Autore Topic: La Chiesa cattolica e le donne  (Letto 9657 volte)

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #30 il: Dicembre 22, 2016, 11:24:39 »
I papi rinascimentali, da Alessandro VI a Giulio III, si comportarono da re guerrieri e concubini, coinvolti nelle trame del potere che usarono con spregiudicatezza tramite il nepotismo e la compravendita delle cariche ecclesiastiche (simonia). Le logiche nepotistiche prescindevano da valutazioni meritocratiche, erano basate sulle esigenze politico-economiche e di ascesa sociale da parte dei parenti del pontefice.
Inoltre, la pratica di cumulare più incarichi, per fruire delle rendite annesse, tendeva a creare un alto clero prevalentemente assenteista, vescovi solitamente non residenti che affidavano la gestione pastorale e patrimoniale delle diocesi a vicari spesso incompetenti.

Anche Il basso clero spesso non era idoneo alla mansione da svolgere per impreparazione dottrinale, inosservanza degli obblighi pastorali e liturgici, malcostume e stili di vita che, invece di fungere da modello, si conformano spudoratamente a quelli dei laici. Questi, d’altro canto, non potendo contare su un confacente supporto spirituale, erano esposti al rischio di travisamenti e contaminazioni delle esperienze di fede.

Molti religiosi non rispettavano le  regole di povertà e castità. Numerose ragazze erano costrette dalle famiglie ad entrare nei monasteri e diventare monache, per conseguenza il rispetto della clausura veniva spesso trascurato: la monaca di Monza di manzoniana memoria docet.

Fu intensa la critica per la decadenza morale delle istituzioni ecclesiastiche, per l’inadeguatezza pastorale e la scarsa spiritualità.
L’evidente decadenza sollevò verso la Chiesa le accuse di corruzione, dissolutezza, immoralità, sia da parte di semplici fedeli sia dei più avveduti religiosi. Si chiedeva una “renovatio ecclesiae in capite e in membris”, l’urgente riforma della Chiesa cattolica. I riformatori volevano il ritorno alla Chiesa delle origini, all’adesione al Vangelo, alla povertà ieratica. Fra loro ci furono anche numerose donne che profetizzavano imminenti sciagure sulla Chiesa se non si fosse convertita. Ma gli appelli furono inutili e le proteste s’incanalavano in correnti religiose che però venivano considerate eretiche.

Lo Stato pontificio rinascimentale, al pari delle coeve monarchie, instaurò l’assolutismo regio, esaltando la bidimensionalità della sovranità papale come capo della cristianità con l’autorità del principe territoriale.
Enea Silvio Piccolomini, papa col nome di Pio II, pose in evidenza la prerogativa pontificia di coniugare la instructio del sacerdote e la praeceptio del re.

Il collegio cardinalizio e l’alto clero si trasformarono progressivamente da elementi antagonisti al sovrano pontefice a potenti organismi di governo, i cui componenti si configuravano come “funzionari” competenti in ambito civile e pastorale, a causa dell’ambivalente caratterizzazione in spiritualibus et in temporalibus del potere papale.

La tendenza al potenziamento del dominio temporale da parte del papato rinascimentale fu favorita, assecondata e testimoniata dall’ascesa al soglio pontificio di personaggi di prevalente formazione giuridica, i quali, più che vantare una solida esperienza pastorale, provenivano dalle fila dei funzionari curiali, dalla carriera diplomatica.

C’è da dire però che il consolidamento del potere temporale fu strategicamente idoneo a garantire la libertà della Chiesa dai condizionamenti delle altre potenze e a consentire al papa di esercitare la sua autorità sovrastatale in ambito spirituale. La “duplice anima” del sovrano pontefice se da un lato rappresentava un atipico elemento di forza per la monarchia papale, dall’altro non era sufficiente per colmare le debolezze derivanti dalla sua natura elettiva e non ereditaria e dal frequente avvicendamento sul “trono di Pietro”.  La discontinuità del papato era bilanciata dalla stabilità dell’organismo curiale e dai voleri dei papi per inserire la propria famiglia nelle dinamiche di assegnazione dei titoli e negli ingranaggi dello Stato pontificio. È come se all’impossibilità della trasmissione dinastica della sovranità  si ovviasse, da parte dei papi, con l’elevazione dei propri congiunti ai più alti gradi della nobiltà, delle onorificenze, degli incarichi di governo. Il dilagante fenomeno del nepotismo, la creazione di “dinastie di porporati” proiettate alla gestione di trame politiche e schieramenti, erano funzionali ai complessi e precari equilibri inerenti all’elezione papale.

Fu il papato del XVI secolo – incalzato dalla riforma protestante – a dover inevitabilmente promuovere un complessivo rinnovamento spirituale, etico e istituzionale che, dopo il Concilio di Trento, impronterà per secoli la Chiesa e la società.

Le tesi di Martin Lutero, espresse in quella che venne chiamata Riforma protestante”, ebbero come esito una frattura nel cristianesimo.
« Ultima modifica: Dicembre 22, 2016, 21:42:16 da dottorstranamore »

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #31 il: Dicembre 23, 2016, 09:23:48 »
Dalla fine del ‘300 e nel ‘400 ci fu il movimento culturale definito “umanesimo” nel 1808 dal pedagogista tedesco Friedrich Immanuel Niethammer, col fine di valorizzare gli studi di greco e latino all'interno del curriculum studiorum.  In quel periodo del basso medioevo ci fu una rinnovata fiducia nella capacità umana di autodeterminarsi, di essere artefice della propria vita, di avere l’autonomia di pensiero rispetto alle ingerenze ecclesiastiche. Nello studio e nella comprensione della Bibbia ci furono confronti sulla sua corretta interpretazione. Gli scontri divisero la cristianità e l’Europa dando origini a conflitti tra le confessioni religiose che dai testi biblici traevano differenti ispirazioni, diversificate elaborazioni dottrinali e prassi ecclesiologiche. E le donne colte non furono estranee ai mutamenti culturali.

Come detto nel precedente post, le tesi del monaco agostiniano Martin Lutero ebbero come esito una frattura nel cristianesimo, che provocò un riassetto geopolitico del continente europeo e alla creazione di un’Europa divisa sulle adesioni confessionali, con scelte di appartenenza e ricerca di nuove identità.

Il teologo tedesco Lutero (1483 – 1546) fu l’iniziatore della Riforma protestante e la sua dottrina teologica viene detta “luteranesimo”.

L’interpretazione letterale delle opinioni di Paolo di Tarso non si conciliava con la consuetudine ecclesiastica di concedere il perdono ai peccatori pentiti con la vendita delle indulgenze. Il pagamento pecuniario simboleggiava il pentimento e le azioni da compiere per essere perdonati ed ottenere la remissione delle pene. All'epoca si credeva generalmente che dopo la morte i peccatori venissero puniti per un certo periodo di tempo, mediante le sofferenze del Purgatorio. Tuttavia si diceva che questo periodo poteva essere abbreviato anche grazie alle indulgenze concesse con l'autorizzazione del papa in cambio di denaro.

La predicazione contro la vendita delle indulgenze fu  il primo atto "riformatore" intrapreso da Lutero a Wittenberg, in Sassonia, dove  il principe Federico aveva instaurato, col permesso del papa, la vendita delle indulgenze una volta l'anno il giorno della festività liturgica dedicata a “tutti i santi”. 

Nel 1516 in tre occasioni Lutero parlò contro le indulgenze, affermando che il semplice pagamento non poteva garantire il reale pentimento dell'acquirente né che la confessione del peccato costituisse di per sé una sufficiente espiazione. La situazione degenerò nell'anno seguente quando un altro esempio di vendita delle indulgenze dalle amplissime ramificazioni richiamò l'attenzione di Lutero.

La discussione sulla “Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum” (dichiarazione sul potere delle indulgenze), è nota come “le 95 tesi”, che il frate agostiniano il 31 ottobre 1517 affisse alla porta della chiesa del castello di Wittenberg e propose come discussione in una pubblica assemblea, allora usuale nei centri universitari. Quell’affissione, che per Lutero ancora non rappresentava la rottura definitiva con la Chiesa romana, per convenzione è considerata l’inizio della Riforma protestante. Però non ci sono testimonianze coeve di quell’azione. Autorevoli storici hanno sostenuto che le 95 tesi furono in realtà inviate il 31 ottobre 1517 ai vescovi interessati e che furono diffuse solo dopo la mancata risposta dei vescovi.


Lutero spiega le 95 tesi affisse sul portale della chiesa.


Il portale della cattedrale di Wittenberg, dove Lutero avrebbe affisso le sue tesi

Nell'aprile del 1518 Lutero fu citato a comparire davanti al capitolo dell'ordine agostiniano a Heidelberg, ma la cosa si risolse in un nulla di fatto, perché la rivalità degli agostiniani con i domenicani inquisitori non motivò i superiori di Lutero a ridurlo in silenzio. Contemporaneamente egli dava alle stampe le “Risoluzioni riguardo alle 95 tesi”, un testo in cui le affermazioni del 1517 venivano ridiscusse in modo più articolato attraverso citazioni e riferimenti alla Sacra Scrittura.
Le “Risoluzioni” furono inviate a Roma per essere esaminate da papa Leone X, il quale autorizzò un processo nei confronti del monaco ribelle.
Lutero ebbe sessanta giorni di tempo per presentarsi a Roma e contestare l'accusa di aver diffuso idee erronee. Ma il suo ragionevole timore di essere arrestato e condannato senza alcuna possibilità di spiegare le proprie ragioni spinse Lutero a rivolgersi al principe Federico per ottenere garanzie e protezione.

Il 3 gennaio 1521 con la bolla “Decet Romanum Pontificem”, Leone X scomunicò Martin Lutero, accusandolo di  eresia. Il principe Federico ottenne che a Lutero non fosse fatto alcun male e che gli si consentisse di esporre le sue ragioni. Lutero il 15 giugno 1520 aveva già spregiativamente bruciato in pubblico la bolla papale "Exsurge Domine", con la quale era stato minacciato di scomunica se non avesse desistito dal proprio intento (in suo pravo et damnato proposito obstinatum).

Per concisione evito gli ulteriori passaggi per dire che la Riforma, voluta da uomini come Lutero, Calvino  e e  Zwingli, determinò la formazione  del protestantesimo come nuovo movimento religioso nell'Europa Occidentale. In poco tempo ciascun principato tedesco si schierò per la fede protestante o per quella cattolica. Il protestantesimo si diffuse e ottenne larghi consensi nel centro e nord Europa ed anche in Inghilterra.

Quest’anno è iniziata la commemorazione per i 500 anni (che ricorreranno il prossimo anno) da quando Il monaco agostiniano Lutero affisse le 95 tesi sul portone della cattedrale di Wittenberg, e che in pochi anni portarono alla Riforma luterana. E per la prima volta un pontefice cattolico, papa Francesco, nello scorso mese di ottobre ha commemorato a Lund, in Svezia, l’inizio della Riforma protestante insieme con i luterani. Nella cattedrale ha celebrato una preghiera ecumenica comune.

E’ un traguardo visibile del  percorso di dialogo ecumenico iniziato mezzo secolo fa da papi europei (in particolare Wojtyla e Ratzinger) e che culmina con un pontefice latino-americano, che dopo il riavvicinamento con gli ortodossi, specie i russi, ora va verso i protestanti, 800 milioni complessivi al mondo, sparsi per le molte chiese che fanno capo al protestantesimo (80 milioni i luterani). Il dialogo ha permesso la riconciliazione e l’unione nella fede in Cristo. Nell’attuale contesto è importante che luterani e cattolici davanti al mondo esprimano la misericordia e il perdono. Un processo che ci ha fatto comprendere diversamente la storia
« Ultima modifica: Dicembre 23, 2016, 09:27:05 da dottorstranamore »

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #32 il: Dicembre 24, 2016, 08:03:19 »
Nel 16/esimo secolo dopo la Riforma protestante  si svolse il Concilio di Trento (1545 – 1563) per il rinnovamento teologico, liturgico e di riorganizzazione delle istituzioni della Chiesa cattolica.

Il concilio condannò i principi fondamentali del protestantesimo e in Europa  divenne definitiva la scissione religiosa tra l’area cattolica, soprattutto mediterranea, e l’area protestante, soprattutto nordica.

In contrapposizione ai luterani la Chiesa si irrigidì nelle sue posizioni e precisò meglio la sua dottrina. Furono compilati un catechismo, un breviario ed un messale cosiddetti “romani”. Il concilio proclamò fonte delle verità religiose non solo le Sacre Scritture, ma anche i dogmi della Chiesa. Riaffermò la suprema autorità del Papa, vicario di Cristo in Terra. Fece istituire i Seminari per preparare i futuri sacerdoti alla loro missione; obbligò i parroci ed i vescovi ad aver cura dei loro fedeli risiedendo nella loro parrocchia e nella loro diocesi; riconfermò il celibato ecclesiastico ed impose il latino come lingua ufficiale della Chiesa cattolica.

Per evitare nuove eresie ed impedire la diffusione della Riforma cattolica fu istituito il Tribunale del Sant'Uffizio, che processava e condannava gli eretici, compiendo anche eccessi.

Per quanto riguarda le questioni dottrinali, il concilio ribadì l'importanza delle opere di carità, dei sette sacramenti e del purgatorio, confermò l'esigenza del culto dei santi, delle reliquie e il valore delle indulgenze. Tentò di eliminare i più gravi abusi ecclesiastici: il favoritismo verso i parenti (nepotismo), la compravendita di beni sacri (simonia), il concubinaggio del clero. Si occupò anche della riforma dei monasteri femminili, della definizione e la gestione dei sacramenti, in particolare il matrimonio.

La questione dei preti concubini: durante il concilio tridentino ci furono tentativi di compromesso a favore del matrimonio dei preti, ma limitatamente alla Germania, per arginare il protestantesimo che, attraverso la laicizzazione del sacerdozio, contestava la legittimità della legge celibataria. Ma i padri conciliari  a maggioranza confermarono il divieto di matrimonio per il clero di rito latino, stabilendo la superiorità del celibato rispetto allo stato coniugale.

Il fenomeno del concubinato, però non si attenuò. La storia di Clelia Farnese (1556 circa – 1613), figlia naturale del cardinale Alessandro Farnese, mostra come anche nell’epoca della controriforma, alti prelati non nascosero i loro figli naturali, strumentalizzati per mire di potere e di strategie politiche.
All’età di circa 10 anni, nel 1566, la piccola Clelia venne promessa sposa al nobile Giovan Giorgio Cesarini. Gli “sponsalia” si svolsero a Roma nel Palazzo Cesarini a Torre Argentina. Però passarono quasi cinque anni tra gli sponsalia e la celebrazione del sacramento del matrimonio.

)In epoca romana le nozze erano solitamente precedute dagli “sponsalia”, cerimonia per la “promessa di matrimonio. Il pater familias prometteva al fidanzato la propria figlia in moglie.  Questa cerimonia era un atto solenne, fondato sulla tradizione patriarcale, impegnativo quasi quanto il matrimonio. Gli sponsalia si svolgevano alla presenza di parenti ed amici delle due famiglie che svolgevano la funzione di testimoni dell'impegno matrimoniale. Seguiva lo scambio dei doni, che costituivano il "pegno" delle future nozze, dopodiché l'uomo regalava alla fidanzata un anello, l'anulus pronubus, cosiddetto perché infilato al penultimo dito della mano sinistra, detto appunto anularius, da cui si credeva partisse una vena che giungeva dritta al cuore. Inizialmente, come ricorda anche Plinio il Vecchio, l'anulus era un cerchietto di ferro, ma in seguito fu realizzato in oro. Dopo aver firmato il contratto nuziale, nel quale erano stabiliti la natura e l'ammontare della dote della sposa e dopo aver fissato la data delle nozze, la cerimonia degli sponsalia giungeva al suo termine. Seguiva, quindi, un banchetto al quale partecipavano tutti i presenti.)

Anche per il clero appartenente alle classi sociali più basse il concubinato continuò ad essere fenomeno diffuso, anche se accompagnato dal senso di colpa per le norme infrante, dalla paura di perdere l’indipendenza economica e dal timore del disprezzo sociale.
I processi intentati contro il clero concubinario testimoniano che le pene non erano particolarmente severe per il prete, le cui azioni erano lasciate alla riservatezza per non dare scandalo: “nisi caste saltem caute” (= “se non castamente, almeno con cautela”). Per le concubine, invece erano previste punizioni più severe, fino all’esilio. Esse vivevano la loro marginalità morale e giuridica: assimilate alle meretrici e perseguite con la stessa pena: erano madri illegittime, mogli non riconosciute.
 
Il decreto tridentino sui religiosi e sulle monache ebbe come esito il prete estraniato dalla dimensione quotidiana del vivere comune, accentuò la polarizzazione tra chierici e laici, rafforzò la verticalizzazione della struttura ecclesiastica governata dal papa, massima autorità.

Il decreto conciliare “Tametsi” evidenziò all’epoca la necessità del consenso al matrimonio da parte di entrambi gli sposi; mise sullo stesso piano le donne e gli uomini; li sottrasse alle imposizioni familiari dei matrimoni combinati ma non liberò la donna dal ruolo subalterno, rinforzando il modello esemplare di moglie a servizio delle necessità del marito e della casa.

La Chiesa di Roma  cercò di riorganizzare le strutture ecclesiastiche, il controllo sulla moralità e sulla vita religiosa dei fedeli. Promosse i viaggi dei missionari sia nei continenti più lontani, dall'America Centrale e Meridionale al Giappone e alla Cina, sia nelle campagne europee, dove la cultura cristiana era  latente. Per il proselitismo  o evangelizzazione si avvalse anche dell'attività dei nuovi ordini religiosi creati proprio nel 16/esimo secolo: per esempio i teatini, i barnabiti, i cappuccini, i somaschi, gli oratoriani e soprattutto i gesuiti, che si distinsero per l'attività missionaria e per il grande ruolo culturale e politico che ricoprirono in tutta Europa nei due secoli seguenti.
I gesuiti riuscirono a contrattaccare il protestantesimo in molti paesi, e la loro più grande impresa fu la riconversione della Polonia al cattolicesimo. Inoltre si distinsero nel tentativo di convertire le popolazioni locali in India e in Cina ,aderendo agli usi e costumi locali.

La Controriforma cattolica fu caratterizzata da un impegno costante nel tentativo di fermare l'avanzata del protestantesimo in tutt'Europa e dalla volontà di riorganizzare le proprie strutture, anche tramite la cultura e le arti che si tradussero nel fiorire dello stile barocco.
Il principale strumento di questa affermazione fu il severo impiego del tribunale dell’Inquisizione (Sacra Congregazione del Sant'Uffizio), dapprima impegnato a condannare reati di eresia e successivamente orientato a reprimere tutte le forme di pensiero e di comportamento ritenute non conformi alla dottrina della Chiesa di Roma.
Furono colpiti non solo dottrine e costumi non in linea con il magistero cattolico, ma anche la spiritualità mistica e i testi letterari, le pratiche e i culti contadini considerati superstiziosi e devianti, come la stregoneria e le pratiche magiche.
Alcuni scienziati e  filosofi sperimentarono, seppure in forme diverse, il rigore della repressione dell'Inquisizione per la difformità nelle loro ricerche ai canoni imposti dalla Chiesa: lo scienziato Galileo Galilei fu costretto ad abiurare; il filosofo domenicano Giordano Bruno, fu imprigionato ed ucciso al rogo a Roma nel 1600; il filosofo e teologo domenicano Tommaso Campanella, sottoposto a numerosi processi e condannato a 27 anni di carcere, che trascorse in prigione a Napoli.

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #33 il: Dicembre 25, 2016, 07:13:15 »
Dopo il Concilio di Trento le attività pastorali, formative, normative e repressive coinvolsero anche le donne attive nell’ambito religioso. La Chiesa intervenne nei loro confronti con iniziative ed azioni rivolte in più direzioni.

Per tutelare la fede delle comunità religiose femminili venne ribadita ed imposta la clausura, voluta nel 1298 deal pontefice Bonifacio VIII  con la costituzione “Periculoso et detestabili”, riguardante la clausura perpetua alle donne che per scelta o costrizione entravano nella vita religiosa. Questo provvedimento, però, ebbe ampi margini di trasgressione; infatti, alle donne aristocratiche, indirizzate alla vita monastica per soddisfare complesse strategie familiari, erano consentite libertà di movimento ed autonomia sufficiente a sopportare la condizione monacale non scelta ma subita.

Molte ragazze furono costrette alla vita monastica senza averne la vocazione, per rispettare la volontà delle loro famiglie, motivate da considerazioni  economiche o politiche. Le monacazioni forzate dipendevano da scelte di tipo ereditario-patrimoniale. Ma nel monastero si entrava anche per povertà: l’indigenza era motivo sufficiente,  per cui timide ragazze, senza un futuro degno di essere vissuto e senza dote,  preferivano lasciare la famiglia e ad avviarsi alla penosa clausura, che permetteva vitto e alloggio.
 
La povertà dilagante in molti monasteri costringeva le  monache ad uscire per chiedere l’elemosina. Poiché i finanziamenti non bastavano,  esse dovevano provvedere al proprio mantenimento con il lavoro e le sovvenzioni familiari.

Le ragazze appartenenti a famiglie nobiliari non dormivano nelle camerate ma in celle monastiche, anche dotate di camini, che oltre a scaldare l’ambiente  nel periodo invernale, consentivano di cucinare nelle singole stanze. Per conseguenza il pasto in comune non era generalizzato. Nelle celle si effettuava gran parte dell’attività lavorativa delle monache che per lo più si dedicavano a lavori di cucito e di ricamo, accettando commissioni dall’esterno e trattenendo per sé il ricavato della loro attività. La cella monastica diventava un microcosmo autosufficiente dove si riproducevano le differenze sociali ed era possibile condurre una vita quasi privata.
Diverse monache coltivano orti ed allevano pollame proprio.

La clausura ribadita dal Concilio di Trento ebbe la legittimazione istituzionale da papa Pio V nel 1566 con la costituzione “Circa Pastoralis”, contenente l’interpretazione restrittiva delle disposizioni del Concilio di Trento col “Decretum de regularibus et monialibus”, riguardante la riforma della vita comunitaria negli Ordini religiosi maschili e femminili. La predetta costituzione fu necessaria per contrastare la vita amorale e indisciplinata diffusa in molti monasteri e per fronteggiare le lacerazioni verificatesi in seguito alla Riforma protestante, che nel centro e nord Europa aveva chiuso i monasteri, inducendo le religiose al matrimonio.

La clausura veniva giustificata come “incarceramento volontario” e veniva scomunicato chi la violava. Ciò comportò la riorganizzazione degli spazi monastici e un adeguamento dell’architettura alle nuove normative per rendere invisibili le donne, separandole dall’ambiente esterno. Si imposero l’innalzamento delle mura perimetrali dei monasteri,  la muratura delle finestre, la costruzione di cancellate, l’adozione di catenacci e chiavi che consentissero l’apertura dei portoni d’ingresso solo dall’esterno, nonché grate strette ed impenetrabili, l’inserimento della doppia inferriata in parlatorio e la costruzione di ruote per il passaggio delle cose necessarie.

Alle monache fu imposto il ridimensionamento delle spese, l’abolizione della servitù personale alle monache benestanti, il ripristino della vita comune nelle camerate e l’eliminazione delle “celle-appartamento”. Per le cariche direttive venne introdotto il principio della turnazione triennale. Inoltre, ci fu il divieto di fasto e mondanità; diminuzione delle spese superflue per l’organizzazione delle feste, abolizione degli oggetti legati alle cure e agli affetti personali (come specchi, trucco, creme, cani), limitazione della confezione e della vendita di dolci, obbligo della presenza costante di confessori e visitatori apostolici. Per le monache che si opponevano a tali disposizioni era previsto il carcere o l’allontanamento dalla vita monastica.

Verso tutte le donne, anche laiche, ci fu l’azione pervasiva e costante del “controllo delle coscienze” mediante la confessione e la direzione spirituale.

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #34 il: Dicembre 26, 2016, 00:08:23 »
L’architettura cercò di attuare le decisioni prese nel Concilio di Trento riguardo i monasteri femminili, rendendoli simili a fortezze. Gli spazi interni furono cambiati per consentire la realizzazione di dormitori e refettori comuni, confinando le monache in spazi definiti, chiusi. Non fu più loro consentito di frequentare chiese esterne al monastero: dovevano ascoltare la messa da una posizione sopraelevata e nascosta ai fedeli tramite griglie.

L’accesso nei monasteri fu consentito in base al sesso, lo stato sociale e le regole ecclesiastiche. I parlatori, collocati vicini all’entrata, simboleggiavano ed ancora simboleggiano un’area di confine all’interno delle mura conventuali.

La professoressa Adriana Valerio, autrice del citato libro “Donne e Chiesa. Una storia di genere” narra che “Nel monastero  napoletano di Sant’Antonio da Padova, ad esempio, la finestra collocata dietro l’altare maggiore era munita di un’inferriata chiodata e di un telo che impedivano la vista alle monache, costrette solo ad ascoltare la messa nel coro. Al centro era inserita una finestrella in ferro, anch’essa munita di serratura, detta ‘comunicatorio’, ideata per la distribuzione dell’eucarestia: la badessa ne custodiva la chiave perché fosse aperta in occasione della celebrazione della messa. A destra e a sinistra dell’altare maggiore vi erano due finestrelle di ferro che fungevano da confessionali, traforate da piccoli buchi, coperti dalla parte interna da un telo, che rendevano impossibile qualsivoglia contatto fisico tra monache e confessori. Nella parte esteriore della chiesa vi era una ruota attraverso la quale passavano i paramenti e il necessario per la celebrazione della messa. Tali interventi non eliminarono, tuttavia, azioni trasgressive da parte delle monache, che riuscirono ad aprire varchi di comunicazione con l’esterno. Per tutto il Seicento e il Settecento a interventi repressivi si susseguirono atti di ribellione in un continuo altalenarsi di imposizioni e disubbidienze”.

Il corpo femminile diventò oggetto di particolare attenzione da parte degli organi istituzionali, civili e religiosi tramite il “controllo” della sessualità. Oltre all’inasprimento normativo relativo al concubinato, al meretricio e a qualunque forma di sessualità disordinata, ci fu il ruolo  esercitato soprattutto dai gesuiti, predicatori e confessori, con la loro “direzione spirituale” delle “anime”, tramite le continue confessioni alle donne, alle quali venivano rivolte specifiche ed umilianti domande rivolte sulla loro vita sessuale. Tale vigilanza condizionò per secoli la quotidianità dei fedeli cattolici.

Le norme di continenza o di astinenza, gli impulsi sessuali orientati solo all’interno del matrimonio, l’unione coniugale accettata come “remedium concupiscentiae”, il diniego del piacere sessuale nel coito, il decoro nell’abbigliamento sono gli aspetti che orientarono la formazione della buona cattolica, il cui corpo era funzionale alla procreazione e alle necessità fisiologiche del marito.

Il peccato derivante dalla sessualità esigeva la penitenza e la sorveglianza da parte del confessore che, come un giudice, doveva indagare sugli intimi desideri sessuali, verificare la purezza o meno delle azioni, condannare le colpe e assolvere infliggendo pene e penitenze. Ma la confessione dei “peccati” sessuali da parte delle donne poteva diventare occasione di peccato per i confessori che, eccitati dal corpo delle penitenti e dalle loro parole, potevano indurle a pratiche sessuali e a compiere atti osceni.

Il diritto canonico  della Chiesa cattolica definisce “sollicitatio ad turpia” (= provocazione a cose oscene) da parte del confessore che usa la circostanza del sacramento della penitenza per provocare il o la penitente all’attività sessuale.

Dal XVI secolo la Chiesa considera crimine  e violazione morale la “provocazione a cose oscene”, soggetta a pena variabile, che può giungere alla dismissione del prete dallo stato clericale. 

Questo reato, però,  non fu sempre  e dovunque adeguatamente e severamente punito. Non era facile denunciare l’accaduto da parte di donne sposate, che dovevano difendere l’onorabilità propria e della famiglia, o da parte di monache, intimorite dall’autorità dei confessori. Né era semplice superare l’omertà e la difesa della casta sacerdotale.

Per impedire l’eccessiva vicinanza tra il prete e la penitente durante la confessione, il cardinale Carlo Borromeo (1538-1584) fece introdurre nelle parrocchie della diocesi di Milano dei confessionali in legno, dando indicazioni sulla loro forma, in particolare per ciò che concerne la chiusura ai due lati e riguardo alla grata che doveva separare il confessore dal penitente.
Il prete siede all'interno del confessionale ed il penitente si pone sull’inginocchiatoio ad uno dei due lati del confessionale dotato di grate, protette dall’interno da uno sportellino,  in modo che solo un penitente per volta possa essere in comunicazione con il prete, parlando in modo bisbigliato. 

Da Milano il confessionale venne rapidamente diffuso in tutto il mondo, ma non eliminò il fenomeno e favorì la subalternità della donna al confessore che ne controllava la coscienza oltre ai comportamenti. Mentre gli uomini erano esortati a confessarsi almeno una volta l’anno, a Pasqua,  le donne erano indotte a confessarsi mensilmente o anche più frequentemente per tutelarne l’onorabilità.

Dopo il  Concilio ecumenico Vaticano II il sacramento della penitenza è stato “aggiornato” e nel nostro tempo  è consentita la confessione faccia a faccia fra il sacerdote ed il penitente. I nuovi confessionali consistono in un pannello che divide la sedia in cui siede il prete dall'inginocchiatoio in cui prende posto il penitente; questo consente di mantenere l'anonimato. Esiste, però, anche la possibilità di sedere di fronte al sacerdote e fare così la confessione. Sussiste in ogni caso la possibilità di continuare a ricevere il sacramento della penitenza nei confessionali tradizionali.

L’ossessione per il corpo femminile, desiderato e nel contempo rifiutato e respinto, si manifestò in maniera drammatica nella letteratura demonologica. I trattati di stregoneria dal ‘400 in poi acutizzarono il concetto di inferiorità naturale e fisiologica delle donne, “predisposte a cedere alle lusinghe del demonio con il quale avevano licenziosi rapporti sessuali”.  E’ questo il motivo della crudeltà verso le donne nelle torture inflitte alle cosiddette “streghe”, la cui persecuzione insanguinò l’Europa cattolica e protestante.
« Ultima modifica: Dicembre 26, 2016, 00:11:15 da dottorstranamore »

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #35 il: Dicembre 27, 2016, 08:50:55 »
Le guerre, anche quelle tra cattolici e protestanti, le pestilenze ed altre epidemie inducevano a trovare la causa di ogni sciagura nella presenza del “maligno”, il diavoletto che agiva tramite il corpo delle “streghe”, con le quali coitava,  perciò dovevano essere uccise perché alleate col demonio. Ucciderle per estirpare il Male. Venivano prese di mira le donne solitarie, le “guaritrici” ed altre tipologie considerate pericolose, dannose alla società per i loro rapporti con Satana, dal quale, si pensava, ricevevano poteri oscuri e mortali. Bastava una denuncia, generata dal sospetto o dalla vendetta, per essere sottoposta ad un processo per stregoneria. Sul corpo nudo delle imputate si cercava il marchio del demonio. Se l’inquisita rifiutava di ammettere la propria colpa (che non aveva) si passava alla tortura, che prevedeva anche la mastectomia.

Possessione diabolica o pretesa di santità furono oggetto di indagine da parte dell’Inquisizione e dei confessori, che spesso rimanevano “turbati” dai racconti intimi delle donne e rischiavano il celibato ecclesiastico.

Il rapporto tra i confessori e le donne decise ad intraprendere la vita religiosa si caricò anche di aspetti visionari e profetici. Ma quale Ordine religioso scegliere, quale Congregazione ? Relegarsi in un monastero o nel convento ?

Monastero non è sinonimo di convento.
 
Il convento ospita una comunità religiosa di un Ordine mendicante (Domenicani, Francescani, Agostiniani, Carmelitani, ecc.) i cui membri sono chiamati "frati" e “suore”. Il sostantivo “frate” deriva dal latino “frater”, da cui anche “fratello”; il sostantivo “suora” deriva dal latino “soror”, da cui anche “sorella.

Nella  Chiesa cattolica si indica con l'appellativo di suora una donna che avendo emesso  in forma semplice i voti religiosi di povertà, obbedienza e castità fa parte di un Ordine religioso o Congregazione religiosa.

La suora si distingue dalla monaca perché quest'ultima appartiene ad un Ordine religioso femminile generalmente di antica fondazione e dove i voti sono emessi in forma solenne.

Mentre gli ordini monastici femminili (dediti esclusivamente a vita contemplativa) nacquero quasi contemporaneamente a quelli maschili, le prime congregazioni religiose femminili sorsero a partire dal XVI secolo ed ebbero origine da comunità di terziarie laiche  legate ad un Ordine religioso.
 
Diversamente dalle monache, dedite a vita contemplativa e votate alla clausura, le suore si dedicano prevalentemente all'apostolato attivo (insegnamento, assistenza ad anziani e ammalati, animazione parrocchiale...).
Il convento femminile  è governato dalla “madre superiora”.

Il monastero, invece, ospita monaci o monache di un Ordine religioso che ha una regola, di solito quella benedettina o agostiniana.  L’abate governa in uno o più monasteri maschili confederati, la badessa o priora governa in quello femminile.
Un particolare tipo di monastero è l’abbazia, che per il diritto canonico è un ente autonomo. 
Anche i monaci e le monache emettono tre voti religiosi: povertà, obbedienza e castità. 
La regola benedettina comprende oltre alla preghiera anche attività lavorative (ora et labòra).

Conventi e monasteri nel passato furono luoghi privilegiati dalle donne con la vocazione di essere “spose di Cristo”,  ma furono anche dimore coatte per tante ragazze che non sopportavano la vita religiosa imposta loro dalle proprie famiglie.

Dopo la Controriforma cattolica conventi e monasteri diventarono punti di riferimento indispensabili per le cosiddette “mal maritate”, per le vittime di violenza domestica e per le donne considerate “a rischio”: ex prostitute, giovani vedove e altre figure femminili rimaste prive della protezione maschile.

Le ragazze di famiglie nobili avevano la cella monastica personale, indispensabile per avere autonomia e indipendenza.

L’iter che dallo stato laicale conduceva una ragazza a diventare monaca prevedeva alcune tappe principali: l’accettazione e l’entrata nel monastero;  la vestizione (la giovane indossava la tonaca dell’Ordine religioso); la professione (quando la novizia pronunciava i voti di castità, povertà e obbedienza);la consacrazione e la velazione.

Nel monastero la novizia riceveva una cinta dalla badessa, come simbolo di temperanza e castità, ed ogni monaca della comunità tagliava una ciocca di capelli  alla ragazza, che poi indossava il velo, simbolo di modestia, sobrietà e continenza. Ogni dettaglio della cerimonia di vestizione  e taglio dei capelli era anche espressione metaforica del sacrificio della bellezza della giovane.
La cerimonia si concludeva con il bacio della “conciliazione” che la novizia dava alla badessa e alle altre monache. (cfr. Ordo, rituum et caeremoniarum  suscipiendi  habitum Monialem)

C’erano due tipologie di monache: le coriste (o velate) e le converse, le quali svolgevano incarichi di servizio.
Le coriste provenivano di solito da famiglie nobili o ricche. All’ammissione offrivano la dote avuta dalla famiglia. Nel monastero avevano gli incarichi più prestigiosi: da quello di badessa a quelli di tesoriere, sacrestane, cellerarie, procuratrici, consigliere della badessa, insegnanti, portinaie, ecc.. Le converse erano invece quasi sempre di umili origini, non avevano accesso all’istruzione, e, a differenza delle coriste, non emettevano necessariamente la “professione” dopo un anno di noviziato. Erano ammesse in convento soprattutto per svolgere mansioni di servizio alle coriste, le quali potevano concentrarsi sulla preghiera. Le converse pulivano gli alloggi, facevano il bucato, cucinavano, curavano le monache ammalate, badavano agli animali domestici, curavano il giardino e l’orto.

Anche gli abiti indossati da coriste e converse esplicitavano le loro differenti funzioni: il velo nero distingueva le prime dalle seconde che invece indossavano il velo bianco. Era comunque obbligatorio per tutte indossare l’abito dell’Ordine di appartenenza. 

Ovviamente le differenze fra coriste e converse si riverberavano anche negli spazi a loro disposizione: vivevano in aree separate e di norma le celle delle prime erano più grandi di quelle delle seconde. Anche in refettorio c’era una sorta di diritto di precedenza: le converse potevano accedervi alla fine del pasto delle coriste.

Per quanto riguarda la sessualità c’è da dire che nelle comunità monosessuali  la sessualità  viene sublimata nella castità, ma dalla letteratura sappiamo dei rapporti omo ed eterosessuali. Le monache o suore che partorivano davano i figli in adozione oppure li facevano affidare al brefotrofio, l'istituto che accoglie e alleva i neonati illegittimi, abbandonati o in pericolo di abbandono. Si distingue dall’orfanotrofio che è invece la struttura di accoglienza dove sono accolti ed educati i bambini orfani, e a cui vengono anche affidati minori abbandonati o maltrattati dai genitori naturali.

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #36 il: Dicembre 28, 2016, 08:02:40 »
Il teologo gesuita Roberto Bellarmino (1542 – 1621), venerato come santo e proclamato dottore della Chiesa, fu un esponente di primo piano della teologia della Controriforma cattolica.
Nel 1597 il pontefice Clemente VIII lo nominò consultore teologo, esaminatore per la nomina dei vescovi, consultore del Sant'Uffizio e teologo della sacra penitenzieria. Nel concistoro del 3 marzo 1599 lo stesso  papa lo nominò cardinale presbitero.

Bellarmino come consultore del Sant’Uffizio  s’interesso dal 1597 del caso del filosofo e frate domenicano Giordano Bruno, condannato al rogo per eresia, nel 1600. Il cardinale tentò di fargli abiurare le molte tesi considerate eretiche, nel probabile tentativo di salvargli la vita, poiché la condanna per eresia era inevitabilmente la pena capitale. La lunga durata del processo fu causata dal fatto che Giordano Bruno non ebbe un comportamento lineare nell'ammettere l'ereticità delle proprie posizioni. Benché gli inquisitori volessero ricorrere come extrema ratio alla tortura, papa Clemente VIII si oppose e lo volle condannato al rogo.

Anche Galileo Galilei ebbe due processi presso il Santo Uffizio: uno nel 1616 e l'altro nel 1633.Ci furono i  processi a suo carico perché la teoria eliocentrica era considerata eretica dai teologi. Infatti lo scienziato pisano sostenendo che il Sole fosse fisso al centro dell'universo smentiva alcune frasi contenute nel Vecchio Testamento, per esempio "Dio fermò il sole" (Giosuè 10,12), o alcune teorie sostenute dalla Chiesa secondo cui la terra è immobile al centro dell'universo. La dottrina prevalente in quel tempo era infatti che l'infallibilità della Bibbia comprendesse anche il significato letterale, non solo quello simbolico.

Galilei non fu condannato per eresia, avendo egli obbedito ai precetti del Sant'Uffizio. Non rinnegò la fede cattolica, non fu sottoposto a tortura e non disse la frase: "Eppur si muove", che gli fu attribuita circa un secolo dopo dal giornalista Giuseppe Baretti nel 1757 a Londra.
 
Nel processo contro  Galilei alcuni storici hanno voluto vedere una partecipazione del cardinale Bellarmino su una posizione oscurantista, ma non fu così.  Bellarmino fu coinvolto solo nel primo processo a Galilei, quello del 1616, poiché nel secondo, quello del 1633, quando Galilei fu condannato al carcere, il cardinale Bellarmino era deceduto da 12 anni. 

La condanna di Galileo Galilei ebbe un peso determinante nella storia della Chiesa cattolica ed indirettamente ebbe ripercussioni anche sull’evoluzione della condizione femminile, perché non consentire dubbi interpretativi sui testi sacri, considerati rivelati, significò fissare le donne negli stereotipi di alcune figure bibliche non sottoposte ad indagine critica, come dimostra l’interpretazione letterale di Eva, considerata veramente esistita, nata il sesto giorno della creazione da una costola di Adamo, a lui sottomessa e causa del “peccato”. 

Per la Chiesa gerarcocratica, monarchico-piramidale post-tridentina non era possibile conciliare indagine scientifica e verità di fede. Dio è l’eterno senza mutazione, il Cristo, mediatore risorto nella maestà e nella potenza, il re trionfante, capo della Chiesa cattolica, la quale tendeva ad identificarsi con il regno di Dio, ridotto alla dimensione della Chiesa visibile.: “Ecclesia dicitur regnum caelorum” (= La Chiesa è il regno dei cieli).
Il Regno dei Cieli, oppure “Regno di Dio” è un concetto chiave del  cristianesimo, basato su un’espressione attribuita a  Gesù, con riferimento alla sovranità di Dio su tutte le cose. Nella tradizione cristiana il Regno dei Cieli (o di Dio) è stato accostato al concetto di Paradiso.

Nel Nuovo Testamento è scritta più di cento volte la parola “regno”, per indicare la regalità e il reame  della potestà divina.
In ebraico l'espressione "i cieli" è un eufemismo per indicare Dio senza nominarlo esplicitamente. Tale uso entrò nella lingua italiana in espressioni come "se il ciel lo vuole”. 

Nei primi tempi della sua predicazione itinerante Gesù annunciava l'imminenza del regno dei cieli (o di Dio): “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1, 15).
Anche Giovanni Battista diceva: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” (Mt 3, 2). La stessa frase è ripetuta da Gesù, secondo il Vangelo di Matteo (4, 17). 
La “salvezza” si poteva raggiungere con l’obbedienza ai dettami della fede mediata dall’autorità gerarchica della Chiesa, arbitra della “verità” e dell’agire morale. 

Al servizio della dottrina della Chiesa furono coinvolte anche le arti.  Il Concilio di Trento volle nuove modalità artistiche con funzione pastorale e pedagogica per educare i fedeli attraverso le immagini, e favorire la devozione e la pietà popolare.
Le figure femminili dell’Antico Testamento furono reinterpretate in chiave cristiana: Rebecca, Giuditta, Ester e Giaele consentivano la rappresentazione allegorica della storia mariana; furono considerate  prefigurazioni della Vergine e del suo ruolo di mediatrice vittoriosa sul Male. Le predette donne bibliche erano indicate come esempi di virtù da seguire, mentre le donne negative (Eva, Gezabele, Erodiade ed altre) erano additate per i loro atteggiamenti viziosi e ribelli, perciò erano da condannare.

Alle rappresentazioni artistiche volute dalla Controriforma cattolica ed ispirate dalla Bibbia si aggiunse il culto delle reliquie, dei santi e delle pratiche devozionali. 

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #37 il: Dicembre 29, 2016, 08:01:17 »
Nel 15/esimo secolo la nobile veronese Isotta Nogarola (1418 – 1466) intraprese un dialogo epistolare con il letterato e podestà di Verona, Lodovico Foscarini, per riscattare la donna dal peso del “peccato originale”, avvenuto, a suo avviso, per brama di conoscenza e non di potere: “Eva […] non appetivit se esse Deo similem in potentia, sed in scientia tantum boni et mali” (= Eva non bramava essere simile a Dio  nella potenza, ma nella conoscenza del bene e del male). La corrispondenza tra i due fu poi pubblicata nel 1451  con il titolo “De pari aut impari Evae atque Adae peccato”. Isotta Nogarola immagina Eva come creatura debole e ignorante, a giustificazione del suo comportamento alle lusinghe del serpente, mentre Lodovico Foscarini sostiene la maggiore colpevolezza della donna. Nel dialogo le argomentazioni e le confutazioni sono sostenute dal ricorso a passi biblici, a frasi aristoteliche, al “De genesi ad litteram” di Agostino, vescovo di Ippona, ai “Moralia in Job” di papa Gregorio Magno, alle “Sententiae” di Pietro Lombardo e alla teologia di Tommaso d’Aquino.

Un’altra donna, la scrittrice, filosofa e poetessa francese di origini italiane Christine de Pizan (in Italia meglio conosciuta come Cristina da Pizzano, nata a Venezia nel 1365 e morta a Poissy nel 1430) scrisse un libro titolato: “Livre de la cité des dames” (la città delle dame), pubblicato nel 1405, come risposta ad alcuni testi di vari autori, come quello di Giovanni Boccaccio, titolato: “De mulieribus claris” (Sulle donne famose), e quello del poeta francese Jean de Meung: “Roman de la rose” (romanzo della rosa), un poema allegorico che descrive le donne come seduttrici.   
La de Pizan scrisse: “Sembrano tutti parlare con la stessa bocca, tutti d'accordo nella medesima conclusione, che il comportamento delle donne è incline ad ogni tipo di vizio”.
Questa scrittrice immagina (nel quindicesimo secolo) una società utopica e allegorica in cui la parola “dama” indica una donna non di sangue nobile, ma di spirito nobile. Nella città fortificata e costruita secondo le indicazioni di Ragione, Rettitudine e Giustizia,  la De Pizan racchiude sante, eroine, poetesse, scienziate, regine, ed altre che offrono un esempio del potenziale che le donne possono offrire alla società.
Per  i temi trattati nelle sue opere, in cui combatte la misoginia, è considerata un'antesignana del femminismo. Nella “Città delle Dame”, per esempio, la protagonista esclama ad un certo punto con voluta ironia: “Ahimè, mio Dio, perché non mi hai fatto nascere maschio? Tutte le mie capacità sarebbero state al tuo servizio, non mi sbaglierei in nulla e sarei perfetta in tutto, come gli uomini dicono di essere”.

Nel  17/esimo secolo un’altra poetessa e scrittrice italiana, la veneziana  Lucrezia Marinelli (1571 – 1653) prese parte al dibattito europeo sulla “querelle des femmes”, che coinvolse numerosi intellettuali europei dal tardo medioevo fino al Settecento. In risposta al testo misogino dello scrittore Giuseppe Passi, “Dei donneschi difetti”,  pubblicato nel 1599, la Marinelli scrisse “La nobiltà et l'eccellenza delle donne co'difetti et mancamenti de gli uomini”, pubblicato nel 1600.  Questo libro è diviso in due parti: in una elogia le donne, nell’altra critica i difetti degli uomini.

Contemporanea della Marinelli fu la parigina Marie de Gournay (1565 – 1645, figlia adottiva di Michel de Montaigne), la quale scrisse il saggio: “Egalité des hommes et des femmes”, pubblicato nel 1622, a cui fece seguito nel  16126 un altro saggio su “Les femmes et grief des dames”, nel quale auspica l'uguaglianza tra i sessi.

I testi citati costituiscono per la storia delle donne lo sfondo di discussione sull’identità e sui ruoli del maschile e del femminile, anche se gli esiti più originali e rilevanti ci furono nel XIX secolo.

C’è anche da dire che alcuni uomini,filosofi, scrissero libri in difesa delle donne.

Nel 16/esimo secolo il filosofo ed astrologo tedesco Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim (1486 – 1535), conosciuto in Italia col nome italianizzato di Cornelio Agrippa, dedicò a Margherita d’Asburgo il breve trattato titolato “De nobilitate et praecellentia foeminei sexus”  (= Nobiltà e preminenza del sesso femminile), nel quale sostiene la superiorità della donna rispetto all’uomo, dal momento che già il nome della prima donna, Eva, che significa “vita”, è più nobile di quello di Adamo, che vuol dire terra. E l’essere stata creata dopo l’uomo è motivo di maggior perfezione. Inoltre, la donna è più eloquente e giudiziosa.

Alla fine del Seicento il filosofo e scrittore francese François Poullain de La Barre (1647 – 1726), considerato da alcuni studiosi il padre del femminismo moderno, convinto delle ingiustizie nei confronti delle donne, nel 1673 pubblicò il saggio “De l’egalitè des deux sexes,  discours physique et moral où l'on voit l'importance de se défaire des préjugez” (= L’uguaglianza dell’uomo e della donna…), col quale pose le basi teoriche del principio di uguaglianza tra i due sessi. Egli raccomanda che le donne ricevano un'educazione adeguata, ma anche che siano aperte a loro tutte le carriere, comprese quelle scientifiche. E’ sua questa famosa massima: “la mente non è il corpo, la mente non ha sesso”.
Le teorie di Poullain sulla parità tra uomo e donna influenzarono numerosi intellettuali. Alcuni esempi.

La drammaturga francese Olympe de Gouges (1748 – 1793) nel 1791 pubblicò la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, in cui afferma l’uguaglianza politica e sociale tra uomo e donna; il 3 novembre 1793 venne ghigliottinata perché si era opposta all’esecuzione di Luigi XVI.

Il filosofo francese Charles Fourier (1772 – 1837) fu favorevole all’uguaglianza tra uomini e donne; nel 1830 partecipò al moderno movimento femminista.

Il filosofo ed economista britannico John Stuart Mill (1806 – 1873) Influenzato anche dalle idee femministe della moglie, la suffragetta  Harriet HardyTaylor, e da quelle della figliastra Helen, Mill scrisse nel 1869 “La servitù delle donne”, in cui rivendica la parità dei sessi nel diritto di famiglia e il suffragio universale, sostenendo che ciò migliorerà anche gli uomini, i quali smetteranno di sentirsi superiori solo per il fatto di essere maschi e metterà fine all'ultimo residuo di schiavitù legale esistente dopo l'abolizionismo dello schiavismo dei neri negli Stati Uniti.

La predetta filosofa inglese Harriet Hardy Taylor (1807 – 1858) fu un’esponente del primo femminismo liberale; sposò in seconde nozze John Stuart Mill. Negli scritti della Taylor, si può leggere la volontà di raggiungere una definitiva eguaglianza tra uomo e donna nell'istruzione, nel matrimonio e, in generale, nella giurisprudenza.

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #38 il: Dicembre 30, 2016, 08:32:31 »
A Firenze, negli anni settanta del Quattrocento, la colta  scrittrice e poetessa Lucrezia Tornabuoni (1424 – 1482), moglie di Piero di Cosimo de’ Medici e madre di Lorenzo il Magnifico, scrisse anche cinque brevi poemi di carattere sacro dedicati a personaggi biblici, uno dei quali è Giuditta, che nella lingua ebraica significa “lodata” ed è la forma femminile del nome Giuda. Le vicende di Giuditta sono raccontate nell’omonimo libro, composto di 16 capitoli. La storia è ambientata al tempo del re Nabucodonosor (605 – 562 a. C.). Si narra dell’assedio al popolo israelita  da parte delle truppe assiro-babilonesi comandante dal generale Oloferne.  Assediati, ridotti allo stremo per fame e sete, dopo 34 giorni gli israeliti avrebbero voluto arrendersi, ma la giovane e bella Giuditta, ricca vedova di indiscussa virtù, convoca gli anziani, rimprovera loro la scarsa fede nella vittoria,  ne ottiene la fiducia e, invocata per sé la protezione del Dio di Israele, si veste in modo elegante per presentarsi  ad Oloferne con la sua serva e con doni, fingendo di essere venuta a tradire i suoi.
Condotta alla presenza del generale viene ben accolta. Ella gli fa credere di poter avere la rivelazione dei peccati del suo popolo a causa dei quali l'Eterno lo darà in mano al nemico, permettendogli di giungere vittorioso fino alla conquista di Gerusalemme.
Oloferne accetta l'offerta e la lascia pregare ogni notte il suo Dio per avere la promessa rivelazione. Dopo tre giorni la invita al suo banchetto, credendo di poterla anche possedere. Ma quando viene lasciato solo con la donna è molto ubriaco. Giuditta si avvicina  alla colonna del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, prende la scimitarra di lui, si avvicina al letto, afferra l'uomo per i capelli e con forza lo colpisce due volte al collo fino a staccargli la testa. Poi Giuditta fugge a Betulia tra i suoi, dove riceve molti onori. Le truppe assiro-babilonesi trovano morto il loro comandante ed impauriti fuggono, inseguiti dai Giudei.
La fama di questa donna fu dal Medioevo tema iconografico di numerosi artisti. Mantegna immagina Giuditta con un coltello in mano mentre taglia la testa di Oloferne; Donatello la raffigura con una sciabola; Caravaggio con una spada; Artemisia Gentileschi con uno spadone.

Un altro noto personaggio biblico che ha ispirato numerosi capolavori artistici  è  il pastorello Davide che, armato di fionda, vince Golia, il temibile gigante dei Filistei, in guerra contro il popolo di Israele guidato da re Saul.  Davide simboleggia la fede e il coraggio contro la violenza.
E’ rappresentato nella statua in marmo scolpita tra il 1501 e il 1504 da Michelangelo Buonarroti.



Nel secolo precedente, prima del David michelangiolesco furono realizzate a Firenze sullo stesso tema altre opere d’arte, per esempio, quella eseguita nel 1425 circa dall’architetto e scultore Lorenzo Ghiberti in una formella della “Porta del Paradiso”, nel battistero del duomo; la scultura in bronzo del David  prodotta da Donatello nel 1440 circa. Nel 1495, in occasione della seconda cacciata dei Medici, venne trafugato dalla folla e trasportato in palazzo Vecchio, quale simbolo della libertà repubblicana. Da aggiungere, la scultura bronzea del Verrocchio, raffigurante il David, databile al 1472 – 1475. Caravaggio invece, ma non a Firenze, nel 1606 pone in primo  piano nel dipinto la testa mozzata e il viso stravolto dal dolore di Golia, al quale il pittore presta le sue fattezze (è infatti quasi certo che si tratta di un autoritratto). La sofferenza dello sconfitto si riverbera anche sul volto tormentato di Davide, ben diverso in questa raffigurazione dall'adolescente spavaldo e trionfante immortalato da Donatello e da Michelangelo.

Nella Firenze della seconda metà del ‘400 oltre i citati artisti spicca il frate domenicano Girolamo Savonarola, predicatore e politico. Profeta di sventure, tentò di instaurare un modello politico teocratico per la Repubblica fiorentina dopo la cacciata dei Medici. Ma nel 1497 il pontefice Alessandro VI lo scomunicò e l’anno dopo lo fece impiccare e bruciare sul rogo come eretico e scismatico. Gli scritti di questo domenicano nel 1559 furono inseriti nell’Indice dei libri proibiti, poi riabilitati dalla Chiesa. Ora è servo di Dio. Come al solito la Chiesa adatta la sua politica del bastone e la carota secondo l’epoca ed il contesto sociale.

Da Firenze a Napoli, dove nel 1534 arrivò con un incarico politico il teologo spagnolo Juan de Valdés (1500 – 1542). Nel capoluogo partenopeo costituì un cenacolo di nobili donne (Costanza d’Avalos, Maria d’Aragona, Caterina Cybo, Isabella Bresegna ed altre) e di nobil uomini (Ferrante Sanseverino, Galeazzo Caracciolo, Marcantonio Flaminio ed altri). La sua casa a Chiaia divenne un circolo letterario e religioso, e le sue conversazioni e le sue opere, che circolarono manoscritte, stimolarono il desiderio di una riforma spirituale della Chiesa. Alla sua morte, nel 1542, la sua erede spirituale, la contessa Giulia Gonzaga, continuò le relazioni tra le donne colte dell’aristocrazia europea. Tra queste la principessa Vittoria Colonna, amica spirituale di Michelangelo Buonarroti.

Un’altra donna sensibile ai fermenti religiosi del tempo fu la colta duchessa di Camerino, Caterina Cybo (1501 – 1557), quinta figlia di Franceschetto Cybo (1449-1519), figlio naturale di Giovanni Battista Cybo (che fu papa  col nome di Innocenzo VIII dal 1484 al 1492) e di Maddalena de' Medici (1473-1519), figlia di Lorenzo il Magnifico e sorella di Giovanni de' Medici, divenuto papa Leone X nel 1513. In questo stesso anno Caterina, all’età di 12 anni, fu promessa sposa di Giovanni Maria Varano (1481-1527), creato nel 1515 duca di Camerino da papa Leone X, zio di Caterina, la quale fu determinante per il riconoscimento pontificio dell’Ordine dei frati minori cappuccini (in latino Ordo fratrum minorum capuccinorum).
L’Ordine dei frati minori cappuccini fu creato nel 1520 circa dal frate francescano osservante Matteo da Bascio, quando si convinse che lo stile di vita condotto dai francescani del suo tempo non era quello che san Francesco aveva immaginato. Egli desiderava ritornare allo stile di vita originario in solitudine e penitenza come praticato dal fondatore del suo ordine. Nel 1528, Matteo ottenne, con la mediazione di Caterina Cybo, duchessa di Camerino, l'approvazione di papa Clemente VII. Gli fu dato il permesso di vivere come un eremita e di andare ovunque predicando ai poveri. Questi permessi non furono solo per lui, ma per tutti quelli che si sarebbero uniti a lui nel tentativo di restaurare l'osservanza della Regola di san Francesco.

Fra le donne del primo Rinascimento spicca la scrittrice e poetessa francese Margherita  d'Angoulême (1492 -1549), figlia di Carlo di Valois e di Luisa di Savoia. Margherita fu principessa di Angoulême, duchessa di Alençon, e poi regina di Navarra. Fu protettrice di artisti e letterati. Scrisse, fra l’altro,  una raccolta di novelle titolata “Heptaméron”, ispirata dal “Decamerone” di Giovanni Boccaccio.
   
In contatto con il circolo umanistico della regina di Navarra ci fu Renata di Francia (1510 – 1575), figlia del re Luigi XII. Data in moglie ad Ercole II, duca di Ferrara, creò  a corte un luogo di accoglienza per gli esuli francesi e i dissidenti religiosi. Con loro discuteva sull’autorità del papa, la presenza reale di Gesù nell’ostia consacrata, la validità dei sacramenti, la mediazione di Maria e dei santi, l’esistenza del purgatorio. Con Giovanni Calvino, in visita a Ferrara nel 1536, iniziò una corrispondenza che durò per tutta la sua vita. Il marito temendo per lei l’Inquisizione l’aveva relegata agli arresti domiciliari. Dopo la morte del marito Renata nel 1558 fece ritorno in Francia. Nel suo piccolo feudo di Montargis, vicino Orléans, accolse cattolici ed ugonotti, affermando il rispetto per la libertà di coscienza.
« Ultima modifica: Dicembre 30, 2016, 08:35:47 da dottorstranamore »

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #39 il: Gennaio 03, 2017, 09:24:57 »
Fin dai primi secoli del cristianesimo ci furono donne  che scelsero la vita ascetica, rifiutando il matrimonio e vivendo ritirate nelle proprie case di famiglia nei due gradi di castità: quelle “virgines”, consacrate pubblicamente a questo stile di vita, e quelle “viduae sacrae”, la cui presenza, non sempre apprezzata dalla gerarchia ecclesiastica, si è prolungata per due millenni e perdura ancora oggi nella Chiesa cattolica.
Quelle donne,  singole o in comunità, moderavano il vitto ed il vestiario, osservavano l’astinenza sessuale e conducevano una vita ritirata, prodromo di quella clausura, che nei secoli successivi caratterizzò la vita monastica femminile.

Le prime notizie su forme di vita ascetica femminile organizzata sono della metà del IV secolo. L’aspirazione alla vita cenobitica assunse rilievo con la partecipazione di donne, vergini o vedove aristocratiche.   

Gaetano Greco nel suo saggio “Ordini monastici femminili e la Chiesa in Italia” afferma che nell’Alto Medio Evo i monasteri femminili erano fondazioni regie o aristocratiche, con poche monache, appartenenti anche a casati e clan nobili sconfitti politicamente. Allo stesso modo di analoghe fondazioni maschili, talora i monasteri  femminili costituivano un rifugio, voluto od imposto, per le donne in situazioni di violenza, subita o temuta, e per salvaguardare almeno parzialmente i beni di clan gentilizi sconfitti, che si ritiravano dentro queste istituzioni ecclesiastiche. In seguito, anche per questo monachesimo femminile si riscontra una lenta influenza del movimento cluniacense.

Nell’XI secolo ci fu una ripresa delle fondazioni monastiche su base gentilizia, anche dentro le città comunali, con la dotazione di beni familiari comuni e conservando il patronato familiare nell’elezione della badessa, spesso eletta a vita: come già in età longobarda e franca, in questi monasteri si ebbero vere e proprie dinastie di badesse appartenenti alle stirpi dei fondatori.

La rinascita monastica del XII secolo indusse alla creazione di rami femminili di Ordini monastici maschili: le Camaldolesi (1085) le Vallombrosiane (1145), le Certosine (1228) le Olivetane. In questo contesto di ripresa furono importanti le fondazioni femminili legate all’ordine dei Cistercensi: i monasteri di questo tipo si sottoponevano al governo spirituale del ramo maschile, che provvedeva tramite propri monaci all’amministrazione dei sacramenti alle monache.
Con l’affermazione degli Ordini Mendicanti nacquero, sul loro esempio e sotto la loro guida, monasteri del ramo femminile, come le Domenicane, istituite nel 1206 circa, e le Clarisse, nel 1212. Agli inizi, Chiara e le sue consorelle  vivevano in ospizi nei pressi delle città, si mantenevano con il proprio lavoro e rifiutavano le donazioni di beni e le offerte; ma nel 1229 anche a loro furono imposte le due norme tradizionali delle fondazioni monastiche femminili: il possesso dei beni e la clausura. A partire dalla fine del XIII secolo comparvero le Eremitane Agostiniane, che formarono il ramo femminile degli Agostiniani, chiedendo ed ottenendo di porsi sotto il loro governo e la loro assistenza spirituale.
Il primo monastero di Servite nacque a Todi nel 1285 con un gruppo di prostitute convertite da san Filippo Benizi: le loro fondazioni erano legate al ramo maschile attraverso il priore generale o il priore provinciale dell’Ordine. Infine, alla metà del XV secolo nacquero anche monasteri di Carmelitane.

Gli ordini monastici femminili conobbero una serie di problemi comuni. Di fatto non ottennero il riconoscimento della loro aspirazione alla povertà evangelica, che pure era forte in alcune delle loro ispiratrici. Si pensava  che la condizione di miseria esponesse le donne alle tentazioni ed ai pericoli della “carne”, cioè a relazioni sessuali libere o a pagamento. Nonostante le loro aspirazioni, Francescane e Domenicane si dovettero limitare a uno stile di vita più austero rispetto agli altri monasteri femminili e anche i loro monasteri furono fondati su una base patrimoniale, arricchita con le doti delle singole monache: l’involuzione fu favorita dal  successo che le case femminili dei Mendicanti riscossero negli stessi ceti aristocratici.

Le monache, in quanto donne, erano considerate inabili all’amministrazione dei sacramenti, di conseguenza dovevano ricorrere al servizio sacramentale fornito per l’eucarestia e la confessione da religiosi maschi: questa presenza maschile esponeva le monache a rischi e maldicenze, mentre gli stessi religiosi non di rado provavano fastidio e imbarazzo nell’assolvere a questo compito, soprattutto nel caso dei confessori. Inoltre, con la Decretale “Periculoso ac detestabili” del 1298 confermata nel 1309 dalla “Apostolicae Sedis”,  papa Bonifacio VIII impose anche a questi monasteri l’obbligo della “clausura”, cioè della segregazione rispetto al mondo esterno.

Agli inizi dell’età moderna  molti monasteri femminili cessarono di osservare l’obbligo della clausura, o non lo avevano mai rispettato sin dalle origini. L’apertura dei monasteri e delle case femminili verso l’esterno poteva avere in qualche caso inferenze sentimentali (come testimonia la novellistica), ma più spesso costituiva una scelta obbligata, determinata da concrete esigenze di sopravvivenza: per i monasteri era necessario mantenere rapporti con chi commissionava alle monache lavori di filatura, tessitura, cucito, etc., e in alcuni mesi dell’anno i monasteri più poveri dovevano mandare fuori dal loro chiostro alcune sorelle, per raccogliere le elemosine indispensabili a sfamare la comunità. Soprattutto, l’apertura verso l’esterno manteneva in costante rapporto le singole monache con il contesto sociale, in primo luogo con le proprie famiglie d’origine, rispondendo a esigenze connesse alla gestione economica dei patrimoni monastici e delle doti monacali.

La Chiesa dopo il Concilio di Trento promosse una forte offensiva per introdurre un nuovo stile di vita nei monasteri:  il mandato temporaneo  e non più perpetuo dell’ufficio di madre superiora, l’obbligo della vita comune e la realizzazione del regime di clausura in tutti i monasteri femminili, a qualunque ordine appartenessero e qualunque regola seguissero. Momenti principali di questa strategia disciplinatrice furono alcuni provvedimenti romani.
Il 29 maggio 1566, con la costituzione “Circa Pastoralis officii” e due anni dopo con la “Lubricum vitae genus”, papa Pio V impose l’obbligo della rigida clausura a tutti i monasteri femminili. Con la bolla “Deo sacris virginibus” del 30 dicembre 1572 Gregorio XIII ribadì gli ordini del suo predecessore, aggiungendovi una minaccia: i monasteri inadempienti sarebbero stati condannati all’estinzione, perché non avrebbero potuto accettare nuove consorelle. L’imposizione dall’alto del rigore disciplinare controriformistico sollevò le proteste generalizzate delle monache e tentativi di resistenza, che si protrassero fino agli inizi del Seicento.

La benedettina napoletana Fulvia Caracciolo, di nobile famiglia, nelle sue memorie, “Breve Compendio”, scritte nel 1580, testimonia gli atti di ribellione delle monache. Per ripristinare la disciplina nel monastero di San Festo, a Napoli, ad esempio, fu necessario ricorrere al “braccio secolare”: il monastero fu assediato ma le monache reagirono violentemente scagliando pietre dalle mura, ferendo e addirittura uccidendo alcuni tra gli assalitori. Le monache, come riferisce Fulvia, “furono maltrattate con prigionie ed altri modi orribili e dimoravano nelle carceri […] per mesi due e giorni venti”. Analoga situazione a Napoli con le monache benedettine del monastero di Santa Maria Donnalbina che nel 1564, lanciando per quasi due ore pietre, scodelle, vasi colmi di terra, colpirono anche Giulio Santoro, delegato del cardinale Carafa.

Era difficile per le monache cambiare uno stile di vita consolidato nei secoli e diventato prassi quotidiana. Alla fine, il coinvolgimento attivo dei ceti nobiliari e dei patriziati cittadini, interessati alla nuova ideologia sottesa alla disciplina della Controriforma, sugli antichi monasteri femminili fu imposta una pesante cappa claustrale.

Nel Seicento e nel Settecento i concili post tridentini e gli interventi dei vescovi diocesani ribadirono le norme per evitare abusi nei monasteri femminili.
 
Gli editti emanati a Napoli dal cardinale Ascanio Filomarino tra il 1642 ed il 1658 ripetutamente vietarono di ricevere visite, di abbellire gli altari, di usare canto e musica durante la messa senza il permesso del vicario delle monache, di far dormire nelle proprie celle educande, novizie e professe, di introdurre bambini, di fare spese superflue e sperperare doti. Tali divieti evidenziano le resistenze delle monache napoletane a vivere nella totale clausura e nella più rigorosa austerità economica.
Contrariamente alle norme per isolare dal contesto urbano gli spazi claustrali tramite l’innalzamento di alte mura di cinta, le religiose realizzarono in alcuni monasteri logge ai livelli superiori, belvedere, chiostri maiolicati (Santa Chiara) per rendere più piacevole la loro vita, che volevano comunque aperta alla città.

Le “monacazioni forzate” continuarono nell’età moderna tra alcuni pubblici scandali (come quello della famosa monaca di Monza) e drammi individuali connessi alle strategie familiari tese a consolidare i patrimoni domestici, privilegiando la discendenza maschile nella successione ereditaria e confinando le figlie nei monasteri.
« Ultima modifica: Gennaio 03, 2017, 10:22:27 da dottorstranamore »

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #40 il: Gennaio 05, 2017, 11:18:44 »
Gaetano Greco nel suo citato saggio  sugli “Ordini monastici femminili e la Chiesa in Italia” evidenzia che agli inizi dell’età moderna, tranne i casi di autentica vocazione volontaria e autonoma, la scelta dello stato monastico delle fanciulle spettava ai padri o ai maschi delle loro rispettive famiglie e dipendeva da motivazioni esclusivamente connesse con quelle “strategie familiari”, che erano tese, oltre che a sistemare in qualche modo figlie illegittime o inadatte al matrimonio per evidenti difetti fisici, a conservare e accrescere il patrimonio domestico, senza intaccarlo con l’erogazione di ricche doti coniugali o con lasciti testamentari.

Fino alla metà del Cinquecento queste strategie familiari, condizionate da motivazioni economiche, erano sopportabili per le interessate, poiché non comportavano la recisione dei loro legami affettivi con le famiglie d’origine. La comunità familiare si perpetuava nel monastero o nel convento.Infatti  l’assenza di clausura consentiva alle donne e ai maschi della famiglia di visitare le parenti monacate, di servirsi delle celle monastiche per conservarvi i denari, i gioielli e i preziosi di casa nei momenti più turbolenti della vita cittadina, di usare la cucina monastica per organizzare i pranzi in occasione di battesimi e matrimoni. 

Nonostante la repressione ed i provvedimenti censori, nelle comunità religiose persistevano comunque margini di autonomia e spazi di libertà. Tale stato di cose indusse numerose monache ad accogliere con entusiasmo l’inasprimento della vita monastica e della clausura di tipo carcerario. Alcune di loro ne fecero il fondamento di nuovi istituti, come nel caso delle monache "Clarisse Cappuccine", create a Napoli dalla nobildonna catalana Maria Longo (1463-1542): rimasta vedova, si recò in pellegrinaggio a Loreto dove decise di entrare nel Terz'ordine di San Francesco, assumendo il nome religioso di Lorenza. Tornata a Napoli, con alcune consorelle iniziò a dedicarsi alla cura dei malati negli ospedali per poveri della città; nel 1497 fondò un Ospedale di Santa Maria del Popolo degli Incurabili, destinato ai malati di sifilide, e si pose sotto la direzione spirituale di Gaetano di Thiene, che a Napoli animava l'oratorio del Divino Amore. Nel 1530 fondò il convento di Sant'Eframo Vecchio, destinato alla prima comunità di frati cappuccini napoletani.

Un'altra spagnola, la mistica Teresa d’Avila fu la promotrice della riforma rigorista delle Carmelitane.

Ai monasteri ed ai conventi furono aggiunti altri istituti per sopperire al disagio sociale, alla povertà dilagante, soprattutto in seguito alla crisi economica e politica che coinvolse l’Europa lacerata dalle guerre.  Quegli istituti di assistenza cercavano di arginare la mendicità, di aiutare orfane, vedove, ragazze appartenenti a famiglie povere, donne in disaccordo con i mariti e che non avevano il sostegno economico della famiglia, le vagabonde o chi era senza fissa dimora.
Le opere di carità servivano per contrastare i disordini sociali e le malattie. Quelle strutture svolsero ruoli assistenziali: sostentamento all’educazione tramite l’insegnamento delle cosiddette “arti donnesche” (cucito, ricamo, ecc.), offerta della dote maritale alle giovani in procinto di sposarsi, il recupero sociale delle donne disonorate con la rieducazione e formazione.
La costituzione di una fitta e articolata rete di istituzioni per l’aiuto alle donne bisognose, rispondeva alle esigenze di natura religiosa, economica e demografico-sociale. Si difendeva il prestigio dell’aristocrazia, l’onorabilità delle famiglie, si manteneva l’ordine pubblico e si esaltava la Chiesa cattolica nella sua visibilità istituzionale.

Angela Merici (1474 – 1540) con la fondazione di donne laiche “Compagnia delle dimesse di sant’Orsola” si occupò dell’istruzione femminile.
La “gesuitessa” Mary Ward (1585 – 1645) con le “Dame inglesi” fu attiva nell’apostolato per educare le giovani, ma si dovette scontrare con le resistenze dei Gesuiti e con le autorità ecclesiastiche che non approvavano l’impegno delle laiche senza l’abito monacale, non soggette alle regole della clausura e libere di muoversi per la città.

La nobile francese Giovanna Francesca Frémiot de Chantal (1572 – 1641)  a vent’anni sposò il barone de Chantal, da cui ebbe numerosi figli. Rimasta vedova avvertì il desiderio di ritirarsi dalla vita secolare e di consacrarsi a Dio. Nel 1604 conobbe il vescovo di Ginevra, Francesco di Sales, e si affidò alla sua direzione spirituale. Insieme crearono  l’Ordine della Visitazione di Santa Maria dedicato all’assistenza dei  poveri e dei malati. In seguito, però, la congregazione delle “Visitandine” fu trasformata in un ordine claustrale dedito alla vita contemplativa.

Un’altra nobile francese, Luisa de Marillac (1591 – 1660), anche lei sposata e rimasta vedova, nel 1625 incontrò Vincenzo de Paoli (1581 – 1660) che divenne suo direttore spirituale. Insieme crearono la “Compagnia delle Figlie della Carità” col fine di aiutare i diseredati, educare i trovatelli, soccorrere i feriti delle guerre, curare i malati a domicilio o negli ospedali, ecc..

Oltre alla fondazione di istituti di suore caritatevoli, nel Seicento e nel Settecento nacquero in Italia anche nuovi istituti religiosi femminili di clausura:
a Genova nel 1604 Maria Vittoria Fornari Strada fondò l’Ordine della Santissima Annunziata;
ad Avellino nel 1654 sorsero le Oblate Sacramentine, che osservavano la stretta clausura, benché si dedicassero all’educazione delle giovani in un conservatorio interno;
nel 1731 Maria Celeste Crostarosa, con l’aiuto di Alfonso Maria de’ Liguori fondò un monastero per le monache Redentoriste;
nel 1744 Maria Antonia Felice Solimani fondò il monastero per le Romite di san Giovanni Battista.
nel 1771 fu la volta delle Passioniste, fondate da san Paolo della Croce.

Nel 1785 il granduca di Toscana Pietro Leopoldo impose ai monasteri di clausura di impegnarsi nel campo dell’educazione delle ragazze, obbligando i monasteri femminili e le singole monache a scegliere fra la clausura (con l’abolizione delle celle individuali) e la riconversione in conservatori finalizzati all’istruzione.

Tra il 1806 ed il 1810 l’occupazione napoleonica  dell’Italia ebbe tra le conseguenze la soppressione di monasteri e confische dei relativi patrimoni.

Nel 1815, dopo il Congresso di Vienna e la Restaurazione  dell’Ancien Régime, in seguito alla sconfitta di Napoleone Bonaparte,  fu riattivata la clausura nei monasteri femminili. Ma il  ritorno ai valori e agli stili di vita della tradizione cattolica fu ostacolato non solo dai mutamenti sociali, resi irreversibili di fatto dall’alienazione massiccia dei patrimoni ecclesiastici (acquistati pure da famiglie di sicura fedeltà alla Chiesa e al pontefice), ma anche dalla ripresa dei principi del giurisdizionalismo ecclesiastico, soprattutto in Toscana e nel Settentrione. Per attenuare gli ostacoli frapposti alla vita contemplativa, gli ordini monastici femminili adottarono un atteggiamento di compromesso, facendo coesistere l’osservanza della clausura con l’impegno educativo verso le ragazze. Questa strategia dell’impegno in attività di educazione, d’istruzione e di assistenza si rivelerà utile anche negli anni immediatamente successivi all’Unità per attenuare gli effetti dell’estensione a tutto il Regno d’Italia (legge del 7 luglio 1866) delle leggi piemontesi di soppressione degli enti ecclesiastici non dediti ad attività di utilità sociale (29 maggio 1855).

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #41 il: Gennaio 08, 2017, 00:06:02 »
Qual è la lunghezza giusta per un post? Credo che 5000 battute siano già molte, forse troppe. Troppe rispetto al tempo che un lettore è disposto a concedere ad un argomento che si legge di corsa dal monitor del computer o sul tablet. Ci sono temi però che non possono essere descritti in poche righe.
So che  i post che scrivo in questo topic necessitano di pazienza e volontà da parte del lettore, perciò  non intendo chiedere a chi passa di qua di andare avanti con la lettura; ma so anche che lo sforzo che dovrei fare per non dire ciò che voglio dire, sarebbe di gran lunga superiore. Perché “soffrire” ? La tentazione mi seduce, non resisto ed insisto, per raccontare che… la controriforma cattolica voleva l’’oblazione del corpo delle monache, affinché si “donassero” allo “sposo celeste”; anche le donne sposate non dovevano sottrarsi alle richieste sessuali dei mariti, anche se violenti. Si pretendeva la donna che patisce e si dona come vittima sacrificale, nella totale passività ed obbedienza al confessore, dedito all’analisi introspettiva degli stati d’animo.

Al sistema familiare e sociale interessava il controllo della sessualità femminile, alla Chiesa la sottomissione della donna. In quel periodo nelle prediche veniva esaltata la dedizione femminile. La morale la esigeva.

Preghiere e sensi di colpa, crisi affettive e spirituali inducevano numerose  monache e suore al misticismo, alla ricerca della trascendenza. Alcune di esse riuscivano ad avere esperienze estatiche, le transverberazioni, come quelle della monaca carmelitana spagnola Teresa d’Avila (1515 – 1582), le “estasi di santa Teresa”.

Nell’autobiografia questa santa scrisse: “Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. II dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata. Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l'angelo estrasse la sua lancia, rimasi con un grande amore per Dio” (XXIX; 13).

Il racconto teresiano (e di altri mistici) della  sua transverberazione è stato interpretato da alcuni psicoanalisti  in termini di pulsione erotica che si esprime sublimandosi nel deliquio spirituale. 

La raffigurazione delle estasi mistiche dei santi e delle loro visioni del divino, rappresenta uno dei temi dell’arte barocca. Essi vengono mostrati “con gli occhi al cielo”.

Gian Lorenzo Bernini basandosi su alcune frasi nell’autobiografia teresiana, realizzò una scultura in marmo e bronzo dorato in cui raffigura la “Transverberazione di santa Teresa d'Avila”. Il gruppo scultoreo è a Roma,  nella chiesa di Santa Maria della Vittoria. La composizione del Bernini mostra la santa in estasi mistica, supina su un masso a forma di nuvola, con gli occhi rivolti al cielo, le labbra dischiuse come per emettere un gemito; dai raggi dorati sembra provenire una luce divina. Vicino a lei c’è un angelo che ha in mano un dardo, simbolo dell’amore di Dio. Il cherubino le scosta la veste per colpirla al cuore. Il giovane angelo fa più pensare al mitologico Eros che ad un’entità spirituale.


Gian Lorenzo Bernini: “Transverberazione di santa Teresa d'Avila” (1647 – 1652), Cappella Cornaro, nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma.

Estasi: questo sostantivo deriva dal tardo latino “ecstăsis” e questo dal greco  “èk – stasis”, composto dalla particella ek (= al latino ex = “fuori”) + stasis = stare, di solito viene tradotto col significato di “essere o stare fuori di sé”, infatti il soggetto coinvolto subisce un intenso turbamento dovuto a meraviglia, stupore. È uno stato simile all'ipnosi. Generalmente l’estasi deriva da esperienze religiose e dà beatitudine, benessere interiore.

Dal punto di vista psichiatrico le manifestazioni di stupore mentale possono presentarsi in soggetti isterici o psicotici.

Nell'Antico Testamento vengono citate le estasi di  alcuni profeti mentre ascoltavano la Parola di Dio, i suoi ordini e i suoi avvertimenti. Nelle estasi perdevano coscienza,  il contatto con la realtà ambientale. Perdere coscienza non significa svenimento ma uno stato di semi-incoscienza, durante il quale  quei personaggi biblici riferivano del loro “incontro” con Dio, oppure scrivevano ciò che Dio dettava, come accadde al profeta Daniele: "Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro, fino al tempo della fine" (Dn 12,4).

Nel Nuovo Testamento il termine ékstasis è citato varie volte, per esempio nel Vangelo di Luca:  "Tutti rimasero stupiti  (ékstasisi) e levavano lode a Dio; pieni di timore dicevano; 'Oggi abbiamo visto cose prodigiose" (Lc 5, 26).

Le esperienze estatiche esigono che l’individuo sia spiritualmente pronto a ricevere le manifestazioni divine; per questo l'estasi è sempre accompagnata da una totale calma interiore e dalla serenità (hesychia) che permettono all'uomo di interrompere i rapporti con se stesso e con il mondo circostante per dedicarsi a Dio con tutto il proprio essere.

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #42 il: Gennaio 10, 2017, 06:56:41 »
La carmelitana Teresa d’Avila (1515 – 1582) col suo libro titolato “Cammino di perfezione” dà consigli alle consorelle nei monasteri delle Carmelitane Scalze da lei fondati, nel contempo, con rammarico o riprovazione evidenzia la situazione di difficoltà sociale ed ecclesiale delle donne nella Spagna della Controriforma cattolica: esse non potevano evangelizzare, escluse dai circuiti della cultura e del potere, non potevano leggere la Bibbia in lingua volgare, non potevano insegnare.

Anche in Italia, la situazione sociale era simile. Per esempio, la monaca benedettina veneziana Elena Cassandra Tarabotti (1604 – 1652), contro la sua volontà fu destinata dal padre alla vita religiosa,  alla monacazione forzata nel monastero benedettino di Sant'Anna, a Venezia,  nel rione Castello. Questa donna aveva geneticamente ereditato da suo padre un difetto fisico che la rendeva zoppa e che all'epoca non la rendeva maritale, perciò fu destinata ad entrare in monastero nel 1617. Tre anni dopo, nel 1620 prese i voti con la cerimonia della vestizione diventando suor Arcangela, nome con il quale firmerà anche la maggior parte dei suoi libri, in alcuni dei quali denunciò la drammatica realtà delle monache forzate e la condizione delle donne veneziane di quel periodo. 
Nel libro “Tirannia paterna”, che firmò con lo pseudonimo “Galerana Baratotti”, anagramma del suo nome,  descrive la durezza dell’esistenza non solo da un punto di vista personale ma di quello di tante altre donne che come lei erano state costrette alla monacazione dai padri che ingannano le figlie per farle entrare in monastero col permesso dello Stato, la Repubblica di Venezia. Ella accusa pure le autorità ecclesiastiche di lassismo nell'indagare la reale vocazione. Questo testo, suddiviso in tre libri, fu pubblicato solo dopo la sua morte nel 1654 con il titolo de "La semplicità ingannata".


La Chiesa di Sant'Anna in Castello, a Venezia

Pure nel cosiddetto “Nuovo Mondo” era simile la coercizione verso le donne. La religiosa e poetessa messicana Juana Inés de Asbaje y Ramírez de Santillana (1648 circa – 1695),  figlia illegittima di un nobile spagnolo, all'età di diciotto anni, entrò nel ramo femminile dell'ordine di San Girolamo, i cui adepti vengono popolarmente denominati “girolamini” se maschi e “girolamine” se femmine. Juana  prese i voti col nome di suor Juana Inés de la Cruz. e per oltre un ventennio la sua cella conventuale divenne un centro di vita culturale e di ritiro spirituale. Acquisì notevole capacità di critica che manifestò in una disputa con il gesuita Antonio Vieira (1608 – 1697), predicatore portoghese, del quale non condivise alcune considerazioni teologiche. Fu costretta a difendersi dall’accusa di dedicarsi allo studio, attività non consentita alle monache. Invece lei voleva il diritto allo studio per tutti coloro che avevano talento e volontà, donne o uomini che fossero.
Nel 1692 suor Juana dovette abiurare davanti al tribunale dell’Inquisizione. Il confessore ed altri la indussero a regalare la sua biblioteca (più di 4 mila volumi), i suoi strumenti musicali e matematici all’arcivescovo Francisco de Aguiar y Seijas, affinché li vendesse.  Il forte  dispiacere la motivò alla rigorosa vita ascetica, che in poco tempo la condusse alla morte.

Il diritto allo studio per le donne veniva invocato anche in Italia. La veneziana  Elena Lucrezia Cornaro Piscopia (1646 – 1684),vissuta nella Repubblica di Venezia, è ricordata come la prima donna laureata al mondo.
Figlia di un nobile  veneziano, che ne favorì l'educazione, a diciannove anni prese i voti come oblata benedettina, proseguendo gli studi di filosofia, teologia, greco, latino, ebraico e spagnolo.
Nel 1669 fu accolta in alcune delle principali accademie. Quando il padre chiese che Elena potesse laurearsi in teologia all'Università di Padova, il cardinale Gregorio Barbarigo  si oppose, in quanto riteneva "uno sproposito" che una donna potesse diventare "dottore".
Nel 1678, all’età di 32 anni,  Elena ottenne, finalmente, la sua laurea. Gliela concessero, però, in filosofia, non in teologia. Non poté, in quanto donna, esercitare l'insegnamento. Sei anni dopo morì a Padova per una grave malattia.

Comunque, per il diritto allo studio e l’accesso per le donne alle facoltà teologiche, dovettero passare altri tre secoli. 

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #43 il: Gennaio 11, 2017, 00:14:13 »
Tra la rivoluzione inglese del 1688 e la Rivoluzione francese (1789 – 1799) ci furono innovazioni e nuove opinioni verso la religione, la scienza, la filosofia, la politica, l’economia, la società. Insieme dettero vita al cosiddetto “Illuminismo”, dal francese “illuminisme”, da cui “l'età dei lumi”: con questa espressione, che mette in evidenza l'originalità e la caratteristica di rottura consapevole nei confronti del passato, si diffuse in Europa il nuovo movimento di pensiero degli illuministi francesi, come Voltaire, Montesquieu, Rousseau, ispirati dalla filosofia inglese fondata sulla ragione empirica e sulla conoscenza scientifica, elementi essenziali del pensiero di Locke, David Hume, Newton.
L’Illuminismo fu un movimento ideologico e culturale che voleva portare i lumi della ragione in ogni campo dell'attività umana, allo scopo di rinnovare non soltanto gli studi e le varie discipline, ma la vita sociale, la cultura e le istituzioni, combattendo per mezzo della critica l’ignoranza e i pregiudizi che impediscono il cammino della civiltà e si oppongono al progresso. L’Illuminismo rifiutava ogni religione rivelata, in particolare il Cristianesimo, ritenuto origine degli errori e della superstizione.

Le religioni rivelate  furono considerate sistemi di dogmi, riti e regole morali imposte dall’autorità politico-religiosa in maniera normativa, ma non validate dalla ragione. Invece l’Illuminismo rivendicava il libero arbitrio, voleva una  religiosità razionale che rifiuta il concetto di rivelazione delle religioni “storiche”. Le religioni venivano percepite come responsabili, insieme con il potere politico, della condizione di ignoranza e di schiavitù culturale di larga parte del genere umano.

Poi ci fu la Rivoluzione francese con molte conseguenze, come l'abolizione della monarchia assoluta, la proclamazione della repubblica,  l'eliminazione delle basi economiche e sociali del cosiddetto Ancien Régime ("antico regime"), l'emanazione della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino;  venne spezzato il millenario rapporto tra Chiesa cattolica e gli Stati cristiani, l’alleanza tra il trono e l’altare. Si voleva una società moderna, emancipata dalla guida spirituale e morale dell’autorità religiosa, ma il papato non voleva accettare la separazione tra Chiesa e Stato ed il concetto di libertà religiosa ad esso connesso.

Le donne non rimasero passive spettatrici dei rivolgimenti in atto. Alcune intervennero con le loro proposte  per la definizione dei diritti umani. Alcuni valori della Rivoluzione francese, pensati per gli uomini, avrebbero potuto essere utili anche alle donne, ma non ottennero nulla. Pur chiamate ad appoggiare la Rivoluzione e a combattere per essa, le donne non usufruirono  degli stessi diritti degli uomini.

Durante la rivoluzione francese la scrittrice Olympe de Gouges, pseudonimo di Marie Gouze (1748 - 1793), nel 1788 pubblicò le "Réflexions sur les hommes nègres" in cui prendeva posizione contro la schiavitù. Nel 1791  scrisse la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” (basata sulla Dichiarazione del 1789)  in cui dichiarava l'uguaglianza politica e sociale tra uomo e donna.  Il 3 novembre 1793 fu ghigliottinata perché si era opposta all'esecuzione di Luigi XVI e pare avesse attaccato il Comitato di Salute Pubblica ("perché si era dimenticata le virtù che convengono al suo sesso"). Con la sua morte si avviò non solo la repressione spietata di ogni dissidenza, ma un'involuzione liberticida, il tutto dovuto allo stato di guerra ormai permanente posto in essere dalle potenze alleate e controrivoluzionarie (Prussia, Inghilterra, Austria e Russia).

Nel 1848 in America Elizabeth Cady Stanton nella sua “Dichiarazione dei sentimenti”, ispirata alla “Dichiarazione d’indipendenza americana”, deliberò, tra l’altro, che “la donna è uguale all’uomo –che così il Creatore voleva che fosse- e che il bene supremo della specie esige che venga riconosciuta come tale”. Ma anche lei non riuscì ad ottenere la parità nei diritti civili e politici tra maschi e femmine.

In Italia un’interessante figura femminile del Risorgimento fu la nobile  napoletana Enrichetta Caracciolo di Forino (1821 – 1901). Costretta dalla madre alla monacazione, si liberò dai voti e nonostante le persecuzioni del cardinale Riario Sforza, e divenne un'attiva garibaldina. Fece parte del comitato femminile napoletano per l’emancipazione della donna italiana. Nel 1866, in occasione della terza guerra d’indipendenza, scrisse  e pubblicò a Napoli un “Proclama alle donne d’Italia” per spronarle a sostenere la causa nazionale e promuovere l’istruzione e il lavoro femminile.  Nel 1867 sostenne insieme ad altre il disegno di legge per il riconoscimento alle donne dei diritti civili e politici. Nel 1875 fece la richiesta per il diritto di voto alle donne. Ma le sue richieste furono vane.

Pio IX, l’ultimo “Papa-Re”, l’8 dicembre del 1864, nella ricorrenza della solennità  dell’Immacolata Concezione,  pubblicò insieme all’enciclica “Quanta cura”, il “Syllabus”, “ Elenco contenente i principali errori del nostro tempo”: sono condannati il liberalismo, alcune eresie, l'ateismo, il comunismo, il socialismo, l'indifferentismo ed altre proposizioni relative alla Chiesa ed alla società civile (tra cui il matrimonio civile.
Quando fu pubblicato il Sillabo, il Regno d'Italia stava terminando l'unificazione della penisola ed aveva già annesso parte dello Stato pontificio. I protagonisti del Risorgimento erano stati tutti scomunicati ed il Regno stava sopprimendo diversi ordini religiosi e secolarizzando i beni ecclesiastici. Erano diffusi testi "demitizzatori" (come la Vita di Gesù di Ernest Renan e parte dello stesso mondo cattolico anteponeva le idee liberali alla dottrina della Chiesa. A queste circostanze si sommava la delusione dei liberali (che avevano gradito ed applaudito l'elezione di Pio IX credendolo un "papa liberale").
Nei primi giorni del gennaio 1865, prima il governo francese e poi quello italiano proibirono la lettura pubblica del Sillabo; parte della stampa italiana ed estera criticò papa Pio IX e la pubblicazione del Sillabo.

Alcune donne cattoliche furono colte da inquietudine spirituale, da esperienze mistiche e da visioni apocalittiche collegate della Chiesa cattolica in pericolo e da salvare, ma anche da riformare. Altre donne cercarono la possibilità di far convivere la fede cristiana con i valori della Rivoluzione francese, ma non ci riuscirono.

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Re:La Chiesa cattolica e le donne
« Risposta #44 il: Gennaio 15, 2017, 06:43:44 »
Con l’Illuminismo cambiò la condizione femminile ? Il “secolo dei Lumi”, il Settecento, oltre all’affermazione della  ragione nei confronti delle superstizioni e dei pregiudizi, fu il secolo della parziale emancipazione della donna ? No ! Però ci furono importanti innovazioni culturali.

Nel 1748 venne pubblicato a Ginevra “Lo Spirito delle leggi”, ventennale lavoro  di Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, che teorizzò sulle tre forme di governo: il repubblicano, il monarchico ed il dispotico; sulla divisione dei poteri pubblici: il legislativo, l’esecutivo ed il giudiziario. La sua costruzione di società in cui i doveri dei sovrani e dei cittadini erano reciproci ebbe varie critiche, in particolare dal Sant’Uffizio che il 29 novembre 1751 mise questo libro all’indice, durante il pontificato di Benedetto XIV.

Le istanze illuministe furono  anche condannate dal pontefice Clemente XIII con l’enciclica: “Christianae reipublicae salus”, del 1766, e da papa Pio VI con l’enciclica “Inscrutabile divinae sapientae”, del 1775.

L’anno dopo, nel 1776, fu pubblicata la “Dichiarazione dei diritti della Virginia” (U.S.A.). Nei primi due paragrafi si afferma che “Tutti gli uomini sono da natura egualmente liberi e indipendenti, e hanno alcuni diritti innati, di cui, entrando nello stato di società, non possono, mediante convenzione, privare o spogliare la loro posterità; cioè, il godimento della vita, della libertà, mediante l’acquisto ed il possesso della proprietà, e il perseguire e ottenere felicità e sicurezza. Tutto il potere è nel popolo, e in conseguenza da lui è derivato; i magistrati sono i suoi fiduciari e servitori, e in ogni tempo responsabili verso di esso”.

Questa dichiarazione ispirò la “Dichiarazione dei diritti degli uomini e del cittadino”, pubblicata in Francia nel 1789, con la quale alla donna venne riconosciuta la capacità civile,  la possibilità di acquistare, alienare, comparire davanti alla giustizia come parte o testimone, difendersi. Ma alle parole non seguirono gli ordinamenti giuridici per l’uguaglianza tra uomo e donna.

Basandosi sulla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, la scrittrice francese Olympe de Gouges scrisse la ‘’Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina’’, pubblicata nel 1791 con la speranza di farla approvare  dall’Assemblée nationale francese, ma non ci riuscì. In questo testo la scrittrice  dice: “La donna nasce libera ed ha uguali diritti dell’uomo”. Ma  la Rivoluzione francese dimenticò le donne nel suo progetto di libertà ed uguaglianza.

Pio VI nel concistoro del 17 giugno 1793 si scagliò contro “l’irrefrenabile smania di novità” e contro quei “perfidissimi filosofi (che) vanno gridando e proclamando fino alla nausea che l’uomo nasce libero e non è sottomesso all’imperio di nessuno”. La Chiesa rilanciò l’immagine di una società cristiana autosufficiente che nulla concedeva alle istanze di riforma e cambiamento, e tantomeno alle donne. 
I valori fatti propri dall’Illuminismo venivano percepiti dall'autorità ecclesiastica in contrasto con l’unicità della “verità” cristiana e minaccia alla possibilità della propria legittimazione, in quanto attentavano  al principio di autorità della struttura gerarchica della Chiesa cattolica. Di qui la ripetuta condanna delle tesi illuministe che la privava delle certezze, dei privilegi, su cui aveva calibrato la propria presenza nella società ed elaborato da tempo le proprie strategie pastorali, ripensate alla luce dei principi della Controriforma cattolica. 

La Chiesa considerò la Rivoluzione francese e l’epopea napoleonica la concretizzazione del male che irrompeva nella storia per abbatterne i capisaldi, sradicare il cristianesimo (la sola religione, secondo la forma della confessione cattolica, considerata autentica), mettere fine alla civiltà fondata sui principi formulati dalla Chiesa cattolica, preoccupata dall’invadente secolarizzazione. Considerò la donna un imprescindibile elemento di difesa dell’identità cattolica e di protezione della famiglia tradizionale.

Il citato pontefice Benedetto XIV era consapevole che con l’assolutismo monarchico si affermava il principio della religione di Stato, mentre con il diffondersi dell’Illuminismo il cristianesimo rischiava una crisi di esistenza in un mondo sempre più laico e ateo. Per questo egli, durante i suoi diciotto anni di pontificato, volle e seppe conciliare i bisogni dell’epoca e stimare i tentativi che si adoperavano per rinnovare i rapporti tra la Chiesa e la società: egli - quasi profeticamente - prevedeva i cambiamenti imminenti della modernità, guardando realisticamente al dovere della Chiesa di impegnarsi per vivere secondo tradizione ma con uno sguardo nuovo le incombenti novità. Il suo pontificato è considerato uno dei più significativi della storia del papato in età moderna. Attuò riforme pastorali nello spirito dell'Illuminismo.

Quand’era cardinale, come arcivescovo nella città natia, Bologna,  promosse le arti e la scienza ed ottenne che la bolognese Laura Bassi (1711 – 1778), seconda laureata in Italia, insegnasse fisica sperimentale nell’Università felsinea. Come ho già scritto in un precedente post, la prima donna laureata fu la veneziana Elena Lucrezia Cornaro, ma la Bassi fu la prima ad intraprendere la carriera accademica e scientifica e la prima al mondo ad ottenere una cattedra universitaria, nonostante le avversità dei colleghi.
Oltre alla Bassi,  Lambertini favorì l’ingresso nell’insegnamento universitario alla milanese Maria Gaetana Agnesi (17118 – 1799), filosofa e matematica. Fu la prima donna autrice di un libro di matematica e la prima ad ottenere  nel 1750 una cattedra universitaria di matematica nell’università di Bologna.
 
Nel 1757, Benedetto XIV, un anno prima della sua morte, autorizzò la prima cattedra di ostetricia in Italia. Fu affidata a Giovanni Antonio Galli, maestro di chirurgia del noto Luigi Galvani, che conosciamo per i suoi esperimenti  sulle rane e per essere lo scopritore dell’elettrofisiologia animale. Il bolognese Galvani fu anche professore di Anatomia. Come medico ed ostetrico curava i malati e le partorienti negli ospedali cittadini.

Altri uomini di Chiesa pur incoraggiando le donne negli studi, precisavano che esse non dovevano mettere in discussione ruoli e gerarchie maschili.  Temevano che l’autonomia femminile potesse essere destabilizzante per l’assetto della società.
Numerosi predicatori, come Paolo Segneri e Giovan Battista Scaramelli, ribadirono la pericolosità delle donne e la necessità  della loro sottomissione alla tutela maschile. Le invitavano a rimanere nell’ambiente domestico per difendere l’onorabilità. 

Il giurista e filosofo Gaetano Filangeri (senior) le escluse dall’istruzione: “Per formare un uomo io preferisco la domestica educazione; per formare un popolo io preferisco la pubblica”; alle donne l’istruzione pubblica “le renderebbe meno familiari, rendendole più sociali […]. L’educazione domestica è la sola che a loro convenga”; “formando gli uomini, la legge verrebbe a formare indirettamente anche le donne” (libro IV, 1785, capo XXXIV).

Anche il noto sacerdote filosofo ed economista Antonio Genovesi era una fautore dell’ordine gerarchico familiare e del suo decoro, priorità da tutelare e difendere. Le aperture nei confronti dell’educazione e dell’istruzione femminili non dovevano inficiare i  doveri di moglie e madre.

Il filosofo  e matematico Paolo Mattia Doria (1667 – 1746) nel 1716 pubblicò  i “Ragionamenti ne' quali si dimostra la donna, in quasi tutte le virtù più grandi, non essere all'uomo inferiore” . Le donne, sosteneva Doria, hanno gli stessi diritti naturali degli uomini e possono governare e fondare grandi imperi ma non sono adatte fisiologicamente a formulare leggi per le quali occorre una sapienza storica e filosofica.

Il senese Giovanni Niccolò Bandiera (1695 -  nel 1740 pubblicò il “Trattato degli studi delle donne” per dimostrare che anche le donne potevano impegnarsi in studi impegnativi come la filosofia, la fisica e la teologia, ma il Bandiera non andava oltre l’affermazione teorica di egualitarismo spirituale (“lo Spirito non ha sesso”).