Oggi, 1 febbraio, si svolge la quarta edizione del World Hijab Day (Giornata mondiale del velo) una giornata in cui le donne di 116 paesi – musulmane e non – indossano il velo. Nell’intenzione della fondatrice Nazma Khan, nata in Bangladesh e a undici anni emigrata a New York, l’obiettivo è dimostrare che il velo è una libera scelta, il simbolo di una tradizione e di un credo che chiede alle donne di essere modeste.
Bruno Nassim Aboudrar, docente di filosofia estetica all’Università Paris 3-Sorbonne Nouvelle, nel suo saggio “Come il velo è diventato musulmano” evidenzia i malintesi che si sono sedimentati intorno alla millenaria usanza di nascondere il volto delle donne. Il velo non nasce musulmano ma lo diventa. Il Corano lo menziona appena. Ed aggiunge: il velo “per molte donne è uno strumento di coercizione quando diventa obbligatorio e il suo uso sorvegliato scrupolosamente da milizie maschili”. […] In ogni caso occorre fare una riflessione sul tipo di velo perché il foulard non è il burqa. Al tempo stesso, non dobbiamo però minimizzare la portata di un fenomeno che conduce a manifestare le proprie convinzioni religiose negli spazi pubblici regolati, com’è il caso in Europa, da norme contraddistinte dalla laicità”.
La giornalista, scrittrice e docente universitaria Farian Sabahi ha intervistato il professor Aboudrar ed ha scritto un articolo per il settimanale “Io Donna” del Corriere della Sera, del quale cito alcune parti:
Sabahi: “La casa di moda italiana Dolce e Gabbana sta promuovendo una collezione per le donne degli Emirati e dintorni…”
Aboudrar : “È nella natura del business cercare di fare profitti là dove c’è denaro. È quindi del tutto normale che Dolce e Gabbana vesta le ricche musulmane del Golfo. Resta da vedere quali saranno le reazioni delle militanti musulmane e dei leader religiosi che sostengono la causa del velo: sono loro ad avere tutto da perdere da una banalizzazione del velo musulmano a causa della moda e della frivolezza delle paillettes”.
Sabahi:” Lei che cosa pensa del velo?”
Aboudrar: “Nato a Parigi da madre francese e padre marocchino, non ho ricevuto un’educazione religiosa. Sono ateo e laico, mi diverte tutto ciò che può contribuire a togliere al velo le sue connotazioni bigotte”.
Sabahi: “Veniamo al suo libro Come il velo è diventato musulmano: che percorso ha fatto il velo prima di arrivare all’Islam?”
Aboudrar: “Dal punto di vista religioso, il velo è cristiano. A introdurlo è San Paolo: nella prima Lettera ai Corinzi egli afferma che per pregare le donne devono coprirsi con un velo, mentre gli uomini devono essere a capo scoperto e quindi con modalità opposte rispetto agli uomini ebrei che devono invece coprirsi il capo per pregare”.
Sabahi: Quale spiegazione dà San Paolo?
Aboudrar: "San Paolo offre una lettura gerarchica della Creazione: la donna dev’essere coperta perché l’uomo è il suo capo, il capo dell’uomo è Cristo e il capo di Cristo è Dio. Di conseguenza i Padri della Chiesa insistono sulla funzione simbolica del velo: indica la sottomissione della donna all’uomo, conformemente alla gerarchia voluta da Dio".
Sabahi: "Tra questi Padri della Chiesa c’è Tertulliano"…
Aboudrar: “Sì, Tertulliano consacra al velo un intero trattato definendolo il “giogo” della donna”.
Sabahi: “Fuori dal mondo cristiano che ruolo aveva, in origine, il velo?”
Aboudrar: “Prima dell’avvento dell’Islam le donne della penisola araba talvolta si velavano. Nel tempio di Bel a Palmira (Siria), che risaliva al II secolo ed è stato distrutto da Daesh, c’era un rilievo con tre donne velate dalla testa ai piedi, una sorta di burqa”.
Sabahi: “E nel Corano?”
Aboudrar: "È menzionato una sola volta e non è legato alla religione: è semplicemente il modo, per le spose dei credenti, per essere riconosciute e rispettate. Velate, le spose dei credenti sono diverse dalle schiave che non hanno il diritto di portare il velo”.
Sabahi: "Quand’è che il velo diventa strumento di sottomissione nell’Islam?"
Aboudrar: “Solo quando l’Islam instaura una cultura che discrimina le donne e le nasconde negli harem. In altri termini, in principio l’hijab non ha alcun significato simbolico religioso. Viene diffuso da quel sistema che discrimina le donne e le nasconde”.
Nel Corano il velo è citato non una ma due volte, in due sure: nella 24/esima sura si raccomanda alle donne di coprirsi il seno e di non mostrare le caviglie se non davanti al marito, ai familiari e ai servi eunuchi. Nella 33/esima sura si parla delle mogli del profeta Maometto: a loro è opportuno parlare restando dietro a un velo (una tenda?), solo loro non si possono risposare, loro portano il velo per scoraggiare le avances e per farsi riconoscere come donne libere e di rango. Il Corano solo qui invita Maometto a dire alle donne della sua famiglia “e alle donne dei credenti” di velarsi “per distinguersi dalle altre e per evitare che subiscano offese”, motivi di convivenza civile, senza cenni alla religione. La storia, però, ha deciso diversamente.
Nei paesi musulmani il velo da segno di distinzione è diventato strumento di sottomissione della donna all’uomo, obbligatorio per legge. Paradossalmente, poi, il Novecento ha assistito a due capovolgimenti: dapprima, i tentativi di occidentalizzazione delle colonie, che hanno portato ad abbandonare il velo in Turchia, Iran, Egitto. Poi, invece, la ribellione all’Occidente, il potere dei capi religiosi e la trasformazione del velo (come della barba per l’uomo) in una bandiera dell’ortodossia, della sottomissione, della distinzione dalle donne occidentali. Forse quest’ultimo è il motivo che porta le musulmane di oggi a “scegliere” il velo da ragazzine, come segno di appartenenza alla comunità, con tanta maggior forza se si vive in Europa o negli Stati Uniti. Un certo Islam, infatti, desidera distinguersi da tutte le altre religioni e civiltà, contemporanee o antiche, a qualunque costo.