Nel III secolo Tertulliano e Cipriano contribuirono all’elaborazione della dottrina penitenziale e del perdono nella Chiesa occidentale.
Il filosofo e apologeta cristiano Tertulliano (155 circa – 230 circa) scrisse numerosi libri, fra i quali il “De paenitentia”, in cui dice che la penitenza è quella che si rivolge ai peccati, che possono essere materiali e spirituali, ed esorta il credente a non ricadere nella colpa dopo il perdono.
Il vescovo di Cartagine, Cipriano (210 circa – 258) nella sua dottrina sulla penitenza scrisse che l’assoluzione impartita dal vescovo al peccatore non impedisce a Dio di perdonare l’individuo sinceramente pentito (Laps. 17; Ep. 55, 18, 1).
In quel tempo due furono gli eventi che indussero a precisare le modalità della penitenza: la controversia montanista, riguardante la riconciliazione per i peccati di adulterio e di fornicazione, e i problemi suscitati dai cristiani accusati di apostasia religiosa (l’abbandono della propria religione per seguirne un’altra), conseguente alle persecuzioni anticristiane volute dagli imperatori Decio nel 250 e da Valeriano nel 257.
Il “montanismo” fu un movimento religioso nato nel II secolo nella Frigia, regione dell’Anatolia (Turchia), poi si espanse rapidamente nell’impero romano e sopravvisse fino all’VIII secolo.
Il nome deriva da quello del suo fondatore, Montano, un teologo vissuto nel II secolo.
Secondo san Girolamo prima di convertirsi al cristianesimo Montano era un sacerdote del culto alla dea Cibele.
Dopo la sua conversione al cristianesimo, Montano nel 156 circa iniziò la sua predicazione itinerante, accompagnato da due profetesse, Massimilla e Priscilla.
I tre sostenevano di parlare in nome dello Spirito Santo, di avere visioni profetiche, anche sul ritorno di Cristo.
Dovunque andassero i tre imbroglioni parlavano “posseduti da visioni mistiche” ed esortavano i seguaci a pregare e digiunare.
All’inizio l’ecclesia cristiana non si oppose a quel movimento religioso poi ci furono divergenze tra montanisti e cattolici e il montanismo venne condannato per eresia.
Per un periodo di tempo fu “montanista” anche il filosofo e apologista cartaginese Tertulliano. Nel 193 aderì alla fede cristiana. Nel 197 circa dette inizio alla sua vasta produzione letteraria. Verso il 207 cominciò a simpatizzare per il montanismo. Nel 213 si distaccò dalla Chiesa istituzionale, successivamente si separò anche dai montanisti e fondò la sua setta, detta dei “tertullianisti”, che si estinse nel V secolo.
Nel “De pudicitia”, scritto nel suo periodo montanista, polemizza con un vescovo cattolico che aveva proclamato la remissione dei peccati di adulterio e fornicazione commessi dopo il battesimo a chi si pentiva e si sottoponeva alla pubblica penitenza. Secondo Tertulliano il cristiano che aveva ricevuto il battesimo non doveva avere la possibilità di riconciliarsi con Dio nei casi di omicidio, adulterio, e apostasia.
Il battesimo veniva inficiato da qualsiasi peccato, ma quei tre peccati erano considerati di particolare gravità e imperdonabili ed escludeva l'individuo dalla comunità cristiana, veniva considerato un pagano. Se voleva ritornare a far parte della comunità doveva ricominciare il lungo percorso iniziatico che veniva impartito a chi da adulto si convertiva al cristianesimo.
Con il passare dei secoli la Chiesa ammise, per i soli laici, una seconda riconciliazione e successivamente in casi particolari, una terza, ma il penitente veniva considerato come un pagano che chiedeva il battesimo per poi beneficiare della riconciliazione con Dio. Egli confessava il suo peccato al vescovo in privato, ma era tenuto a fare richiesta di penitenza pubblicamente.
Nel primo capitolo del "De paenitentia” il misogino Tertulliano manifesta il suo livore nei confronti dei cattolici che disprezzano la pudicizia, permettono le seconde nozze e “favoriscono” i peccati di libidine”, la “fornicazione”, in lingua greca “pornéia”, per significare “immoralità sessuale”, adulterio, matrimonio illecito; in ebraico “zenût”, in riferimento alla prostituzione o ai rapporti incestuosi.
Nel Vangelo di Matteo la pornéia indica il concubinato, le unioni illegittime , condannate già dal libro biblico del Levitico (18,8;20,11) e da Paolo di Tarso nella prima lettera ai Corinzi (1Corinzi 5,1).
Nel Vangelo di Matteo vedi 5, 32; 19, 3 – 7; 19, 9); nel Vangelo di Marco: 10, 9 – 12).
Dalla religione all’imperium.
Gli imperatori Decio e Valeriano emisero degli editti che ordinavano a tutti i cittadini dell’impero romano di offrire un sacrificio pubblico agli dei pagani. Questa formalità equivaleva alla testimonianza di lealtà all’imperatore e all’ordine costituito. Chi si rifiutava di obbedire all’editto imperiale veniva punito, a seconda dei casi, con la confisca dei beni, i lavori forzati, l’esilio, l’arresto, la tortura, in alcuni casi la morte.
Ci furono cristiani battezzati che non vollero abiurare la loro religione e preferirono anche il martirio, altri, per salvarsi, abiurarono e compirono gli atti di adorazione verso gli dei pagani, ma per dispregio furono indicati dagli altri cristiani con l’epiteto di “lapsi” (= scivolati), usato nel III e IV secolo.
Passato il pericolo, molti chiesero di tornare a far parte della comunità cristiana, ma furono considerati scomunicati, perché non ebbero il coraggio di manifestare la loro fede.
Alcuni eventi possono essere ricostruiti con le numerose fonti cristiane disponibili (Cipriano, Eusebio, Atti dei Martiri).
Decio (201 – 251) fu imperatore per due anni, dal 249 fino alla morte avvenuta in battaglia. Durante il suo breve regno cercò di risollevare le sorti dell’impero affidandosi al ripristino della tradizione pagana. Un elemento fondamentale della sua volontà di restaurazione fu la politica religiosa: con un decreto estese a tutte le province dell’impero l’obbligo per i cittadini del sacrificio propiziatorio (“supplicatio”) agli dei dello Stato; in cambio i cittadini avrebbero ricevuto un libellus, una sorta di certificato attestante l'espletamento del sacrificio ordinato. L’editto era destinato a tutti, non esplicitamente ai cristiani, ma fu anticristiano nell’attuazione della legge.
Chi si rifiutava di sacrificare oppure esitava, poteva subìre il carcere, la confisca dei beni, l’ esilio, i lavori forzati, la tortura, ed eventualmente la pena di morte, ma in pratica di tali sanzioni e pene quelle maggiormente applicate furono la confisca dei beni e la prigione.
Nelle città come Alessandria d’Egitto, Cartagine, Smirne e Roma, molti cristiani apostati (ripudiarono il loro credo religioso cristiano) per salvare i propri beni e la vita furono qualificati come "lapsi": in tanti offersero agli dei sacrifici richiesti, altri invece, senza offrire sacrifici, seppero fare in modo, sia con l'astuzia, sia con la corruzione, di procurarsi dalle autorità il prescritto certificato di sacrificio compiuto ("libellus") con la conseguente registrazione nelle liste ufficiali.
Invece l’imperatore Valeriano (200 circa – 260), che regnò dal 253 al 260, nel 257 promulgò un editto che imponeva a vescovi, preti e diaconi di sacrificare agli dei, pena l'esilio, e proibì inoltre ai cristiani le assemblee di culto.
Un secondo editto nel 258 inasprì le pene per chi rifiutava il sacrificio agli dei pagani e aggiunse la confisca dei beni per i senatori e cavalieri, con un provvedimento destinato soprattutto a rimpinguare le casse statali.
Dopo la morte di Valeriano nel 260, fu nominato imperatore Gallieno, il quale concesse a tutti di rientrare dall'esilio e restituì alle chiese i loro beni.
In Nord Africa le persecuzioni della metà del III secolo spezzarono l’unità delle comunità cristiane dell'area. I concili tenuti a Cartagine discussero fino a che punto le comunità dovevano accettare il ritorno dei fedeli che avevano abiurato.