I miei capelli.
Un giorno mio padre mi disse che doveva tornare in città perché doveva incontrare un dirigente dell’azienda, sarebbe andato con l’elicottero. Gli chiesi se potevo accompagnarlo. Precisò che non avrei potuto partecipare al suo colloquio. Gli dissi che se c’era un negozio di parrucchiere avrei voluto farmi sistemare i capelli. Mi disse che l’avremmo sicuramente trovato.
Questa volta fu il giovane ingegnere a fare da primo pilota.
Cercammo un negozio di parrucchiere, entrammo e mio padre disse loro di fare quello che chiedevo, lui sarebbe tornato dopo un paio d’ore ed avrebbe pagato il conto.
Il parrucchiere mi fece accomodare su una poltrona davanti ad uno specchio e cercava di capire quello che io gli dicevo. Lui non parlava inglese ed io non capivo la sua lingua. Io dicevo che volevo tagliati i capelli a zero come un maschio e lui continuava a lisciare e accarezzare i miei lunghi capelli, e, da quello che mi sembrava capire, continuava a lodarli.
Ad un certo punto disperata per il fatto che non riuscivo a farmi comprendere presi un paio di forbici che erano sul banco davanti a me e zac con un taglio netto tagliai un ciuffo dei miei capelli sul davanti. Lui fece un grido di spavento e tutti si voltarono a guardarci. Per tutta risposta afferrato un altro ciuffo di capelli tagliai anche questo di netto.
Tutto tremante prese un catalogo di pettinature e sfogliatolo mi mostrò una pettinatura con il taglio quasi a zero. Dissi a parole, ma principalmente a gesti e ripetutamente di sì. Anche lui assentì: aveva capito. Ma continuava a parlare con accento nettamente contrariato anche se io non capivo cosa dicesse. Ripresi le forbici in mano e feci cenno di tagliare ancora i miei capelli. Mi tolse delicatamente le forbici dalle mani e faceva ripetutamente cenno di “sì” con la testa.
Nel frattempo una ragazza del negozio, con in mano un cestino di paglia intrecciato, aveva raccolto i miei capelli da terra e ve li aveva riposti religiosamente ordinati. Il parrucchiere cominciò a tagliare i miei capelli e a deporli con grande cura nel cestino che la ragazza teneva.
Mentre tagliava borbottava e scuoteva la testa. Immagino che fosse in completo disaccordo con quello che stava facendo. Quando i capelli furono tagliati corti prese nuovamente il catalogo e mi mostrò diversi tagli. Io indicai quello a spazzola e lui si mise a parlare, ma io non riuscii a capire nulla di quello che voleva dirmi. Mi passai una mano sui capelli tagliati. Notai che erano belli rigidi, quasi ispidi e tornai a indicare la figura del taglio a spazzola. Finalmente fece cenno di sì. E si mise a rifinire il taglio.
Quando completò tutto mi guardai allo specchio. Il mio viso era completamente trasformato: era libero e luminoso, i capelli cortissimi mi davano un aspetto da maschio impertinente, ebbi immediatamente la sensazione che la mia personalità ora risaltava nella sua reale essenza. Mi piacque moltissimo il mio nuovo aspetto, la mia nuova fisionomia, compresi che adesso il mio aspetto esprimeva pienamente la mia personalità. Mi girai verso di lui e gli strinsi ripetutamente la mano in segno di ringraziamento. Mi fece un gran numero di inchini.
Ero molto soddisfatta. Finalmente anche lui appariva soddisfatto. Prese una macchina fotografica e mi chiese il permesso di fotografarmi. Acconsentii. Poi arrivò la ragazza con un pacchetto trasparente confezionato: erano i miei capelli. Feci cenno che non li volevo. Tornò il parrucchiere. Prese il pacchetto e me lo porse con un inchino. Io lo presi in mano e poi glie lo restituii. Gli feci capire che erano suoi poteva tenerli. Si mise a fare inchini di ringraziamento.
Quando arrivò mio padre e mi vide rimase impietrito, esterrefatto, poi si scosse, ma non disse niente. Parlò con il parrucchiere e lui andò a prendere il pacchetto con i miei capelli. Mio padre parlò nuovamente. Lui prese una piccola ciocca dei miei capelli, ne fece una piccola confezione che consegnò a mio padre. Poi porse anche il pacco grande, ma mio padre gli fece cenno che poteva trattenerlo. Pagò ed andammo via.
Andammo al ristorante a pranzare e poi con il taxi ci recammo all’aeroporto. La prima persona che incontrammo fu l’ingegnere che appena mi vide restò anche lui impietrito senza profferire parola. Notai che gli tremavano le mani. Poi lo vidi confabulare con l’altro pilota. Questo poi chiamò in disparte mio padre e parlarono tutti e tre. Si perse ancora altro tempo e poi finalmente partimmo.
Quando rientrammo gli operai erano a cena nel salone. Appena io e mio padre apparimmo sulla porta ci fu di colpo un silenzio assoluto: tutti guardavano me sbalorditi. Poi uno si alzò e cominciò a battere le mani. Scoppiò un applauso generale e molti si avvicinarono per complimentarsi. Quella sera mio padre offrì spumante a tutti e io divenni ufficialmente la mascotte della Trivella n.29.
La sera a letto mio padre mi disse “Non era più in condizione di pilotare l’elicottero per lo shock. Hanno dovuto modificare il piano di volo ed attendere l’ok della torre di controllo. Gli tremavano le mani. È proprio cotto di te!”