La sveglia poggiata sul tavolo vibrava ormai esausta. Non l'avevo sentita per più di un quarto d'ora e si stava prosciugando la sua carica chimica interna. Allungai dal letto il mio braccio sinistro, in direzione di quel vibrafono ansimante che oramai non emetteva più alcun suono.
Sentii al solito il muscolo della mia spalla come accartocciato, che si torceva e districava dall'inerzia della notte.
Fermai lo spasma di quel marchingegno, pigiando con energia sul tasto fosforescente.
Dalle imposte filtrava una luce artificiale, scomposta in fotogrammi ovali e sfocati, lungo linee parallele. Pentagrammi in serie della stessa nota di luce.
Le ciabatte introvabili, il pavimento di finto parquet repellente, quasi con retrogusto umido al tatto.
Avevo la vescica piena, ma ancora non avrei potuto orinare per il verso giusto.
Temporeggiai scalzo nel corridoio, per far salire dalla pianta dei piedi un antidoto alla mia erezione: linfa gelida fin su ai vasi terminali.
La meccanica del proprio membro a volte te ne fa sentire suddito.
Che pisciata liberatoria, in piedi, con il cerchio abbassato: non per sfregio, ma perché quella aureola bianca non stava più in piedi. Nessuno dei coinquilini ci badava più e il water stava assumendo le sembianze di una turca.
Dalla cucina intanto sentivo fischiare il bollitore. Richard era già in piedi, preparava il suo the. Lo incrociai nel corridoio: Morgen. Morgen. Questa volta riuscii a guardarlo negli occhi, dall'ultima volta in cui c'eravamo scannati su chi dovesse svuotare il secchio del compost.
Gli volevo bene in fondo, ancor di più da quando mi aveva raccontato che da ragazzo, per un'estate intera, aveva lavorato in un'azienda agricola, tirando il collo a tacchini più grandi di lui. Glu, glu...