L’archeologia e la storia rivelano una diversa origine del popolo ebraico rispetto a quanto narrato nei testi dell’Antico Testamento. Non ci fu l’esodo dall’Egitto né un pellegrinaggio di 40 anni attraverso il deserto del Sinai.
La cultura dei primi insediamenti israeliti è cananea, l’alfabeto usato è proto-cananeo, i loro oggetti di culto sono quelli del dio cananeo “El” (= Dio). E’ il Dio dell’universo delle antiche religioni nell’area semitica siro-cananea, giudaica e mesopotamica. Per gli antichi popoli del Vicino e Medio Oriente era l’essere supremo, anche denominato “Elyon” (= l’Altissimo).
Statuetta assira del dio El
Secondo la tradizione la discendenza ebraica deriva dai patriarchi biblici Abramo, Isacco e Giacobbe, che vissero nel XVIII secolo a. C. circa nel territorio di Canaan, area geografica che comprendeva gli attuali territori del Libano, di Israele, e parti della Siria e della Giordania.
Le tribù israelite formarono l’antico Regno di Israele e, successivamente, il Regno di Giuda, ma la prima menzione di Israele come popolo è sulla “stele di Merenptah”
La stele conservata al Museo egizio del Cairo
E’ una stele di granito fatta erigere dal sovrano egizio Amenhotep (che regnò dal 1387 a.C. circa al 1348 a.C. circa) e successivamente fatta modificare dal sovrano Merenptah, che regnò dal 1213 a.C. circa al 1203 a.C. circa. Sulla stele c’è il resoconto di alcune vittorie militari, fra le quali quella nel 1209/8 a.C. contro una tribù denominata Israele tra le popolazioni che abitavano in Siria e Palestina. Dagli studiosi è considerata la prima testimonianza storica extrabiblica relativa al nomade popolo ebraico. Ma lo storico ebreo Shlomo Sand, docente all’Università di Tel Aviv, in un suo libro titolato “L’invenzione del popolo ebraico”, che ho citato nel precedente post, sostiene che non c’è continuità tra gli ebrei di oltre tremila anni fa e quelli attuali.
Sand afferma che non ci sono basi storiche per dire che gli ebrei provengono da uno stesso ceppo culturale e propone nel suo libro una visione diversa del passato ebraico dello Stato d’Israele rispetto a quella accreditata dai padri fondatori. Per fare ciò egli rifiuta perfino il lessico tradizionale. Le espressioni “popolo ebraico”, “terra avita”, “esilio”, “diaspora”, “terra d’Israele”, “terra di liberazione” e altre simili servirebbero secondo lui soltanto a rafforzare il pensiero dominante e a modellare la memoria collettiva israeliana allo scopo di fornire una giustificazione storica, peraltro inesistente, alla presunta origine ebraica della terra d’Israele.
Secondo Shlomo Sand la storia del popolo ebraico che viene diffusa è quella costruita ed avallata da studiosi che hanno abilmente manipolato le fonti per creare una visione unitaria e coerente del passato. Di fatto, miti fondativi dalla storicità dubbia, come l'esilio babilonese, la conquista del paese di Canaan o la monarchia unita di Davide e Salomone, sono diventati le colonne di una ricostruzione della storia degli ebrei presentata come una sorta di percorso ininterrotto che dall'epoca biblica si dipana senza soluzione di continuità fino ai giorni nostri. Nulla di tutto ciò: in realtà, sostiene Sand, gli ebrei discendono da una pletora di convertiti, provenienti dalle più varie nazioni del Medioriente e dell'Europa orientale. Ma la storiografia di stampo nazionalista ha fornito fondamento e giustificazione all'impresa di colonizzazione sionista.
Questa politica identitaria non vera servirebbe soltanto a creare un mito delle origini, necessario allo Stato d’Israele per determinare la coesione della nazione intorno a un’idea di sé.
Per il sionismo, che ha inaugurato il nazionalismo ebraico in senso proprio, è stato fondamentale ancorarsi alla Bibbia per forgiare un’identità collettiva moderna. Questo ancoraggio, dice Sand, da un lato legittimava l’idea del popolo ebraico costretto all’esilio, e dall’altro consentiva di rivendicare un diritto sulla “terra d’Israele”. La Bibbia ha rappresentato dunque il certificato di possesso della terra “originaria” e la prova che esistesse un popolo dall’origine comune. Il guaio, però, è che si tratta di un testo teologico, non storico, sebbene nelle scuole israeliane di ogni grado e orientamento continui a essere presentato come tale.
Hayyim Milikovsky, studioso dell’università Bar Ilan, ha dimostrato sulla base di un’accurata documentazione del secondo e terzo secolo dopo Cristo che il termine “esilio” indicava un asservimento politico, non uno sradicamento territoriale e che le due cose non erano necessariamente correlate.
La storiografia ebraica, e non solo israeliana, presuppone che esista una nazione ebraica risalente a Mosè, educata alla convivenza civile e all’osservanza delle leggi durante i quarant’anni nel deserto, e che poi riuscì a conquistare la terra promessa da Dio. Ma tale storiografia porterebbe a pensare, secondo Sand, che il popolo ebraico sia uno in tutte le latitudini della terra e di conseguenza l’unico avente diritto a quella terra promessa. Il fatto che Israele si definisca come Stato ebraico che appartiene a tutti gli ebrei del mondo provocherebbe ingiustizie verso gli abitanti non ebrei d’Israele.
Comunque l’ebraismo che si è formato attraverso secoli fino ai nostri giorni è un insieme di tradizioni, di norme comportamentali, di leggi morali che traggono origine dalla Torah, cui tutti gli ebrei del mondo si richiamano, in maniera diversa e con diversa intensità.
La particolarità dell’ebraismo è di essere esperienza religiosa e sociale, ed è normale che i padri fondatori della moderna nazione di Israele si siano richiamati alla memoria collettiva ebraica per evidenziare il legame ebraico con la terra d’Israele.
Ogni processo di formazione di una nazione si basa su un’antica origine, sull’unità territoriale e religiosa, l’omogeneità linguistica. E le
tradizioni hanno valore fondante, nel contempo sono garanzia per la sopravvivenza del popolo ebraico nella storia.