldati italiani presi prigionieri, venne spalancata con un calcio da un gigantesco tenente di colore degli Stati Uniti d’America.

La nostra agonia era finita.

Pesavo 40 chili, allora, avevo una polmonite acuta, ma ero ancora vivo.

Non avemmo nemmeno la forza di festeggiare la nostra liberazione, la forza per gioire della fine di quegli anni da incubo.

Uscimmo lentamente da quella porta, da quella baracca che era stata la nostra prigione e il nostro inferno, in fila, uno dietro l'altro, incerti e malfermi sulle gambe scheletriche, piangendo le nostre ultime lacrime.

Sfilammo lentamente, trascinandoci fra due ali di soldati americani, rigidi nel saluto militare che ci tributavano: e lo tributavano a noi, una povera armata di cenciosi relitti umani.

E anche loro piangevano, sgomenti per quegli orrori che i loro occhi stavano vedendo e che le loro menti nemmeno avevano potuto immaginare fossero possibili.

Le lacrime dei sopravvissuti.

E le lacrime di coloro che ci avevano salvato.

Con la fine della guerra le anime ed i cuori degli uomini, di tutti gli uomini, dovettero affrontare la realtà delle fosse comuni, dei forni crematori, dei milioni di esseri umani cancellati dalla follia di altri esseri umani.

Fare i conti con tutto ciò fu terribile per ognuno di noi, e le nostre povere storie personali, anche se intrise di dolore e sofferenza, divennero ben poca cosa se raffrontate all'enorme dramma che era stata la guerra.

Ancora oggi mi ritrovo a pensare a Natasha.

Quella notte con lei è il ricordo che mi porto più volentieri nel cuore.

Chissà cosa sarà stato di lei; chissà se avrà avuto una vita serena come poi l'ho avuta io.

E chissà se anche lei conserva di me un ricordo bello e importante.

Vedo mio nipote Dario, il più piccolo dei cinque che ho, giocare sul tappeto, ai miei piedi, con le sue automobiline.

Ha sette anni, e tutti giurano che mi assomigli; e la cosa mi fa molto piacere.

"Nonno, papà mi ha detto che fra qualche giorno mi porta sulla neve, con lo slittino. Non vedo l'ora. Non l'ho mai vista, la neve. Tu l'hai vista? È vero che è fredda?"

"Oh sì, caro il mio nipotino. Io l'ho vista. E, sì, è fredda, molto fredda. Ma, a volte, la neve diventa d’improvviso tiepida, e il freddo va via. E allora è ancora più bella".

Dario mi guarda.

Non capisce cosa io voglia dire.

Ma poi, come fanno i bambini, scoppia a ridere, forse pensando che il vecchio nonno è un po’ matto.

E forse ha ragione lui.

Tutti i vecchi nonni sono un po’ matti, non vi pare?

Lo guardo giocare.

Lo osservo crescere.

Come ho fatto tanto tempo fa con i miei figli.

Mi asciugo furtivamente una lacrima che, solitaria, percorre la mia guancia avvizzita dagli anni.

Tutti i vecchi nonni sono un po’ matti, non vi pare?

E spesso si commuovono.

Quando ancora siamo bambini, forse piangiamo perché non arriviamo a capire fino in fondo il senso della vita.

E quando diventiamo vecchi, forse piangiamo perché, purtroppo, di quella vita abbiamo capito anche troppo.

FINE.

P.S. - Un sentito ringraziamento a quei pochi che hanno avuto la pazienza di arrivare fin qui.

A tutti loro dedico questo racconto, ed in particolar modo a quelli che, leggendo, hanno rivissuto i racconti dei loro genitori e dei loro nonni.
A noi, invece, per pura fortuna anagrafica, è stato risparmiato di vivere quei drammi e quegli orrori.

Diagoras.


Grazie per l’attenzione.

Victor.


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Re:LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.
« Risposta #5 il: Giugno 09, 2021, 20:25:01 »
 :rose:

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Re:LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.
« Risposta #6 il: Giugno 09, 2021, 20:57:32 »

Ciao Nina,

Grazie per la rosa rossa.

Immagino che il racconto ti sia piaciuto.

Buona serata,

Victor
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Re:LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.
« Risposta #7 il: Giugno 11, 2021, 20:27:33 »
Molto, grazie per averlo postato qua, anche se l'autore è sconosciuto.