Autore Topic: Chiesa e sessualità  (Letto 4576 volte)

Doxa

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Chiesa e sessualità
« il: Novembre 25, 2015, 11:04:31 »
Sto rileggendo il libro titolato “Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia”, scritto da Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffìa. In questo testo le autrici esaminano lo stereotipo, il pregiudizio della sessuofobia nel cristianesimo e poi nella Chiesa cattolica: per il cattolicesimo il piacere è colpa, il sesso è peccato. “Da praticare con parsimonia e disagio esclusivamente nel matrimonio, e principalmente per procreare. Alcuni enunciati si ripetono nel corso del tempo nella predicazione cattolica fino a rendere possibile una sintesi così brutale”.

Nel passato la Chiesa usò verso la sessualità repressione e clemenza per governare le “anime” dei fedeli.
 
La teologia cristiana considerava il rapporto sessuale tra un uomo ed una donna metafora del rapporto fra l’anima e Dio, anticipo del piacere d’amore che si vivrà in “paradiso”. Come tale,  il rapporto sessuale deve essere pervaso di significati spirituali, privato dell’aspetto ludico ed erotico che lo aveva contrassegnato nel mondo pagano.
 
Martin Lutero e la Riforma protestante denunciarono la corruzione ed il lassismo della Chiesa di Roma anche nella morale sessuale. Il Concilio di Trento e la cosiddetta “Controriforma” cattolica cercarono di disciplinare gli ambiti e le modalità entro cui poteva esprimersi la sessualità.  Tramite le norme canoniche e la confessione coercizzarono le coscienze dei fedeli,  cioè di tutti o quasi, fino alla prima metà del secolo scorso. I confessori ed i parroci mediavano l’intransigenza delle norme del catechismo con le necessità quotidiane e particolari della “carne e del desiderio”. Usavano flessibilità e pragmatismo nella condanna della masturbazione, della sodomia e della prostituzione, avendo cura di instillare e rafforzare nelle coscienze il senso del peccato e della colpa che garantiscono la perpetua soggezione delle anime. Tale sistema di controllo durò per secoli, ma la modernizzazione ne incrinò le basi con la contestazione alla Chiesa del monopolio della morale sessuale.

I mutamenti culturali indotti dall’Illuminismo e l’affermarsi dell’individuo come soggetto di diritti sottrassero progressivamente il sesso alla dimensione religiosa, riuscirono a togliere la sovranità esclusiva del diritto canonico sui comportamenti sessuali.

Il conflitto cominciò alla fine del 18/esimo secolo e proseguì nei secoli successivi quando la competenza sulla sessualità venne attribuita a medici, biologi, antropologi e poi psicoanalisti, che negavano alla Chiesa il diritto di imporre norme universali e ai teologi la capacità di definire il senso ed il valore dell’atto sessuale, depotenziato di ogni significato spirituale.

Anche il controllo delle nascite fu oggetto di contesa che divise società e Chiesa dal XIX secolo. L’ostinato rifiuto del controllo delle nascite la Chiesa lo sancì con due encicliche, la “Casti connubii” del 1930 e l’”Humanae vitae”! del 1968, che ribadiscono l’opposizione della Chiesa fra sessualità e riproduzione.

Alla stesura dell’enciclica  sociale “Humanae vitae” contribuì l’allora cardinale Karol Wojtyla. Tale “lettera” contiene i temi che sono ancora al centro della discussione “che divide la concezione della Chiesa da quella della società laica: la legge di natura, il valore del matrimonio, l’indivisione dei due aspetti dell’atto sessuale (corporale e spirituale), l’unione fra gli sposi e la procreazione, e la richiesta alla scienza di percorrere strade di ricerca rispettose della morale cattolica”. Temi questi che hanno aperto un solco profondo tra la Chiesa e le donne, nel passato considerate le “custodi” dei valori religiosi e le alleate della Chiesa. 

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #1 il: Novembre 26, 2015, 09:16:35 »
Con l’enciclica “Humanae vitae” e con il pontificato da Giovanni Paolo II che durò dal 1978 al 2005, la Chiesa cattolica tentò di riaffermare l’unità fra corpo e spirito che aveva caratterizzato la specificità del cristianesimo rispetto al paganesimo.

Questo papa ripropose all’Occidente cristiano il significato spirituale del coito, il rapporto sessuale non separato dall’intenzione  della procreazione di figli. Ma la società occidentale era ormai orientata in modo diverso: il controllo delle nascite, il piacere sessuale come atto in sé, a prescindere dalla procreazione. Ciò è stato possibile anche con la scoperta degli antifecondativi per la donna e la cosiddetta “rivoluzione femminile”.

Secondo le due autrici del citato libro, Margherita Pelaja e Lucietta Scaraffìa,  non sono “due sistemi fondati l’uno su regole e limitazioni, l’altro su libertà e piacere; ma due concezioni diverse della sessualità, del rapporto dell’essere umano con il corpo, e più in generale della ricerca di una nuova etica del rapporto della persona con il mondo”.   

Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo di Tarso consiglia loro di sposarsi se sono incontinenti. Dice, inoltre, che il coniuge non deve indurre il/la partner all’astensione sessuale. “Ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente la moglie verso il marito”.(7, 2 – 3)  E nella  Lettera agli Efesini lo stesso apostolo afferma: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa  e ha dato se stesso per lei”…. (5, 25); “…i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso”. (5, 28)

In queste frasi  paoline appare l’innovazione cristiana riguardo sia i rapporti sessuali, permettendoli solo nell’ambito del matrimonio, sia il cambiamento nella concezione del corpo, non  solo natura ma anche spiritualità.

Il cristianesimo influenzato dalla filosofia stoica, tolse la sessualità dalla sfera naturale per inserirla in quella culturale.  Per conseguenza  il comportamento sessuale fu oggetto non solo della precettistica morale ma anche della teologia.

Ovviamente l’affermazione del cristianesimo causò restrizioni morali e proibizioni a popolazioni pagane che consideravano la sessualità come un aspetto dell’essere umano dato dalla natura, e quindi non oggetto di controllo. 

Il nuovo modo di concepire la sessualità assunse importanza crescente nel definire l’identità cristiana ma ebbe anche l’effetto di cambiare i rapporti tra i sessi. Fu una rivoluzione simbolica e culturale dalla quale la cultura occidentale ricevette le caratteristiche che la contraddistinguono  ancòra oggi nei fedeli: la sessualità come incontro tra corpo e spirito.
 
Comprensibilmente il codice di comportamento sessuale cristiano ebbe tensioni contrastanti  ed eresie. L’unico punto  sul quale i primi cristiani sembravano concordare tra loro  era il distacco dalla precettistica sessuale ebraica  basata sull’impurità: per coerenza con l'impurità del sangue era considerato impuro avere rapporti sessuali durante le mestruazioni. Invece concordavano con l’etica veterotestamentaria riguardo  l’adulterio, l’omosessualità, frequentare prostitute. In queste occasioni si cadeva in uno stato di impurità  uguale a quello che contaminava chi mangiava animali proibiti o non eseguiva i lavacri prescritti, per uscire dal quale bisognava sottoporsi ad un rito di purificazione.   

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #2 il: Novembre 27, 2015, 08:38:12 »
Nel  primo capitolo del citato libro  “Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia”, Lucietta Scaraffìa evidenzia che “Nelle sacre scritture ebraiche e cristiane  non c’è differenza per ciò che riguarda i peccati sessuali: l’elenco che ci fornisce Paolo nella prima Lettera ai Corinzi (6, 9) prevede la condanna dei pòrnoi (fornicatori), moichòi  (adulteri),  malakòi (effeminati), arsenokòitai (sodomiti). Le novità introdotte dal cristianesimo riguardano invece due punti importanti: il matrimonio e il celibato”. 

Infatti nella prima Lettera ai Corinzi (7, 9) Paolo dice: “se non sanno vivere in continenza , si sposino; è meglio sposarsi che ardere”. Questo apostolo capisce che la soddisfazione del desiderio sessuale è una componente  del matrimonio.

Più che dall’apostolo Paolo il pensiero cristiano sulla sessualità fu influenzato nel medioevo dal filosofo, vescovo e teologo  Agostino (354 – 430), in continuità con la dottrina paolina, i vangeli e la tradizione veterotestamentaria.

Nel 397, dieci anni dopo  la sua conversione al cristianesimo, Agostino scrisse le “Confessioni”, in cui narra anche la sua propensione per i diletti provocati dall’eros, a lui noti per essere stato anche sposato.

Nel “De bono coniugali”, che redasse nell’anno 400 circa, il vescovo d’Ippona dice che la bontà della procreazione rende buono il matrimonio; di per sé è un bene nel confronto con la fornicazione e l’adulterio.  Ma quando il coito va oltre gli accordi nuziali cioè oltre la necessità di procreare, è colpa veniale della moglie. Dio creò Adamo ed Eva, uno maschio l’altra femmina, per fare figli tramite la copulazione e l’unione spirituale.

In altri passi del “De bono coniugali” Agostino afferma che esistono anche altri fini nel matrimonio, oltre la procreazione dei figli: la mutua fedeltà dei coniugi, il valore dell'amore tra marito e moglie, la carità che unisce perfino coloro i quali l'età o la sorte possono aver privato dei figli: "Nel vero e ottimo matrimonio, nonostante gli anni, e sebbene tra l'uomo e la donna l'ardore della giovinezza sia svanito, continua in pieno vigore, tra lo sposo e la sposa, l'ordine della carità" .
 
La prole, la fedeltà, il vincolo indissolubile del matrimonio sono  considerati da Agostino benedizioni dello stato matrimoniale, e la copula coniugale, anche se provoca diletto non è peccato in sé. Non è quindi da regolare il piacere in sé, quanto la ricerca esclusiva del piacere, cioè la concupiscenza, che denomina “peccatum”.
 
Nel “De nuptiis et concupiscentiis” Agostino polemizza col vescovo pelagiano Giuliano di Eclanum e sostiene che la concupiscenza, è una malattia o disordine del desiderio sessuale, che motiva a soddisfarlo anche quando non è lecito, e  colpisce  l’umanità come conseguenza del peccato originale;  invece i pelagiani affermavano che la “concupiscentia carnis” è un bene naturale,  e che sono cattivi soltanto i suoi eccessi.

Alla base del pensiero agostiniano c’è la confutazione della teoria del monaco e teologo Pelagio (360 – 420) che negava l’esistenza del peccato originale.

Agostino segue le orme di Paolo  di Tarso che, nella sua lettera ai Romani, si era lamentato della concupiscenza come frutto del peccato originale.

Il collegamento fra peccato originale e sessualità, ribadito dal Concilio di Trento, contribuì a caricare di negatività la vita sessuale e a condizionare le norme relative ai comportamenti.

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #3 il: Novembre 29, 2015, 10:25:17 »
“Anche se in apparenza poteva sembrare che la famiglia cristiana riprendesse le virtù di una buona famiglia della tradizione romana, anch’essa monogamica, la natura del legame era cambiata completamente di significato, e non solo perché alla donna veniva concesso un posto egualitario nella relazione e veniva sollecitato il libero consenso degli sposi, ma soprattutto perché ne erano stati completamente trasformati il senso e lo scopo, attraverso un profondo lavoro di revisione simbolica”. E’ quanto afferma Lucietta Scaraffìa nel citato libro.

Il matrimonio venne simbolicamente ammantato dalla sacralità. Il rapporto di coppia da evento sociale e naturale fu trasformato in un legame sacro, per definire il quale venne utilizzato il termine greco “mystèrion” (in latino “sacramentum”), il mistero del dono della grazia offerta da Dio.

Il “bonum sacramenti”  simbolicamente trasforma il matrimonio da contratto  sociale ad una realtà superiore che trascende la volontà dei contraenti e rende indissolubile il rapporto. Non è indissolubilità naturale ma teologica. Dio è introdotto come radice dell’unità della coppia e il divieto del divorzio è dedotto dalla sua volontà.

Il cardinale Gianfranco Ravasi in un suo articolo  titolato “I due saranno una sola carne”, pubblicato lo scorso 25 giugno su “Famiglia Cristiana”, cita un passo del vangelo di Marco: “Dall’inizio della creazione Dio li fece maschio e femmina. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. (10,6-9). Questo passo, simile alla versione di Matteo (19, 3 – 9)  definisce la struttura cristiana del matrimonio e della famiglia, disegnata all’interno dell’amore umano dallo stesso Creatore.

“Gesù, infatti, rimanda al “principio”, cioè al pensiero originario di Dio nella creazione della coppia, e le sue parole sono le stesse del Libro della Genesi: “…i due saranno una sola carne” (2,24), a cui aggiunge solo un breve commento finale sull’indissolubilità dell’autentico legame d’amore”.

Il cardinale Ravasi aggiunge che nel discorso di Gesù ai farisei ci sono quattro dichiarazioni.

La prima è una citazione del primo racconto della creazione: “Dio li creò maschio e femmina” (Genesi 1,27). La dualità sessuale è una qualità iscritta nell’umanità da Dio.

La seconda asserzione è tratta dal secondo racconto della creazione: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola”. (Genesi 2,24). “Gesù  - dice Ravasi - ricorda che ogni matrimonio spezza un passato e inaugura un futuro. La famiglia precedente, le esperienze della giovinezza, i legami del passato restano ancora ma sono superati dal nuovo orizzonte che si schiude davanti alla famiglia nuova che sta nascendo”.

La terza affermazione è  un commento di Gesù alla frase della Genesi citata (“I due saranno una carne sola”): “Così non sono più due, ma una sola carne”. È la celebrazione dell’unità creata dall’amore: i sessi sono due, le individualità dell’uomo e della donna, ma l’amore fa “fondere” senza confondere le due individualità.

La quarta ed ultima frase, costituisce il vertice del ragionamento di Gesù nella discussione con i farisei sul divorzio:  Egli afferma che “l’uomo non deve separare ciò che Dio ha congiunto”. Invece la cultura antica considerava il connubio un semplice legame naturale finalizzato alla procreazione. Diversamente da questa, per la tradizione cristiana l’accordo di coppia costituisce l’essenziale del matrimonio e non la fecondità. La sterilità non costituisce valido motivo per la separazione.  E’ importante il legame fra i due sposi  basato sul reciproco amore e la solidarietà.

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #4 il: Novembre 30, 2015, 15:43:51 »
“Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha sconvolta” (5, 4): questo erotico verso  è nel “Cantico dei Cantici”, uno dei libri della Bibbia, attribuito al re  di Israele Salomone, vissuto nel IX sec. a.C., noto per la sua saggezza e per i suoi amori. In realtà questo “Cantico” fu elaborato da uno scrittore anonimo  nel IV sec. a.C. che fece confluire nel testo diversi poemi  precedenti originari dell’area mesopotamica. Racconta in versi l'amore tra due innamorati, con tenerezza,  sfumature sensuali ed erotiche, che non pregiudicano il carattere sacro del Cantico, in quanto l’amore dei due amanti, per l’autore del testo, ha origine divina. Il testo è composto da 8 capitoli contenenti poemi d'amore in forma dialogica tra un uomo (Salomone) e una donna (Sulammita).

Il secondo verso del prologo comincia con l’amata che chiede baci  “…Mi baci con i baci della sua bocca!” o anche: “Mi bacerà con i baci della sua bocca./ Sì, migliore del vino è il tuo amore./ Inebrianti sono i tuoi profumi per la fragranza,/ aroma che si spande è il tuo nome:/ per questo le ragazze di te si innamorano”. (1, 2 – 3) Queste parole che dominano l’inizio del primo capitolo esprimono desiderio, passione che aleggiano nei successivi versi.

C’è da dire che re Salomone, secondo la leggenda, “aveva 700 principesse per mogli e 300 concubine”.  Era un sovrano “macho”.
Anche Davide, padre di Salomone, non era da meno. Prima fu un giovane pastorello, poi divenne monarca, donnaiolo sempre. Infatti la biografia davidica è un catalogo di seduzioni, adultéri, abbandoni e delitti più o meno d’onore. Davide non arretrava davanti a nulla pur di ottenere ciò che voleva. E se c’erano mariti di mezzo, come nel caso di Micol e di Betsabea, due sue “prede”, tanto peggio per i loro mariti, li fece uccidere.

Con fervente immaginazione il Cantico dei Cantici  è considerato dalla cristianità allegoria dell’amore di Dio per la sua Chiesa, invece molti commentatori vi notano la parità  della donna con l’amato: le viene riconosciuto lo stesso diritto di esprimere il proprio desiderio e la propria voglia di amore.

Diversamente dal “Cantico”, nel  biblico Qoelet o Ecclesiaste, elaborato  da un ignoto autore vissuto nel IV o III secolo a.C., si leggono frasi misogine come questa: “Più odiosa della morte è la donna, la quale è un laccio, una rete il suo cuor, catene le sue braccia, chi è grato a Dio ne può scampare, ma il peccatore ci resta preso [...] un uomo solo tra mille ho trovato, ma una donna fra tante non l'ho trovata". (7, 27)

La sessuofobia giudaica si diramò anche nel cristianesimo, che affonda le proprie radici nella misoginia patriarcale delle società pastorali giudaiche ed aramaiche. Infatti nel Nuovo Testamento ci sono insegnamenti e precetti sessuofobici ripresi di quelli dell’Antico. Nel Vangelo di Matteo (V, 27-28) Gesù dice: “Voi sapete che fu detto dagli antichi: ‘Non commetterai adulterio’. Ma io vi dico: Chiunque guarderà una donna con desiderio commetterà nel suo cuore adulterio con lei”. La condanna della sessualità, limitata dagli Ebrei ai “comportamenti adulterini”, venne estesa da Gesù al desiderio sessuale verso la donna.

Per comprendere la sessualità nella tradizione cristiana è pure interessante la figura di Maria, la madre di Gesù, nella sua identità complessa di vergine-madre.

Molti critici del cristianesimo considerano il dogma  mariano della verginità la prova della sessuofobia che avrebbe caratterizzato fin dalle origini la tradizione della Chiesa. Ma non è così. La verginità di Maria è teologica, non collegata a condizionamenti morali del comportamento sessuale. Ella  è la madre di Gesù, l’uomo-Dio, come tale funzionale al dogma della natura divina e umana di suo Figlio:  per volere dello Spirito Santo fu generato da una donna, come tutti gli esseri umani, ma da una  donna straordinaria,  che nonostante il parto rimase vergine prima del parto (ante partum), durante il parto (in partu) e dopo il parto (post partum).  Tale “miracolo” evoca precedenti miti incentrati sulla nascita straordinaria di alcuni dei, semidei od eroi, come nel celebre mito ellenistico di Danae, la vergine fecondata da una pioggia d’oro che dà vita al semidio Perseo.  Comunque non  c’è dubbio che questo dogma  sia all’origine della svalorizzazione dell’atto sessuale. 

Alla fine del medioevo il culto mariano impose la valorizzazione di Giuseppe, fino ad allora trascurato sposo di Maria. Quest’uomo “viene proposto come padre di famiglia devoto, e in quanto tale –dice Lucetta Scaraffìa- inizia ad essere indicato alla devozione dei fedeli come santo. Anche le raffigurazioni del matrimonio fra lui e Maria  -che prevedono sempre la presenza di un sacerdote e lo scambio di anelli-  rivelano il tentativo di rafforzare l’istituzione matrimoniale, se pure a prezzo di qualche ambiguità. Infatti, offrire il modello della sacra coppia implica la messa in discussione di un aspetto del matrimonio cristiano ritenuto fondamentale per la sua validità da molti teologi e canonisti, cioè la consumazione del rapporto sessuale. Giuseppe e Maria vengono presentati  come coppia modello anche se vivono in castità, proponendo quindi come più importante  nella definizione del matrimonio il consenso della consumazione. La coppia casta offre un modello di possibile santità anche nella vita matrimoniale, ma senza dubbio questo avviene a prezzo di una svalutazione della sessualità “. 
« Ultima modifica: Novembre 30, 2015, 16:09:42 da dottorstranamore »

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #5 il: Dicembre 02, 2015, 08:03:27 »
Dal biblico Libro dell’Esodo“Non commettere adulterio” (20,14). Il sesto comandamento vieta all’uomo di copulare con la donna di un altro. Ma l’evangelista Matteo ci informa che Gesù dette un nuovo significato a questo comandamento: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore”. (5, 27 – 28)

“Fu pure detto: "Chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto di ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all'adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”. (5, 31 – 32)
Gesù vuol dire che l’uomo che ripudia la moglie la induce  a risposarsi o a convivere con un altro uomo, ma diventa adultera perché il vincolo matrimoniale è indissolubile.

Lo stesso concetto è citato anche nel Vangelo di Marco: Egli disse loro: “Chiunque manda via sua moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio verso di lei; e se la moglie ripudia suo marito e ne sposa un altro, commette adulterio”. (10, 11 – 12)  Frase simile è pure nel Vangelo di Luca (16, 18)

L’insegnamento di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio e sulla parità tra uomo e donna era rivoluzionario e sconcertante rispetto al giudaismo del suo tempo. Secondo la legge di Mosè, al marito era consentito ripudiare la moglie, dandole il libello liberatorio, perché potesse eventualmente risposarsi. Gesù era contrario alla possibilità di divorziare perché considerava il matrimonio come un dono divino irrevocabile che crea un legame indissolubile e quindi un imperativo categorico: “L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. (Mt 19, 6; Mc 10, 9).

L’apostolo Paolo di Tarso nella prima Lettera ai Corinzi scrisse: “Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal
marito – e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito – e il marito non ripudi la moglie".
(1Cor 7, 10-11).

Secondo la dottrina cattolica Cristo elevando il matrimonio dei suoi fedeli alla dignità di sacramento, ne confermava l'indissolubile unità.
Il sacramento del matrimonio cristiano viene fatto originare dalla prescrizione contenuta nel libro della Genesi (2,24): “Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”.

L’affermazione  di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio creò perplessità anche nei suoi discepoli, che gli dissero: Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. Ma Gesù rispose con un detto sull’eunuchia: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono eunuchi nati così dal grembo materno, ve ne sono alcuni resi eunuchi dagli uomini, ve ne sono altri che si sono resi così per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca”. (Mt 19, 10 - 12) La triplice distinzione è chiara: ci sono impotenti a livello sessuale per disfunzioni genetiche; altri, i cosiddetti “castrati”, che nell’antico Oriente erano  funzionari di corte (il termine perse in seguito la sua allusione “fisiologica” per indicare soltanto una carica, come accade per "l’eunuco della regina Candace" (Atti ap. 8,26-40), e gli eunuchi per scelta personale, che non si castrano ma si astengono dagli atti sessuali e dal matrimonio per dedicarsi al regno di Dio, un impegno ideale religioso e caritativo.

Nella cristianità il celibato sacerdotale fu deciso nel IV secolo, con i Concili locali di Elvira del 306 e di Roma del 386, sulla base della scelta di Cristo. Tuttavia, anche dopo, per secoli continuerà a sussistere la prassi del sacerdozio coniugato, ancòra in vigore nelle Chiese orientali ortodosse e cattoliche, con l'eccezione dell'episcopato.






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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #6 il: Dicembre 03, 2015, 05:57:48 »
La lussuria: “il grande vizio che corrompe lo spirito”.

Negli eremi medievali i monaci vivevano il loro isolamento assediati da desideri e visioni che dovevano vincere con digiuni e preghiere quotidiane per tendere alla castità. Altri religiosi, invece, affrontavano l’esposizione al peccato con modalità meno virtuali.

Il teologo e dottore della Chiesa Sofronio Eusebio Girolamo (347 – 420 circa), conosciuto come san Girolamo, descrisse il suo lancinante desiderio sessuale in una lettera alla vergine Eustochia, sua discepola: “Le mie membra erano ricoperte solo da un sacco lacero. Il mio corpo straziato giaceva sulla nuda terra. Eppure io, che per timore dell’inferno mi ero condannato a quei tormenti e alla compagnia degli scorpioni, mi vedevo in mezzo a donne lascive e il fuoco della lussuria divampava nel mio povero corpo ridotto quasi in fin di vita”.

Lo stesso Girolamo nel trattato ”Adversus Jovinianum”, scritto nel 393,  dice: “Adultero è chi è troppo focosamente innamorato della propria moglie”. La sessualità tra coniugi poteva anche essere considerata fornicazione. Secondo l’etica sessuale di quel tempo  il matrimonio  è segnato dal peccato, dalla concupiscenza che accompagnava l’atto sessuale.

Girolamo era contemporaneo di Agostino, vescovo di Ippona,  anche lui convinto che il sesso fra coniugi dovesse essere limitato in frequenza e durata, ma era rimasto vago sui tempi dell’astinenza.

Il primo a sistematizzare i divieti relativi al sesso fu il monaco  Cesario, nel 502 nominato vescovo di Arles. Egli asserì  che i rapporti sessuali fra coniugi erano proibiti per tutto il periodo della Quaresima,  nelle vigilie delle maggiori feste liturgiche ed in altre occasioni.

La definizione dei periodi in cui i coniugi non dovevano avere rapporti sessuali, quelli in cui erano consentiti, e le pene da comminare ai trasgressori,  erano temi continuamente presenti nella predicazione e nella normativa dei libri penitenziali (liste di peccati e di penitenze da imporre ai peccatori pentiti) che dal VI all’XI secolo dedicarono  particolare attenzione al rapporto fra continenza  e ciclo liturgico. La sessualità coniugale era sottoposta a calendari rigidi e complicati, che la vietavano a seconda dei giorni della settimana (il mercoledì, il venerdì e la domenica), le ore del giorno, i cicli fisiologici femminili, fino ad imporre l’astinenza dopo il parto, che diventava più lunga se nasceva una femmina, poiché in modo aberrante pensavano che dal sesso femminile derivi un’impurità maggiore.

A seconda della gravità del peccato la penitenza veniva quantificata in preghiere, mortificazioni del corpo con l’alimentazione a pane ed acqua per più giorni,  ed elargizioni di denaro da parte del peccatore o della peccatrice.

Il penitenziale compilato dall’arcivescovo di Worms, Burcardo (950 – 1025), è composto di 180 articoli ed è nelle “Regulæ Ecclesiasticaæ”, note anche come “Decretum”, in 20 volumi, pubblicati negli anni tra il 1008 ed il 1012. Ecco alcuni articoli di quel penitenziale: “Ti sei accoppiato con tua moglie nel giorno del Signore ?  Devi far penitenza per quattro giorni a pane ed acqua. Ti sei macchiato con tua moglie in Quaresima ? Devi far penitenza per 40 giorni a pane ed acqua o dare in elemosina 26 soldi. Se è successo mentre eri ubriaco, farai penitenza per 20 giorni a pane ed acqua. Devi conservare la castità per 20 giorni prima di Natale, e ogni domenica e durante tutti i digiuni stabiliti dalle legge,  e nelle feste degli apostoli, e nelle feste principali, e nei luoghi pubblici. Se non l’hai conservata (la castità) farai penitenza per 40 giorni a pane e acqua”.  Le  prescrizioni erano permeate dalla convinzione che il buon cristiano non dovesse mai cercare il godimento nel rapporto sessuale, ma soltanto sopportare il piacere.   

Il controllo clericale dell’attività sessuale delle coppie sposate condizionò per secoli la quotidianità delle persone, intimorite dalle sofferenze infernali, perciò confessavano anche ciò che non dovevano confessare.

Nell’XI secolo cominciarono a diminuire le rigorose penitenze e le meticolose e cavillose classifiche di gesti, posizioni,circostanze di ogni atto sessuale; per converso aumentarono le punizioni per i rapporti sessuali non coniugali, giudicati da tribunali ecclesiastici con la partecipazione delle gerarchie del clero.

I tribunali ecclesiastici divennero l’interlocutore esclusivo dei problemi quotidiani dei fedeli, i quali portavano al loro giudizio seduzioni, adultéri,  e tutto ciò che offendeva la comunità provocando scandalo. Tali tribunali divennero un apparato potente e ramificato, capace di amministrare la moralità sessuale dei cristiani, che viene adeguata dalla Chiesa se costretta dagli eventi, come quelli nel  XVI secolo,  con la riforma protestante ed il Concilio di Trento  che decise la non obbligatorietà della continenza nei periodi considerati sacri, però per salvare l’apparenza esortò a praticarla. 

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #7 il: Dicembre 09, 2015, 06:05:18 »
Il terzo capitolo del libro “Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia” è stato elaborato dall’altra autrice, Margherita Pelaja, la quale fra l’altro dice: “Intorno al matrimonio la Chiesa combatte una delle sue battaglie più vaste e tenaci, addensando nei secoli armi e strategie che avranno conseguenze e ripercussioni su tutti i territori della vita sociale e istituzionale della cristianità.
Tra impero romano e alto Medioevo il matrimonio si era fondato sostanzialmente sulla prassi romana e sulla morale cristiana. Sul piano giuridico, la Chiesa aveva fatta propria la teoria con sensualistica tipica del diritto romano (il matrimonio è un patto fondato sul consenso dei due contraenti), limitandosi appunto a elaborare canoni e precetti  -suul’adulterio, il divorzio, le forme del congiungimento carnale-  che orientassero i fedeli sulle caratteristiche della vita coniugale cristiana. Ma il matrimonio rimaneva un fatto privato, un’alleanza tra famiglie, una scelta dei singoli, e la sua celebrazione era affidata alle scansioni della tradizione romana e alle consuetudini locali. Le usanze barbare, il diritto germanico, che a partire dal V secolo contaminarono concezioni e prassi del matrimonio, prevedevano il divorzio, il concubinato, il ratto, e costrinsero teologi e canoninisti a moltiplicare la produzione normativa per c0ntrastare il disordine delle unioni e delle parentele”.
   
Nell’antichità i matrimoni tra consanguinei ed affini erano diffusi, la Chiesa per contrastarli elaborò la “teoria degli impedimenti matrimoniali”. Proibiva o annullava il matrimonio fra consanguinei fino al settimo grado di parentela, tra parenti adottivi, tra parenti spirituali (i padrini di battesimo), e tra affini,a prescindere dall’esistenza di nozze formali, perché era il sesso, l’unione carnale anche illecita a creare un legame impossibile da sciogliere.

La “copula carnalis” crea un vincolo e dunque un impedimento perpetuo, che rimane anche quando muore la persona con cui è stato contratto, un vincolo originato dall’atto sessuale completo e non dalla polluzione esterna.

La copula carnalis è la base indispensabile del matrimonio cristiano, quella che decide della sua validità e della sua indissolubilità.

Il rigore  che caratterizzava gli impedimenti matrimoniali coinvolse per decenni gli storici, dividendoli tra chi sosteneva la priorità della Chiesa di far diminuire i matrimoni, prole e successioni per incrementare i lasciti destinati al patrimonio ecclesiastico, e chi pensava a motivazioni meno economiche, mostrando che l’estensione dei divieti poteva contribuire a rafforzare l’appartenenza alla comunità dei fedeli piuttosto che alla famiglia, e l’obbedienza, all’autorità della Chiesa anziché al pater familias. 

Nell’XI secolo la Chiesa cominciò ad imporre la propria competenza in materia di matrimonio, a dettare le regole e a controllare l’istituto matrimoniale tramite il giudizio dei tribunali ecclesiastici.

Nel 1144 circa il canonista Graziano  pubblicò il “Concordia discordantium canonum” col quale intendeva conciliare posizioni apparentemente contrapposte: il “matrimonium initiatum”, espresso dal consenso dei partner, doveva essere  ratificato dalla copula, per conseguire il “matrimonium ratum”. Ma le opinioni dei canonisti rimasero divergenti per secoli, fino alla sistematizzazione da parte del Concilio di Trento.   

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #8 il: Dicembre 11, 2015, 07:34:37 »
Diversità e contaminazioni nei riti e  nelle cerimonie che formalizzavano la celebrazione delle nozze, dominarono il Medioevo. Le tradizioni germaniche, accogliendo e rimodellando ritualità romane, proponevano una complessa scansione del matrimonio:

la fase iniziale era costituita dalla promessa  solenne di matrimonio (“desponsatio”), che per prima sanciva la volontà dei partner; a questa seguiva, con intervallo variabile, il consenso e la “subarrhatio”: lo scambio degli anelli, che costituiva il vero matrimonio, completato dalla “traditio puellae”, il trasferimento della sposa nella casa maritale, che consentiva la copula e l’avvio della vita coniugale.
 
Margherita Pelaja evidenzia che “Nel difficile equilibrio tra sposi e famiglie, tra accordi giuridico.economici ed impegno spirituale, la Chiesa cercava di restituire la priorità al consenso e di conquistare spazi decisivi per la cerimonia religiosa; l’anello divenne lentamente simbolo della reciprocità dei voti (promesse), mentre il sacerdote prendeva il posto del notaio nella lettura dei pronunciamenti rituali. Ma le consuetudini locali e la tenace resistenza delle parentele ostacolarono ancora per secoli queste innovazioni: il fidanzamento, frutto spesso di alleanze familiari strette quando gli sposi promessi erano ancora impuberi, continuò a creare vincolo e a essere considerato un matrimonio da ratificare soltanto con l’unione carnale; il corteo nuziale mantenne il suo forte e pubblico significato di rito di passaggio, e fu solennizzato fastosamente con danze e ghirlande; la consumazione stessa fu ufficializzata, a volte in presenza di testimoni incaricati di riferire sul suo compiuto svolgimento”.

Nel 1274 il Concilio ecumenico di Lione inserì il matrimonio tra i sacramenti, affidandone la competenza giurisdizionale alla Chiesa, la quale ormai non solo doveva stabilire sul piano morale la liceità dei comportamenti coniugali, ma sul piano giuridico, tramite i tribunali ecclesiastici, doveva difenderne l’indissolubilità. E ciò poneva la necessità di poter identificare, con un atto ritualizzato e pubblico, la celebrazione del matrimonio.

Nel 1563 il Concilio di Trento redasse il “Decretum de reformatione matrimonii”, col quale ribadiva la sacralità del matrimonio, la sua indissolubilità (può essere sciolto solo se non consumato), il potere della Chiesa di decidere i casi di ammissione per la separazione dei coniugi, il ruolo della famiglia, le forme di solennità della celebrazione,  di stabilire impedimenti diversi da quelli considerati nel Levitico: è il terzo libro dellaTorah ebraica e della Bibbia cristiana.
 
Il suddetto decreto nel primo capitolo dà istruzioni per la celebrazione del matrimonio: ordina che prima delle nozze ne sia dato per tre volte pubblico annuncio durante la messa dei giorni festivi; che lo scambio dei consensi che costituisce il matrimonio sia effettuato davanti al parroco e a testimoni; che né coabitazione né consumazione debbano avvenire prima della benedizione del parroco. Decisioni queste che affermavano il carattere pubblico della cerimonia nuziale col controllo esclusivo della Chiesa  rispetto ad altre sovranità.

“Papi, teologi, canonisti, nessuno infatti aveva pensato fino ad allora a regolare le nozze, afferma Margherita Pelaja, a individuare nelle tappe che scandivano il processo matrimoniale l’evento capace di dividere il prima di un nubilato tassativamente casto dal dopo di una coniugalità possibilmente continente”.

Per contrastare i numerosi matrimoni clandestini il Concilio di Trento obbligò le nozze pubbliche e solenni davanti al parroco della parrocchia di uno degli sposi o di un altro sacerdote purché autorizzato dal vescovo. I matrimoni contratti senza il consenso dei genitori furono dichiarati validi, ma detestati e proibiti dalla Chiesa.

I decreti emanati a Trento affermarono dunque il primato della Chiesa cattolica su ogni questione matrimoniale, dalla formazione della coppia all’indissolubilità dell’unione sancita secondo i canoni, affidando in tal modo alle gerarchie ecclesiastiche un potere inedito e assoluto sulle famiglie e sulla sessualità coniugale. 

Il Concilio di Trento mirava a fare di ogni fedele un cristiano obbediente e disciplinato. In quel consesso venne ribadito il ruolo del confessore come giudice e l’obbligo per i penitenti di descrivere con precisione le loro colpe. Il confessore doveva interrogare ed interrogando spiegare le norme etico-religiose della dottrina cristiana, risvegliare la coscienza del peccato. La confessione divenne strumento di formazione dei fedeli e di informazione del clero. Il pentimento e la sofferenza per aver peccato era l’obiettivo esplicito della confessione, il senso di colpa era considerato lo strumento più valido per raggiungerlo. E nulla era efficace ad instillare il sentimento della colpa quanto la sessualità.

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #9 il: Dicembre 15, 2015, 06:15:32 »
II teologi dell’antichità e del medioevo consideravano l’unione coniugale  come “remedium concupiscientiae”  e discutevano se il coito tra moglie e marito costituisse almeno peccato veniale. Essi sostenevano che era impossibile rimanere puri dopo l’amplesso. Comunque erano convinti che fosse peccato mortale il rapporto sessuale col solo fine del piacere fisico. Il connubio doveva avere come scopo la procreazione di figli: tale intenzione veniva manifestata da molte donne  che fino ai primi decenni dello scorso secolo ricamavano sulla camicia da notte il detto “Non lo fo per piacer mio ma per dare figli a Dio”. Questo aforisma riassumeva in parte il punto di vista ecclesiastico sul sesso:  disciplina dell’anima, disciplina del corpo. Interiorizzazione di norme e precetti morali, il bene e il lecito nelle scelte e nei comportamenti. Secondo la “devotio” l’anima e il corpo sono in simbiosi; frenando i pensieri peccaminosi l’anima impara a resistere e col tempo li vince.

Ma nel XVIII secolo sulla sessualità cominciarono a circolare opinioni dissonanti dai precetti della Chiesa cattolica. Le regole cristiane erano considerate innaturali, impossibili da seguire, perciò provocatrici di infelicità e problemi sociali.

Il processo di secolarizzazione avviato dagli illuministi, secondo cui la religione costituisce solo un’opinione fra tante e non più un termine di riferimento dell’intera comunità, una scelta individuale, ebbe conseguenze sulle norme di comportamento sessuale fino ad allora stabilite dalla Chiesa. Questa trasformazione epocale avvenne prima e dopo la Rivoluzione francese, tra il 1750 ed il 1850: molti cominciarono a capire che l’organizzazione della vita associata non è collegata alla credenza al soprannaturale che impone dall’esterno e dall’alto la sua legge.
 
Con l’abolizione della mediazione della religione tra Dio e l’umanità, finisce il monopolio della Chiesa sulle regole del comportamento sessuale, che viene spostato dal piano morale e religioso a quello scientifico, superando l’antinomia “normale” – “anormale”, peccato e virtù, permesso e proibito. Ormai ai consigli dei confessori anche i devoti cattolici preferiscono gli insegnamenti dei sessuologi e  dei psicologi.

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #10 il: Dicembre 16, 2015, 00:15:41 »
L’erosione del monopolio cattolico sui comportamenti sessuali cominciò in Francia nel XVI secolo ma fu nel XVIII secolo che la cultura occidentale iniziò a rifiutare quella egemonia. 

In quel tempo il diritto canonico in vigore sanciva il valore giuridico della promessa di matrimonio, che faceva nascere l’obbligo di coscienza a sposarsi: il rispetto dell’obbligo poteva essere imposto anche per via legale: nel caso di nozze annullate si costringeva l’uomo a delle alternative: accettare le nozze,  risarcire il danno morale offrendo la dote alla donna, in caso di diniego gli spettava la galera. 

La promessa di matrimonio, più o meno pubblica (“fidanzamento ufficiale”), permetteva i rapporti sessuali tra fidanzati, i quali potevano così trasformare l’impegno per il futuro in matrimonio valido per il presente, perché il rapporto sessuale era considerato prova definitiva di consenso.

Se nella coppia cominciava un conflitto dopo la copula (perché lui dopo aver insistito nella richiesta, si ritraeva sostenendo di non aver mai avuto intenzioni matrimoniali e accusando lei di un’eccessiva disponibilità) le donne e le loro famiglie  si rivolgevano ai parroci e ai tribunali ecclesiastici per ottenere le nozze.
La Chiesa cattolica era l’arbitro di queste contese, e continuava a ergersi a tutrice della vulnerabilità femminile: il “favor matrimoni” che ispirava la politica ecclesiastica diventava protezione e appoggio agli intenti delle donne, anche se aveva come fine prioritario la tutela dell’ordine familiare e non quella delle donne in particolare.  Per la Chiesa lo scopo era quello di preservare la propria egemonia nel governo della morale familiare. 

Le querele per “stupro semplice” (così era detto l’amplesso extraconiugale tra persone consenzienti) erano molte nelle aule giudiziarie dei tribunali ecclesiastici, comunque le donne erano considerate innocenti e vittime della seduzione maschile. Le conseguenze erano nefaste: per conquistare le nozze molte donne usavano la promessa di matrimonio per propri fini, rendendosi disponibili a farsi sedurre.

Gli abusi femminili  furono però percepiti dalla Chiesa, che emanò norme restrittive: la donna non più vittima a prescindere, ma “socia criminis” se non sapeva dimostrare la propria innocenza esibendo sul proprio corpo i segni, le prove tangibili della violenza subita.
   
Nel passato le norme per il matrimonio cristiano furono elaborate tenendo anche presente la dilagante morte dei neonati e delle partorienti, perciò la Chiesa privilegiava la procreazione e non il piacere nell’attività sessuale. In tale situazione, il modello di morale sessuale cristiana che limitava il sesso  nel matrimonio a fini procreativi era ben accolto e coerente con le esigenze sociali. Poi il progresso della medicina permise di porre fine alla necessità di fare molti figli per garantire  la sopravvivenza della famiglia e consentì di tenere distinti matrimonio e procreazione. 

Dalla fine del XIX secolo l’avanzamento degli studi di sessuologia permisero di considerare il piacere erotico il fine principale della sessualità, consapevolmente dissociata dalla procreazione. Tale constatazione ebbe come corollario la ribellione contro l’innaturale etica sessuale cristiana. 

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #11 il: Dicembre 17, 2015, 07:41:54 »
Nel 19/esimo secolo il processo di secolarizzazione mise in discussione la morale sessuale cristiana e la legittimità della Chiesa a parlare di sesso, legittimità riconosciuta solo alla scienza medica. Ma in quel tempo la morale sessuale dominante, soprattutto per le donne, non differiva da quella proposta dalla Chiesa, ciononostante gli anticlericali contestavano il diritto dei preti di parlare di sesso: per loro il confessore non essendo un medico  era solo un corruttore e pornografo,  che attentava al pudore delle mogli durante le confessioni,  violando un rapporto intimo e privato che a loro non compete. 

Secondo lo storico del cattolicesimo e sociologo francese Claude Langlois le contestazioni al clero cominciarono in Francia nel 18/esimo secolo e si diffusero in tutta Europa, intrecciando la pratica della contraccezione con l’avanzare della decristianizzazione.

Nel passato non c’erano gli attuali anticoncezionali e la prima forma di controllo delle nascite era il “coitus interruptus”, praticato anche dalle coppie cattoliche, che chiedevano ai confessori ragguagli sulla sua legittimità morale. I confessori, a loro volta, ponevano quesiti alla “Sacra Penitenzieria” e al “Sant’Uffizio”.

Il primo documento pontificio che tratta della morale sessuale è l’enciclica “Casti connubii”, promulgata da Pio XI il 31 dicembre del 1930 come risposta della Chiesa cattolica all’accettazione delle pratiche contraccettive da parte della Chiesa anglicana. Questa enciclica ribadisce che solo la Chiesa cattolica è la fedele custode della dottrina cristiana su questi temi, l’unica capace di difendere la legge naturale: “Qualsiasi uso del matrimonio, in cui per l’umana malizia l’atto (sessuale) sia destituito della sua naturale virtù procreatrice, va contro la legge di Dio  e della natura, e coloro che osino commettere tali azioni, si rendono rei di colpa grave”. Nello stesso documento pontificio Pio XI indica anche i nemici del matrimonio cristiano (divorzio, emancipazione delle donne), che deve essere considerato invenzione divina e non costruzione umana, e condanna chi “con discorsi, con libri e con infiniti altri mezzi lavora a pervertire le menti, a corrompere i cuori, a mettere in derisione la castità matrimoniale, e ad esaltare vizi vergognosi”.

Per il cambiamento nel modo di concepire l’emancipazione della donna e la sessualità, ma non le regole della morale sessuale, si dovette attendere il Concilio Vaticano II. 

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #12 il: Dicembre 18, 2015, 05:28:53 »
Il 10 aprile 1941 in un discorso al tribunale della Sacra Rota, Pio XII disse che il fine primario del matrimonio è la procreazione, messa al primo posto nel V secolo dal filosofo e teologo Agostino, vescovo di Ippona, e ribadita nel XIII secolo da Tommaso d’Aquino. Il fine secondario  è l’unione fra i coniugi, collegata al fine primario da un legame di subordinazione: l’amore coniugale a servizio della procreazione. Tale giudizio fu ribadito nell’aprile del 1944 da un decreto del “Sant’Uffizio”. 
 
Nel 1955 il filosofo e sociologo Herbert Marcuse (1898 – 1979) pubblicò il saggio “Eros e civiltà”, nel quale sviluppa le premesse della filosofia sociale di Freud e sostiene, fra l’altro, che  la liberazione sessuale è la base della felicità umana.

Nel contempo le ricerche effettuate  dal  biologo statunitense Alfred Kinsey (1896 – 1956) sulle pratiche coitali innescarono la cosiddetta “rivoluzione sessuale” o "liberazione sessuale", che indusse in Occidente un sostanziale cambiamento culturale nell'attinente moralità tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 dello scorso secolo.

Per Kinsey l’attività sessuale nella coppia ha una dimensione ludica e scissa dalla morale religiosa, dai significati attribuiti dalla Chiesa cattolica all'amplesso. Il successo di questa ideologia che voleva il distacco netto fra sessualità e procreazione, fece breccia anche nei cattolici.

Dopo Kinsey ci furono altre inchieste sul comportamento sessuale, come quelle celebri di Masters e Johnson, che ebbero un ruolo importante nella critica della morale tradizionale. 

La gerarchia vaticana percepì il pericolo e tentò di arginare la contestazione alla sua pretesa dell’irreversibilità del vincolo matrimoniale e la conseguente cancellazione di Dio dal rapporto coniugale, ribadendo la sua dottrina tradizionale: soltanto  il fine della procreazione, che vede i coniugi interagire con la volontà divina, può riportare Dio nel vincolo matrimoniale e restituire alla sessualità il significato simbolico e spirituale.

Ormai era chiaro, nella cultura occidentale la “liberazione sessuale” stava definitivamente separando la sessualità non solo dalla procreazione  ma anche dal matrimonio e dall’amore, per legittimarla come semplice ricerca di piacere individuale.

Nell’inchiesta su “L’adulterio femminile in Italia”, pubblicata nel 1963, il matrimonialista Lucio Grassi scrisse:  “Al campione esaminato è apparso che una rilevante percentuale di coppie coniugate pratica il controllo delle nascite con metodi assolutamente riprovati  dalla morale e dal diritto. Tali modalità di compimento dell’atto sessuale coniugale finiscono con l’allontanare notevolmente la donna dalla attiva pratica religiosa non essendo compatibili con i precetti morali. Un rilevante numero di donne coniugate viene a trovarsi  -durante il matrimonio- in uno stato di perenne conflitto con le norme religiose; da tale conflitto esce così soccombente la coscienza morale. La norma religiosa, in tali casi, sembra svalutarsi; ed è apparso ben evidente che le violazioni di altri precetti morali  -quali, ad esempio, la fedeltà-  incontrino una resistenza spirituale sempre minore”. 
 
Nel 1964 il pontefice Paolo VI propose di mantenere la dottrina dei due fini del matrimonio, quello primario e quello secondario, descritti nel primo paragrafo di questo post. Ma la costituzione conciliare “Gaudium et Spes”, votata nel dicembre 1965 dal Concilio Vaticano II,  nel capitolo dedicato al matrimonio non cita i due fini e il loro rapporto gerarchico. Il testo conciliare si distacca dalla teoria del “remedium concupiscentiae” del diritto canonico per  dare valore alla sessualità dei coniugi: “Gli atti che realizzano l’unione intima e casta degli sposi sono degli atti onesti e degni”. Questo è un altro esempio di come la Chiesa per sopravvivere nei secoli adatta le sue norme all’evolvere delle società.

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #13 il: Dicembre 19, 2015, 08:12:04 »
La scoperta di un nuovo tipo di anticoncezionale, la pillola che inibisce l’ovulazione, commercializzata dal 1960, aprì nuove prospettive che permisero di realizzare le nuove e più avanzate teorie di liberazione sessuale nel mondo occidentale. Ma la pillola anticoncezionale pose problemi inediti alla Chiesa cattolica, perché permette alle donne di comportarsi come gli uomini dal punto di vista sessuale. Con la pillola le donne possono decidere se concepire un figlio e possono separare la sessualità dall’amore e dal matrimonio.

Per la Chiesa cattolica fu un duro colpo, perché la sua morale sessuale non era più accettata come legittima. I fautori della “liberazione sessuale la giudicavano repressiva e sessuofoba. Essi pensavano che liberando il rapporto sessuale dalla riproduzione anche le femmine potevano come i maschi copulare solo per giungere all’orgasmo, se necessario con la tutela della pillola anticoncezionale.
 
Il 3 ottobre 1965 Paolo VI nell’intervista concessa ad Alberto Cavallari per il “Corriere della Sera” disse: “Il mondo chiede cosa Ne pensiamo (del controllo delle nascite) e  Noi ci troviamo a dare una risposta. Ma quale ? Tacere non possiamo. Parlare è un bel problema. La Chiesa non ha mai dovuto affrontare, per secoli, cose simili. E si tratta di materia diciamo strana per gli uomini della Chiesa, anche umanamente imbarazzante. Così, le commissioni si riuniscono, crescono le montagne delle relazioni, degli studi. Oh, si studia tanto, sa. Ma poi tocca a me decidere. E nel decidere siamo soli. Decidere non è così facile come studiare”. Questo breve testo evidenzia che questo papa per riferirsi a se stesso gradiva usare la figura retorica del plurale maiestatis anziché il singolare.
 
Nel 1968 (anno della ribellione studentesca ed inizio di quel percorso di liberalizzazione dei comportamenti sessuali giovanili) Paolo VI fece pubblicare la sua enciclica “Humanae vitae”, che conferma l’insegnamento tradizionale della Chiesa in tema di matrimonio e di contraccezione, considerata un pericolo per l’amore di coppia. Il documento ribadisce la connessione inscindibile tra il significato unitivo e quello procreativo dell'atto coniugale; dichiara anche l'illiceità di alcuni metodi per la regolazione della natalità ed approva quelli basati sul riconoscimento della fertilità: sono metodi che aiutano le coppie ad identificare i periodi infecondi e potenzialmente fecondi del ciclo mestruale. Durante il periodo fecondo, in base ai propri desideri una coppia può scegliere di avere rapporti sessuali per aumentare le probabilità di concepire oppure può astenersi od utilizzare contraccettivi a barriera per evitare una gravidanza indesiderata.

L'enciclica provocò un enorme dissenso sia a livello teologico sia a livello di conferenze episcopali; anche molti cattolici la considerarono una indebita intromissione nella loro vita sessuale.

Paolo VI pose la scelta pontificia come indiscutibile, ma molti cattolici in varie parti del mondo si opposero all’insegnamento dell’enciclica sulla contraccezione,  appellandosi al principio della non vincolabilità della coscienza del cristiano. Inoltre posero la questione sull’infallibilità dell’insegnamento papale.

Non era semplicemente una dialettica fra libertà ed oppressione, tra emancipazione ed oscurantismo, ma del conflitto fra due diverse concezioni della sessualità: l’una, quella laica, che colloca anche l’atto sessuale nell’ambito della libertà individuale, l’altra, quella cattolica, che lo giudica e lo definisce importante nel percorso spirituale del credente, un incontro fra anima e corpo che non si può sottrarre al rispetto delle regole religiose. L’una basata sull’analisi scientifica della sessualità  e sull’autonomia del soggetto intesa come valore dominante, l’altra fondata sull’individuo considerato come soggetto morale in un sistema di norme definite.

Comunque l’”Humanae vitae” per quel tempo contiene una importante innovazione: evidenzia il valore positivo del rapporto sessuale coniugale, praticato anche nei periodi non fecondi. Invece nel passato, anche recente, i coiti sicuramente non procreativi, come durante la gravidanza o la menopausa, venivano considerati mancanza di controllo di sé e di mortificazione.

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Re:Chiesa e sessualità
« Risposta #14 il: Dicembre 25, 2015, 07:34:34 »
Nel 1988 il pontefice Giovanni Paolo II in occasione dell’anno mariano pubblicò la lettera apostolica  "Mulieris dignitatem", nella quale evidenzia l’uguaglianza in dignità dell’uomo e della donna, la loro vocazione alla reciprocità e alla complementarietà, alla collaborazione ed alla comunione.

Con delle pericope dal Vecchio Testamento il papa rileva nella predetta lettera quanto scritto nella Genesi riguardo la donna creata da Dio “dalla costola dell’uomo” (2, 18 – 25), come  “carne della sua carne e osso delle sue ossa” (2, 23). Sin dall'inizio essi appaiono come “unità dei due” e per Adamo il superamento dell'originaria solitudine. Eva è la compagna della vita, con la quale, come con una moglie, può unirsi divenendo con lei “una sola carne” (Gen 2, 24): “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela” (Gen 1, 28). E alla donna dice: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gn 3, 16): tale imposizione maschilista, tipica della cultura patriarcale verso la femmina, ebbe un ruolo decisivo per l’ineguaglianza dei due sessi:  la donna “oggetto” di “dominio” e di “possesso” maschile.

Le religioni ebraica, cristiana ed islamica furono elaborate nel contesto di società organizzate in senso patriarcale e nel corso della loro storia hanno più o meno legittimato la struttura sociale a predominio maschile. Quindi si possono qualificare religioni patriarcali. Le differenze fra l’una e l’altra riguardano soprattutto la misura, le forme e le strutture argomentative con cui ciascuna legittima o rafforza il predominio maschile nella rispettiva società.
Il concetto di patriarcato rimanda alla struttura  di un aggregato sociale, a cominciare dal sistema patrilineare della famiglia fino alle istituzioni dominate dal maschio.

Oggi abbiamo un’idea abbastanza precisa di alcune costanti culturali che definivano ciò che era l’uomo e la donna nelle civiltà mesopotamiche. La donna come oggetto erotico, dedita al lavoro e alla maternità; l’uomo come possessore, come capo. Da questi tratti scaturirono quei ruoli riprodotti nelle culture successive.

Nella "Mulieris dignitatem" Giovanni Paolo II argomenta anche sul peccato originale e le sue  conseguenze nell'uomo e nella donna. Entrambi gravati dalla peccaminosità ereditata, portano in loro il costante “fomite del peccato”, cioè la tendenza ad intaccare l'ordine morale.  Questa tendenza si esprime nella triplice concupiscenza, che il testo apostolico precisa come concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita (1 Gv 2, 16).
Dopo il peccato originale ci sono nell'uomo e nella donna forze opposte, a causa della triplice concupiscenza. Per questo Gesù nel Discorso della montagna disse: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5, 28). Queste parole, rivolte direttamente all'uomo, indicano la sua responsabilità nei confronti della donna: per la sua dignità, per la sua maternità, per la sua vocazione.

Non basta ! Alle donne  furono addossate pure tre inferiorità: fisiologica, morale e giuridica, che traggono origine dalla filosofia aristotelica e dai testi biblici, interpretati all’interno di una cultura androcentrica che ha accompagnato il cristianesimo dal momento in cui si è costituito come religione. Un esempio è il versetto della Prima lettera di Paolo ai Corinti (14,34): "Le donne tacciano nell’assemblea": questa pericope paolina è rivolta a tutte le donne ed ha determinato l’esclusione della donna da qualunque ruolo autorevole, le è stata negata la parola pubblica, ma nel nostro tempo l’esegesi  vuole interpretare quella frase limitativa alle sole donne di Corinto, per adattare come al solito la religione cattolica al contesto storico.