Jean-Etienne Liotard: “La chocolatière”, 1744-45 (dettaglio)
Per l’antica popolazione Maya i semi di cacao erano il “cibo degli dei”.
Fu Cristoforo Colombo ad importare chicchi di cacao nel suo quarto ed ultimo viaggio dall’America nel 1502.
Nel Cinquecento il gusto amaro del cacao non conquistò subito il favore dei “nobili palati”, ma nel ‘600 iniziarono a comparire i primi dipinti che raffigurano nobili che sorseggiano la cioccolata.
Un dipinto anonimo del diciassettesimo secolo mostra una dama nella vasca da bagno ed in mano tiene una tazza con la cioccolata; l’infanta di Spagna Maria Josefa (1744 – 1801) si fece ritrarre da Giuseppe Bonito (1707-1789) con il suo cagnolino e la tazza di cioccolata.
Pietro Longhi: “La cioccolata del mattino” (1775 – 1780)
La pianta dalla quale si produce il cioccolato si chiama “Theobroma Cacao” (= Cibo degli dei, in greco), questo nome le fu assegnato dal botanico svedese Linneo nel 1753.
A diffondere il cacao (e la cioccolata) in Europa furono gli appartenenti a vari Ordini religiosi, in particolare i Gesuiti che ne trassero notevoli vantaggi economici con l’importazione dei semi di cacao, ma ci furono problemi sull’uso della cioccolata, che veniva gustata dall’alto clero e dalle persone ricche.
Come considerare il cioccolato derivato dal cacao ? Cibo solido o bevanda ? Questione ontologica rilevante cominciata alla fine del ‘500. Se le bevande non rompono il digiuno, allora bisogna sapere se la cioccolata è una bevanda o un cibo, perché essa ha come ingrediente il burro che è un alimento, perciò non ammissibile durante la Quaresima e nei giorni di digiuno.
A dare il via alle dispute fu nel 1591 il medico Juan de Cardenas, autore del primo scritto dedicato al cacao e contrario all’assunzione di cioccolata durante la Quaresima e nei giorni previsti per il digiuno a causa della sua componente burrosa, ragione per la quale il dibattito si concentrò sugli ingredienti usati nella preparazione.
Nel 1609 lo storico del cacao Juan De Barrios, scrisse che la cioccolata è una bevanda molto sana.
Nel 1636 lo spagnolo Antonio de Léon Pinelo pubblicò la sua “Questione morale se il cioccolato rompe il digiuno ecclesiastico”.
Pinelo – che era nato e vissuto a lungo in America Latina – nel suo libro passa in rassegna le 6 ragioni per cui la cioccolata va considerata una bevanda, le confuta analiticamente e conclude che... se bevuta una volta al giorno in modica quantità (mezza oncia) non infrange la regola, però ne fa perdere il merito ascetico.
A sostegno di Pinelo intervenne il gesuita Antonio Escobar y Mendoza, il quale nel 1627 nel suo libro di “Teologia morale” afferma che il consumo di cioccolata non è un peccato; la considera bevanda se contiene soltanto un’oncia di cacao ed un’oncia e mezza di zucchero sciolte in acqua.
Sulla questione ci furono contrasti anche tra Gesuiti e Domenicani.
I Gesuiti sostenevano che la cioccolata è una bevanda perciò “liquidum non frangit”, non interrompe il digiuno, invece per i Domenicani la cioccolata, in quel tempo, era un cibo solido, perché contiene burro, perciò rompeva il digiuno ecclesiastico.
Gli schieramenti contrapposti supportavano la diffusione della diceria che i Gesuiti erano favorevoli alla cioccolata per interesse economico, in quanto in Brasile avevano molte piantagioni di cacao.
La disputa cominciò in Messico, si estese in Spagna ed arrivò a Roma, in Vaticano. Diversi papi se ne dovettero occupare: Clemente VII, Paolo V, Urbano VIII, Clemente XI e Benedetto XIV. Nel 1569 PioV sostenne la tesi dei Gesuiti.
Circa un secolo dopo, nel 1664 il cardinale Francesco Maria Brancaccio (1592 – 1675) scrisse il libro titolato “De chocolatis potu diatribe” per risolvere la diatriba del “brodo indiano” (cosiddetto perché Cristoforo Colombo credette di essere giunto nelle “Indie” anziché nel Sud America) come veniva chiamata allora la cioccolata calda, diffusa nelle corti europee dalla fine del XVI secolo anche per merito dei Gesuiti. La bevanda piaceva molto anche al clero e dover rinunciare in Quaresima o nei giorni di precetto a quella delizia era spiacevole.
Il cardinale Brancaccio risolse la questione con logica aristotelica: scrisse che la cioccolata è bevanda liquida “per accidens”, perciò da ammettere durante i digiuni, “liquida non frangunt jejunum”. Non l’avesse mai detto! Subito venne contestato dall’agostiniano Niceforo Sebasto.
Nel 1748 il domenicano Daniele Concina si scagliò contro la cioccolata “in tempo di digiuno”: prima dal pulpito a Roma, poi in un apposito trattato, dove dice che chi sostiene la liceità quaresimale della cioccolata diffonde “una dottrina falsa, erronea, scandalosa”, e se non vuole rinunciarvi per mortificazione, lo faccia almeno perché la bevanda è cosa da ricchi.
Le incertezze vaticane favorirono i protestanti, che non avendo Quaresima e comunione da rispettare col digiuno, si dedicarono all’industria del cioccolato. I Quaccheri la consideravano un antidoto alla piaga dell’alcolismo.