Ermanno Cavazzoni: “Quando vincevo i premi letterari” (da Il Sole 24 Ore, 6 – 10 – 2019)
I premi sono ben fatti e ben organizzati quando li vinci. Quando non li vinci sono mal fatti, male organizzati, inutili, insopportabili, tanto che il perdente li maledice, mai più parteciperò, vincono sempre i peggiori; e poiché sono più numerosi quelli che non vincono, di fatto la funzione dei premi è deprimere, mettere addosso il cattivo umore, il disgusto, disincentivare dallo scrivere, contestualmente illudere i pochi vincenti, come se una giuria rappresentasse i millenni a venire, mentre invece, specie se è una giuria popolare, rappresenta il caso, se sono cinquanta i giurati, è il caso che li ha scelti e messi insieme, siano essi designati o autoproposti. Tanto valeva tirare a sorte il vincitore.
C’è stata un’epoca in cui vincevo continuamente dei premi specie nel sud d’Italia, ho vinto a Palmi in Calabria, a Cosenza, a Catania, a Roma, a Barletta, in Lucania, a Bari, e in altri posti minori che non ricordo. Mi sono convinto a posteriori che mi appoggiava la ’ndrangheta; frequentavo a quei tempi dei calabresi, e il modo di reclutarti è incominciare a farti dei favori. Non so come pensavano di usarmi e perché la ’ndrangheta si interessava alla letteratura. Penso che la nobile arte della letteratura, così povera e inerme, dovesse nascondere traffici che neppure immagino, non dico armi e droga, non ho mai riscontrato morti ammazzati attorno a me o in parallelo ai premi o segnali come teste di pecora mozzate o resti di incaprettati; tenevano un profilo più basso; ma ad esempio non ho mai vinto a Napoli, dove invece domina la camorra che mi era ostile, per il fatto che mi ritenevano affiliato o comunque simpatizzante della ’ndrangheta. Anche se tuttora dico che è strano l’uso di scrittori e simili; ad esempio l’uso anche di sant’uomini nel campo della delinquenza organizzata; ed erano strani i riti.
A Bari in quegli anni ho vinto il premio per la letteratura, e nella stessa occasione (essendo un premio aperto a diverse specialità) il vescovo di Bari lo ha vinto per la religione; se non era la religione era la fede, mi sembra di ricordare che il suo premio fosse per la fede. Il vescovo era seduto accanto a me, mi ha fatto un cenno di saluto, in quanto transitori colleghi, poi si è reimmerso nella sua fede, tanto che come premio mi è sembrato giusto. C’era una valletta in minigonna, molto adusa e loquace, che presentava; ha detto che c’erano stati vari candidati al premio per la fede, e in effetti nelle file dietro a noi, sparsi tra il pubblico, c’erano alcune facce consunte che di tanto in tanto levavano gli occhi al cielo, però si vede che la fede del vescovo era stata giudicata più intensa, c'era una giuria popolare, cioè di affiliati, non so la fede come si misura, la valletta presentando il vescovo ha detto che non si misura sulla base degli occhi levati o di altri segni esteriori come la magrezza o la carenza mentale; intanto il vescovo diceva sì con la testa, approvava. Quando gli hanno passato il microfono ha detto: «Sì, vi ringrazio, ho molto sofferto, ma non ho mai perso la fede». C’è stato l’applauso; credo ci fosse la televisione che riprendeva.
Mi è piaciuto moltissimo il suo discorso, anche se è stato breve, perché non ha detto altro. E anch’io, quando mi hanno chiamato sul palco, ho detto che avevo molto sofferto, e anche qui c’è stato l’applauso, in genere la sofferenza è molto applaudita, e da allora mi sono abituato a citarla durante le premiazioni; in genere dico che è tutto il pomeriggio che soffro, o tutta la settimana, e che uno scrittore soffre più della media statistica della popolazione; e chi voglia diventare scrittore deve iniziare con il soffrire, anche piccole cose, un dito schiacciato in un cassetto, un livido in fronte per colpa di un palo, o per uno spigolo sporgente; però non basta, uno scrittore che si rispetti deve andare in giro, negli angiporti, affrontare degli energumeni, e venire via tutto ammaccato, gli energumeni che l’hanno ammaccato non sanno di avere contribuito alla letteratura; uno scrittore prende ispirazione anche da un tamponamento stradale, pur che resti leso e debba girare con il collarino, ogni sfortuna per uno scrittore è una fortuna; non che se l’àuguri, questo no, non conviene farlo, perché la sofferenza deve essere soprattutto interiore; se in un angiporto l’hanno picchiato, non sono tanto le escoriazioni, le contusioni, un occhio gonfio, un orecchio strappato… è il trauma morale, lui è andato lì nell’angiporto per conoscere la vita reale, la degenerazione della società, la forza bruta; si è messo a guardare degli scaricatori, che gli hanno chiesto cosa voleva, cos’aveva da guardarli con quella faccia di merda che si ritrovava, che girasse al largo!
Lo scrittore sentiva che questa era vita, il popolo che si manifestava, e oltre che guardare prendeva appunti: «mi hanno detto faccia di merda»; era tutto contento, e così uno di quelli gli è andato sotto, gli ha rotto la biro, gliel’ha fatta mangiare, lui protestava, che non era mangiabile, però debolmente, qualche schiaffo, così, per divertimento, gli scaricatori quando bevono si divertono col primo venuto, l’hanno tirato per un orecchio, lo scrittore gridava, diceva: «no no, cosa vi ho fatto?». Ma sapeva che era sulla via giusta per la letteratura e le arti; e in seguito l’ha insegnato ai corsi di scrittura creativa, faceva vedere l’orecchio floscio e snervato, l’umiliazione, le angherie patite: «prendete esempio!» diceva agli allievi; e i più bravi, i più intuitivi erano già là che inciampavano nel marciapiede e finivano sotto una macchina, tutto per scriverlo.
Mi sono un po’ allontanato dal primo scopo di questo scrittarello, che erano i premi. Alla fine per un vero scrittore vincere o non vincere è sempre proficuo. Se vince è perché ha sofferto, e pensa gli venga riconosciuto; se non vince soffre, ne è umiliato e ringrazia, perché è da lì, dalla sofferenza che si genera la migliore letteratura, e, come ha detto il vescovo di Bari, si dimostra chi ha davvero fede e chi no. Ad un altro premio che ho vinto in Sicilia, e dove credo c’entrasse di sottobanco la mafia, che però non mi considera uno dei suoi (non voglio dire la località, la mafia è potente, più della ’ndrangheta, sa dove tengo la macchina, perché è proprietaria di tutti gli altri quattrocento posti del grande garage sotterraneo, un riciclo di soldi sporchi, penso), beh, infatti a questo premio sono arrivato secondo, il che mi ha fatto bene allo spirito, per le ragioni che ho detto. Il primo è stato uno scrittore polacco compagno di scuola del celebre papa Wojtyła.
La mafia spazia, ragiona in grande, usa a loro insaputa le grandi personalità della storia. Gli organizzatori avevano congegnato la premiazione così: il polacco doveva arrivare in aereo a Roma, si faceva ricevere dal papa, si riconoscevano: «Ah! ma sei tu!» si abbracciavano, l'abbraccio doveva avvenire davanti ai giornalisti. «Eravamo compagni di scuola!» avrebbe detto il papa. I giornalisti a questo punto avrebbero chiesto allo scrittore polacco come mai era in Italia, perché nessuno conosceva i suoi libri, cioè il libricino sulla sua infanzia nella stessa classe del papa; e lui avrebbe risposto: «Sono in Italia per vedere il papa e per ricevere il premio tale dei tali in Sicilia»
E così è successo, gli organizzatori gli avevano scritto le frasi da dire; c'era anche la tv, tutt’Italia veniva a sapere del premio, che diventava così un premio importante e un’eccellenza per la Sicilia, in modo che poi la mafia avesse uno strumento più forte per i suoi fini, e una presa maggiore sul territorio. Naturalmente non gli si poteva dare il terzo o quarto posto, tra l’altro cosa avrebbe detto il papa? Veniva dalla Polonia e non lo si poteva umiliare: gli organizzatori mafiosi, nella loro miopia, non sapevano come l’umiliazione e la sofferenza siano un grande stimolo per la letteratura. Per cui ha avuto il primo premio. Poi gli ho parlato, era una persona modesta e di cuore, distante anni luce dalla mentalità della mafia.
Dopo il dialogo difficoltoso (per via delle lingue) che abbiamo avuto, aveva capito la macchinazione, e che alla fine lui e il suo libro non contavano niente, e ne soffriva. Questo è il caso raro di un vincitore che soffre, e che quindi ne ha un doppio premio: i soldi (che gli avranno fatto bene, i soldi incoraggiano e illudono), e l’umiliazione, che gli avrà fatto ancora meglio in campo artistico; ho cercato di spiegarglielo, era perplesso, non mi capiva, si lamentava, malediceva Wojtyła, lo riteneva colluso, anche se non credo lo fosse, il Vaticano è più potente e agisce per conto suo. Poi chissà che grande carriera deve aver fatto in Polonia! Non sempre il malaffare dà dei cattivi frutti, si pensi al dolore del terzo, allo strazio del quarto, che di sicuro sarà oggi un rinomato scrittore, e se non rinomato, sarà almeno un grande scrittore misconosciuto, e i secoli penseranno a fare giustizia.
Questo racconto è tratto da” Storie vere e verissime”, il nuovo libro di Ermanno Cavazzoni, in libreria dal 10 ottobre 2019( La nave di Teseo , pagg. 224, € 18). È una raccolta delle storie esilaranti e insieme amare «In questo libro tutto ciò che è raccontato è vero (...). Se qualcosa somiglia alla realtà è perché ne è un ritratto fedele, niente nomi fasulli, niente invenzioni (...). Se per caso qualcosa fa ridere, non è colpa mia» ha affermato lo scrittore emiliano.