Autore Topic: Il volto e la maschera  (Letto 8069 volte)

Doxa

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Il volto e la maschera
« il: Febbraio 02, 2015, 10:42:23 »
Il filosofo austriaco Thomas Macho afferma che nel mondo occidentale i mass media hanno creato il fenomeno della società “facciale”: nelle pubblicità il volto è onnipresente come maschere.

Cos’è il volto e cos’è la maschera ?

La parola “volto” deriva dal latino “vultus”, indica il viso, in latino “visus”,  participio passato di “videre” (= vedere). Il viso è la parte anteriore della testa. Come sinonimo viene usato il termine “faccia”, dal latino “facies” (= aspetto, forma).

Alcuni studiosi  ipotizzano che la parola italiana “maschera” derivi dal termine dialettale ligure-piemontese “masca” (=strega) con l'aggiunta del suffisso “era”. Le streghe, infatti, venivano di solito rappresentate con volti dai lineamenti deformi o orripilanti, tipici di alcune “maschere”, come quelle indossate dagli attori nei teatri in epoca greco-romana che le utilizzavano per avere le sembianze dei personaggi che interpretavano. Nella loro maschera la parte della bocca era fatta in modo tale da amplificare la voce (“per – sonare”) per farla ascoltare anche gli spettatori più distanti dal palcoscenico.

Nella lingua greca la maschera teatrale era denominata “prosopon”, dalla quale deriva nella lingua italiana la parola “prosopopea”. Nel lemma “prosopon” (= volto) la particella “pro” significa davanti, con riferimento alla parte anteriore della testa.

Nella lingua latina la maschera teatrale veniva detta “persona”, ma questa parola con la filosofia stoica passò ad indicare  l'essere umano. Poi Tertulliano  (155-230)usò il termine latino "persona"  per  descrivere la trinità: "una sostanza (una substantia), tre persone (tres personae).

II linguaggio quotidiano associa spesso la metafora della maschera all'inganno, per esempio nelle frasi  "togliti la maschera !", "cosa c'è dietro la sua maschera ?", per indicare un atteggiamento non vero.




« Ultima modifica: Marzo 03, 2015, 05:58:50 da dottorstranamore »

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #1 il: Febbraio 04, 2015, 10:23:20 »
Nel precedente post ho scritto che il termine “persona” nell’antichità indicava la maschera ("prosopon" nella lingua greca, da cui nella lingua italiana la parola prosopopea) utilizzata dagli attori teatrali per dare loro le sembianze dei personaggi che interpretavano.

Il filosofo greco Panezio di Rodi (185 – 109 a.C), che fece meglio conoscere nell’ambiente intellettuale romano la filosofia stoica, ampliò di significato il  lemma "persona". Usò tale parola  per sostenere che l'individuo non porta sulla "scena" della vita la sola maschera (prosopon) dell'essere umano, ma anche quella che caratterizza la propria individualità fin dalla nascita alla quale, successivamente, se ne aggiungono altre due: quella determinata dalle vicissitudini della vita, e quella caratterizzata dalla sua attività lavorativa.
 
La nozione greca di "persona" elaborata da Panezio fu poi ripresa e diffusa nel mondo romano da Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) nel suo saggio “De officiis”: “Oltre a questo, bisogna riflettere che la natura ci ha come dotati di due caratteri (personis): l'uno è comune a tutti, per ciò che tutti siamo partecipi della ragione, cioè di quella eccellenza onde noi superiamo le bestie: eccellenza da cui deriva ogni specie di onestà e di decoro, e da cui si desume il metodo che conduce alla scoperta del dovere; l'altro invece è quello che la natura ha assegnato in proprio alle singole persone”.

Per il filosofo  Epitteto: (50 – 130 circa d.C.) l'essere umano è persona perché "come l'attore di un dramma" rappresenta una parte che gli è stata assegnata dal destino e che lo pone in relazione agli altri, 'relazione', che si manterrà poi anche nel linguaggio teologico, nel quale il vocabolo persona assume un significato particolare.

Nella letteratura cristiana il termine greco di "persona" compare per la prima volta nella "Seconda lettera ai Corinzi",  attribuita all’apostolo Paolo di Tarso:”grazie anche alla vostra cooperazione nella preghiera per noi. Così, per il favore divino ottenutoci da molte “persone”, saranno molti a rendere grazie per noi” (1, 11).

Gregorio Nazianzeno (329-390), teologo e “Padre della Chiesa” usò la parola “persona” per formulare due verità di fede: la Trinità (Dio è Uno ma in tre Persone) e l'incarnazione di Dio in Gesù (due nature, divina e umana, in una sola Persona, la Seconda della Trinità, il Figlio). Per fissare i concetti  fu  importante la definizione di Boezio: “naturae rationalis individua sustantia” (= sostanza individuale di natura razionale).

Nella determinazione teorica del rapporto trinitario in Dio (presente anche nella tradizione ebraica: accanto a Jahvè vi sono la figura del Messia e quella della Sapienza) esplicitato nella predicazione di Cristo ("Io e il Padre siamo una cosa sola": Giovanni 10, 20), i Padri della Chiesa in Oriente e in Occidente tentarono di elaborare definizioni razionali che potessero rendere comprensibile quello che veniva considerato un mistero della fede.

Nell’epoca contemporanea è interessante la nozione di “persona” nel dibattito bioetico:  è persona un embrione? Quando comincia a esserlo? È persona ancora chi si trova in stato di morte cerebrale?

Tematiche aperte nelle quali spesso è facile il fraintendimento e l'incomprensione proprio perché è dato per implicito un certo modo di intendere la persona.

Al concetto di persona è collegato il concetto di individuo, importante nella cultura occidentale che considera  il sacro valore dell'individuo-persona.
« Ultima modifica: Febbraio 04, 2015, 16:37:50 da dottorstranamore »

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #2 il: Febbraio 05, 2015, 10:00:26 »
Nel precedente post ho scritto in chiusura che al concetto di persona è collegato il concetto di individuo, importante nella cultura occidentale che considera  il sacro valore dell'individuo-persona.

Anche se le due suddette parole le usiamo come sinonimi  hanno origini e significati diversi.
 
Per quanto riguarda la “persona” voglio aggiungere che nell’etimologia latina il termine “persona” indica la maschera teatrale che veniva indossata dagli attori nei teatri in epoca greco-romana. Nella maschera la parte della bocca era fatta in modo tale da amplificare la voce degli attori (“per – sonare”) per farla ascoltare anche gli spettatori più distanti dal palcoscenico. Il vocabolo “persona” venne poi usato per indicare l’individuo rappresentato sulla scena, cioé il “personaggio”.

Nel diritto, la filosofia, la psicologia la sociologia, la teologia, la politologia, l’economia, fino alla bioetica,  il concetto di persona trova in ogni disciplina una propria definizione: ad esempio, la giurisprudenza  definisce la persona come un soggetto che ha la capacità giuridica, che possiede diritti e doveri davanti alla legge; in ambito filosofico, si definisce persona un essere dotato di coscienza di sé e in possesso di una propria identità, come la persona umana, senza distinzione di sesso, età, condizione sociale,  considerato sia come elemento a sé stante sia come facente parte di un gruppo o di una collettività.

La “persona” è anche nelle dichiarazioni universali e delle leggi di molti Stati e Organismi internazionali.

Ognuno di noi è persona ma anche individuo: questo termine ci arriva dalla lingua latina, dal lemma “individuus”, parola composta dal prefisso “in” privativo e “dividuus” (= diviso), perciò “individuo” significa indiviso ed anche indivisibile. Ogni individualità è unica e differente dagli altri esseri della stessa specie.
 
Nel racconto della Genesi (Gen 1, 27) l’uomo nasce come creatura a immagine e somiglianza di Dio da una relazione originaria con il Creatore, da cui discende l’apertura alla relazione con i propri simili (Gen 2,18).

Cos’è una relazione? Siamo abituati a considerarla il rapporto che ci collega ad altri, familiari, parenti, amici, partner, ecc., non la pensiamo mai come relazione con noi stessi.

Con cosa noi siamo in relazione? Con le nostre percezioni,  emozioni, sentimenti, ricordi, fantasie, idee anticipatorie di quel che sta per accadere. Inconsciamente  influiscono sulle nostre azioni, sugli atteggiamenti, che sono il risultato delle nostre esperienze, di come le abbiamo vissute, del significato che hanno assunto per noi.

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #3 il: Febbraio 06, 2015, 11:41:33 »
Le relazioni interpersonali sono parte integrante della vita quotidiana. Possono essere occasionali o più o meno profonde.
Il nostro modo di comunicare tramite le parole si chiama comunicazione verbale, ma comunichiamo anche con il linguaggio del corpo: la mimica facciale (sguardi, sorrisi, ammiccamenti, ecc.), la gestualità, la postura, manifestiamo alcune emozioni (es. la vergogna), gli stati d’animo.   

Rispetto ai segnali verbali i segnali non verbali possono essere congruenti ed incongruenti.
Congruenti quando la comunicazione non verbale supporta l’elemento verbale (ad esempio si dice si annuendo col capo).
Incongruenti quando la comunicazione non verbale è in contrasto con l’elemento verbale (ad esempio si afferma di non essere arrabbiati assumendo un tono che dice tutto il contrario).
Se i segnali verbali e quelli non verbali  sono tra loro incongruenti , sono indicativi quelli non verbali.

La comunicazione non verbale è  più ampia e veritiera di quella verbale, ma capire il messaggio non verbale dell’altro non è semplice, perché ognuno lo traduce secondo un modello acquisito all’interno della propria famiglia d’origine, e fatto proprio crescendo, oppure lo interpreta secondo il proprio stato d’animo in quel momento. 



       




« Ultima modifica: Febbraio 06, 2015, 15:20:15 da dottorstranamore »

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #4 il: Febbraio 09, 2015, 08:55:00 »
La comunicazione interpersonale ha due dimensioni distinte: il contenuto (ciò che le parole dicono, il loro significato) e la relazione (quello che i parlanti lasciano intendere con le parole e con i significati espressi dal corpo:  i gesti, la mimica facciale,  la postura, il tono della voce.

Il 93% dello scambio comunicativo vis a vis avviene attraverso la comunicazione non verbale tramite quattro componenti fondamentali: paralinguistico, cinesico, prossemico e aptico.

Il sistema paralinguistico  indica l’insieme dei suoni emessi nella comunicazione non verbale, indipendentemente dal significato delle parole. Le  accompagna come un canale comunicativo parallelo o interdipendente, ed è caratterizzato da vari elementi: tono,  intonazione, volume di voce, vocalizzazioni per la regolazione dell’avvicendarsi dei turni di parola.

Tono: è influenzato da fattori fisiologici (età, costituzione fisica), e dal contesto. In linguistica, il tono della voce  è caratterizzato dalla variazione (o meno) dell'altezza del suono di una sillaba. L’altezza tonale della voce dipende dalla frequenza delle vibrazioni delle corde vocali e determina la melodia del discorso.
Il suono vocale si dice alto, o acuto, oppure basso, o grave, se è prodotto da un numero elevato o scarso di vibrazioni. La produzione di un suono acuto aumenta la tensione delle corde vocali, invece per generare un suono grave le corde sono meno tese.
All'altezza del suono fa riferimento anche l'intonazione, che però  non si riferisce ad una singola sillaba ma alla modulazione di un intero enunciato.

Un altro importante tratto prosodico è dato dall'intensità, cioè dal volume di voce, che può essere alta o bassa; un aumento di volume può essere causato dalla collera.

Ritmo: si dà al discorso per conferire maggiore o minore autorevolezza alle parole pronunciate: parlare ad un ritmo lento, inserendo delle pause tra una frase e l'altra, dà un tono di solennità a ciò che si dice; al contrario parlare ad un ritmo elevato attribuisce poca importanza alle parole pronunciate.
Nell'analisi del ritmo nel sistema paralinguistico va considerata l'importanza delle pause, che vengono distinte in pause vuote e pause piene. Le pause vuote rappresentano il silenzio tra una frase e l'altra, quelle piene le tipiche interiezioni (come "mmm", "beh") prive di significato verbale, inserite tra una frase e l'altra.

Le variazioni della velocità di elocuzione, detta anche “tempo”, offrono un terzo parametro prosodico. Accelerando o rallentando la velocità con cui vengono prodotte le sillabe, si possono trasmettere significati diversi, a livello di emozioni (la velocità di elocuzione della collera è rapida, mentre quella della tristezza è tipicamente lenta), di attitudini (il tempo può darci qualche indizio circa la cortesia, l’impazienza, o l’insicurezza del locutore), ecc.

I tratti prosodici (l’altezza tonale, l’intensità, il tempo, il ritmo, le pause) compaiono spesso simultaneamente e si combinano fra di loro in vari modi, con interazioni complesse.

I tratti prosodici comunicano anche altre informazioni linguistiche: il modo di articolare i suoni di una lingua (le parole), la varietà linguistica del parlante (es. lingua straniera, lingua standard, varietà regionale,  dialetto), la qualità fonatoria (es. metallica, stridula, ecc.), il registro (il modo di parlare: in modo familiare, burocratico, ecc.), i  segnali che regolano i turni tra i parlanti: fanno capire quando si vuole intervenire nel dialogo, quando si finisce di dire, quando non si desidera essere interrotti, quando è opportuno che l'altro prenda la parola  con sguardi, movimenti del capo, innalzamenti del tono., ecc..

I tratti prosodici possono trasmettere pure le informazioni di carattere paralinguistico ed extralinguistico (emozioni, atteggiamento del parlante, e anche caratteristiche personali, quali l’età, il sesso, ecc.).

Il sistema cinesico comprende  gli atti comunicativi espressi dai movimenti del corpo, cioè l’insieme de i gesti, volontari e involontari,  per lo più legati alle emozioni.

Il termine cinesica  deriva dal greco kinesis e significa movimento.

Lo zoologo Desmond Morris considerò gesto qualunque azione capace di inviare un segnale visivo ad un osservatore e di comunicargli una qualsiasi informazione.

Falsificare il linguaggio del corpo è praticamente impossibile in quanto bisognerebbe avere la consapevolezza di tutti i muscoli del corpo in ogni singolo istante, per questo ci svela molto più di quanto non vorremmo rivelare su noi stessi. Un osservatore attento  può infatti notare la discordanza tra il linguaggio del corpo e le parole comunicate. 

Il contatto visivo tra due persone: gli sguardi,  i movimenti oculari, possono avere più significati: per esempio comunicare interesse per ciò che si ascolta oppure indicare aggressività, sfida. Una persona, in una situazione di disagio tende ad abbassare lo sguardo.

Mimica facciale. Non tutto ciò che viene comunicato tramite le espressioni del volto è sotto il proprio controllo, ad esempio arrossire per timidezza o vergogna. Ma la gran parte delle espressioni facciali sono volontarie ed adattabili alle circostanze. La diversa interpretazione delle espressioni facciali nelle varie culture è uno dei campi di studio più considerati nella storia delle scienze della comunicazione.
 
I gesti, come quelli compiuti con le mani. La gestualità manuale può essere una utile sottolineatura delle parole, e quindi rafforzarne il significato, ma anche fornire una chiave di lettura difforme dal significato del messaggio espresso verbalmente. Anche in questo senso va considerata la difformità interpretativa che le diverse culture danno ai vari gesti.

La postura. Gli elementi sociali e di contesto hanno grande importanza, talvolta identificando con precisione la posizione corretta da mantenere in una data circostanza (i militari sull'attenti di fronte ad un superiore), talvolta in maniera meno codificata ma comunque necessaria (una postura corretta e dignitosa di un alunno in classe di fronte al professore).

Il sistema prossemico e quello aptico sono dei sistemi di contatto; il primo concerne la percezione e l'uso dello spazio e della distanza nei confronti degli altri, il secondo fa riferimento all'insieme di azioni di contatto corporeo con l'altro.
La prossemica è la disciplina semiologica che studia i gesti, il comportamento, lo spazio e le distanze durante la comunicazione verbale e non verbale.
Il termine “prossemica” deriva dall'inglese prox(imity) (= prossimità), fu ideato nel 1963 dall’antropologo statunitense Edward Twitchell  Hall  per indicare le relazioni di vicinanza nella comunicazione interpersonale.

Nel suo studio, egli individuò quattro distanze, che delimitano altrettante "zone", di comunicazione:
1.   la zona intima, tra 0 e 45 cm;
2.   la zona personale, tra 45 e 120 cm;
3.   la zona sociale, tra 120 e 350 cm;
4.   la zona pubblica, oltre i 350 cm.

La zona intima è quella riservata senza disagio al/la partner o ad alcuni familiari. L’ingresso in quest’area di altre persone viene percepito con disagio, variabile a seconda del soggetto. Come conferma di questo basti pensare alla situazione di imbarazzo che si prova quando siamo costretti ad ammettere nella nostra zona intima soggetti estranei, ad esempio in ascensore o sull'autobus, e si tende all’irrigidimento, a non incrociare lo sguardo con le altre persone.

La zona personale: vi sono ammessi familiari meno stretti, amici, colleghi. In questa zona si possono svolgere comunicazioni informali, il volume della voce può essere mantenuto basso e la distanza è comunque sufficientemente limitata da consentire di cogliere nel dettaglio espressioni e movimenti degli interlocutori.

La zona sociale è quell'area in cui svolgiamo tutte le attività che prevedono interazione con persone sconosciute o poco conosciute. A questa distanza (da 1 a 3 o 4 metri) è possibile cogliere interamente o quasi la figura dell'interlocutore, cosa che ci permette di controllarlo per capire meglio le sue intenzioni. È anche la zona nella quale si svolgono gli incontri di tipo formale, ad esempio un incontro di affari.

La zona pubblica è quella delle occasioni ufficiali: un comizio, una conferenza, una lezione universitaria. In questo caso la distanza tra chi parla e chi ascolta è relativamente elevata e generalmente codificata. È caratterizzata da una forte asimmetria tra i partecipanti alla comunicazione: generalmente una sola persona parla, mentre tutte le altre ascoltano.

Il sistema aptico. L’aggettivo aptico deriva dal greco “apto” e significa  tatto. 
L’aptica concerne le azioni di contatto corporeo tramite messaggi comunicativi durante l’interazione: la stretta di mano, il bacio sulle guance, l’abbraccio. Il toccare l'altro è un atto comunicativo che influenza la natura e la qualità della relazione e che esprime diversi atteggiamenti interpersonali.

Il contatto corporeo ha molteplici effetti: una persona che tocca è ritenuta cordiale, disponibile ed estroversa; al contrario, il contatto corporeo può suscitare reazioni negative di fastidio e di irritazione. Nei rapporti amorosi il contatto invia messaggi di affetto, coinvolgimento e attrazione sessuale.

« Ultima modifica: Febbraio 11, 2015, 19:11:59 da dottorstranamore »

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #5 il: Febbraio 12, 2015, 05:51:31 »
Con il dialogo interpersonale trasmettiamo il messaggio ma anche lo stato emotivo, l’intenzione con cui ci rapportiamo all’altro/a.

I meccanismi psicologici dai quali scaturisce la comunicazione non verbale sono simili in tutte le culture, ma ogni cultura tende a rielaborare in maniera differente i messaggi non verbali. Ciò vuol dire che forme di comunicazione non verbale comprensibili alle persone appartenenti ad una determinata cultura, possono invece essere incomprensibili per chi ha un altro retaggio culturale, o  avere un significato opposto a quello che s’intende trasmettere.

Durante un colloquio i movimenti che facciamo con il viso o con il resto del corpo possono rivelare insicurezza anche se  con il parlato si vuol mostrare sicurezza. Veniamo “traditi” dalle emozioni e manifestiamo il contrasto tra la comunicazione verbale e la comunicazione non verbale.

La comunicazione non verbale comprende anche l’abbigliamento ed il look.  Ciò che indossiamo invia messaggi  agli interlocutori.  Gli abiti possono dare informazioni sulla personalità di un soggetto, anche se l’individuo con l’abbigliamento può dare sia l’immagine che ha di se stesso sia l’immagine che di sé vuole presentare agli altri.



Il sociologo canadese Erving Goffman (1922 – 1982) nel suo libro  “La vita quotidiana come rappresentazione”  (e in quelli successivi “Relazioni in pubblico”  “Incontri, Comportamento in pubblico” , “Il rituale dell’interazione”)  afferma che le persone manipolano le impressioni che desiderano suscitare sugli altri tramite un modo intenzionale di presentarsi, che assume quasi la forma di una rappresentazione teatrale, nell’ambito della quale l’aspetto esteriore ha un ruolo fondamentale.

La maggior parte delle persone formula giudizi sulle persone in base alla prima impressione, alle espressioni non verbali, da ciò che è maggiormente evidente: l’aspetto esteriore. Nei primi dieci secondi si creano un pregiudizio sull’interlocutore che non conoscono guardando il suo modo di vestire, la sua forma corporea, i tratti del viso, la mimica facciale, la postura, la gestualità, il lessico. L’impressione che se ne riceve orienta il prosieguo della comunicazione. 

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #6 il: Febbraio 13, 2015, 08:43:41 »
Della prossemica si occupa la semiologia e la psicologia della comunicazione. Le due discipline indagano il significato che assume la distanza spaziale nei rapporti interpersonali, perché lo spazio tra noi e gli altri non è neutro. Le reazioni sono diverse quando ci avvicina o ci avviciniamo ad un uomo o ad una donna, ad un conoscente o ad un estraneo, ad un amico o al/la partner, dalla parte davanti, di lato o da dietro.

Se una persona ci si avvicina troppo cominciamo a provare fastidio, imbarazzo, modifichiamo la postura, e  inconsapevolmente reagiamo per ripristinare le “giuste” distanze con l’allontanamento oppure con l’aggressività.

In Italia lo “spazio personale” è, ad esempio, inferiore a quello inglese e può provocare  fraintendimenti: se un italiano si avvicina “troppo” a un inglese, questi tende a indietreggiare per evitare l’intrusione nel suo spazio personale ma l’italiano può percepire l’allontanamento come avversione o rifiuto nei suoi confronti.

Anche gli animali vivono in una sorta di bolla virtuale che rappresenta la loro distanza di sicurezza, che consente di difendersi da un attacco o di iniziare una fuga. Negli uomini, essa è di circa 60 cm., cioè la distanza del braccio teso.

Lo “spazio psicologico” che ci avvolge e ci separa  dagli altri è denominato “spazio prossemico” oppure “bolla psicologica”, che è innata, istintiva, animalesca, ma  condizionata dall’ambiente socioculturale in cui vive l’individuo, perciò è variabile.

Nell’ambito della prossemica è  anche interessante la “prossemica dell' ascensore”.  Infatti ci sono differenze culturali nella gestione dell’esiguo spazio in ascensore, che può causare disagio se si è costretti a stare troppo vicini a persone sconosciute.
Gli europei in ascensore di solito si pongono in formazione circolare, o negli angoli, con le spalle verso le pareti, quasi tutti posizionati di sbieco verso la porta, con lo sguardo rivolto in basso o in alto, oppure guardano il telefonino o un punto dell’ascensore.

Invece gli americani si pongono in fila con la faccia rivolta alla porta. Nei  cosiddetti “film americani” si può notare che le persone guardano tutte nella stessa direzione, verso la porta, con le spalle parallele alla parete posteriore, in modo da evitare di guardarsi. 



Lee Gray, della University of North Carolina, ha compiuto delle ricerche sulle inquietudini di coloro che salgono in ascensore: c’è chi soffre claustrofobia  e chi viene coinvolto dall’ansia che deriva dalla violazione del proprio spazio vitale.
Per questo motivo, le persone che entrano man mano in un’ascensore si dispongono in modo tale da “mantenere le distanze”, tengono gli occhi bassi e guardano l’orologio o il telefonino, senza dire una parola.

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #7 il: Febbraio 14, 2015, 07:07:51 »
La comunicazione umana è multimodale: gli individui usano  più repertori comunicativi nel dialogo vis a vis.

La comunicazione orale viene completata da quella non verbale, anche se di ciò il parlante non ha piena consapevolezza.

I segnali corporei utilizzati per esprimere amicizia sono il frequente sguardo reciproco, il sorriso, la vicinanza corporea, maggiore contatto fisico. 

Invece per manifestare atteggiamenti e comportamenti di dominanza vengono utilizzati diversi segnali verbali e non verbali, a seconda  della situazione. Segnali di dominanza sono: lo sguardo diretto verso l’interlocutore, tono di voce grave. Le ricerche evidenziano che le persone che hanno più potere, segnalano la loro superiorità guardando più frequentemente mentre parlano e relativamente poco mentre ascoltano. Al contrario, le persone in posizione subordinata guardano di più mentre ascoltano con attenzione.

Il viso esprime maggiormente le emozioni endogene. Durante l’interazione si può notare sul volto degli interlocutori un flusso continuo di espressioni che trasmettono messaggi. La persona che parla con le espressioni facciali evidenzia o modifica il messaggio verbale; l’individuo che ascolta manifesta le sue reazioni con cenni del capo, i  movimenti della fronte, delle sopracciglia, delle labbra e dei muscoli facciali. Spesso l’inarcamento delle sopracciglia è accompagnato dalla dilatazione delle pupille e all’apertura della bocca, segnalando espressioni di paura o di sorpresa.
 
Espressioni del volto, sguardi, postura, gesti, vocalizzazioni, variazioni del tono della voce, le pause, chiariscono il significato di ciò che si dice e costituiscono contemporaneamente un commento da parte di chi ascolta. Invece l’uso di segnali di significato opposto, come distogliere lo sguardo, scrollare le spalle, scuotere il capo rivelano disaccordo o disinteresse da parte dell’interlocutore.

Uno sguardo, un cenno del capo o un gesto, possono segnalare la fine di un discorso. Al contrario, un tono di voce più alto può segnalare l’intenzione di continuare a parlare. L’uso di brevi pause, i movimenti della mano o del capo, il battito delle ciglia possono servire ad enfatizzare il discorso, mentre sorrisi, cenni del capo, espressioni facciali da parte di chi ascolta, forniscono informazioni su quanto viene comunicato, rivelando la comprensione, l’interesse e l’approvazione di chi ascolta.

La necessità di guardare l’interlocutore negli occhi dimostra l’importanza che ha lo sguardo nella comunicazione interpersonale. 
Gli elementi che costituiscono uno sguardo possono essere di tipo fisiologico ed involontario (battere le palpebre o dilatare le pupille), oppure consapevolmente mirati, come le espressioni degli occhi ed il loro movimento.

Uno sguardo può provocare reazioni diverse in chi lo riceve: essere guardati a lungo può essere gratificante perché segnala interesse, simpatia, attrazione, ma può anche provocare disagio e ansia: se fissata a lungo ed in modo diretto una persona può sentirsi minacciata. Nelle diverse culture esistono regole ben precise al riguardo: in Giappone, per esempio, si insegna alle donne ad evitare lo sguardo diretto dirigendo lo stesso sul collo dell’altro.

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #8 il: Febbraio 15, 2015, 07:35:44 »
La parola “comunicare” deriva dal verbo in lingua latina“communicare”, usato col significato di “mettere in comune”. Dal predetto verbo  discende l’aggettivo latino “communis”, composto dalla preposizione com- (cum = con) e dall’aggettivo munis (= legare, collegare).

In italiano il termine “comunicare” viene utilizzato con significati diversi a seconda del contesto. 
 
Il sostantivo femminile “comunicazióne” deriva dal latino “communicatio –onis” . La terminazione in “atio” denota i nomi astratti di azione. Infatti nell’antichità veniva utilizzato per indicare la ‘trasmissione di una qualità, un’energia, un movimento’, poi venne ampliato di significato e designò l’azione  di comunicare un pensiero, un sentimento.  Nell’”Epistulae ad Atticum” (1, 17 – 6) Marco Tullio Cicerone così si confida: "Sermonis communicatio mihi suavissima tecum solet esse".

Nel nostro tempo il termine “comunicazione” viene usato col significato di comunicare ad altri qualsiasi informazione o notizia.

Generalmente si distinguono diversi elementi che concorrono a realizzare un singolo atto comunicativo:
 
Emittente: è la persona che avvia la comunicazione attraverso un messaggio.

Ricevente: accoglie il messaggio, lo decodifica, lo interpreta e lo comprende.

Codice: parola parlata o scritta, immagine, tono impiegato per "formare" il messaggio.

Canale: il mezzo di propagazione fisica del codice (onde sonore o elettromagnetiche, scrittura, bit elettronici).

Contesto: l'"ambiente" significativo all'interno del quale si situa l'atto comunicativo.

Referente: l'oggetto della comunicazione, a cui si riferisce il messaggio.

Messaggio: è ciò che si comunica e il modo in cui lo si fa.
 
La comunicazione è un’attività sociale, relazionale e cognitiva. La conversazione come azione sociale è governata da regole implicitamente riconosciute dai partecipanti. Quindi  è un’attività congiunta e coordinata. Oltre alle abilità di linguaggio è necessaria   la competenza performativa (saper usare il linguaggio),  saper riconoscere le norme specifiche al contesto che regolano le espressioni verbali e non verbali, saper riconoscere le regole che governano l’interazione (presa di parola, aspettative di ruolo).

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #9 il: Febbraio 16, 2015, 06:18:17 »
La comunicazione ha il significato semantico di rendere noto, ed  è una delle attività base della vita, come mangiare e dormire. Anche quando non usiamo le parole comunichiamo perfino con il silenzio.

Ma il messaggio trasmesso può essere capito in modi diversi. Infatti la ricezione non implica automaticamente la sua corretta interpretazione. Una frase può avere un significato denotativo (ad es. “è un asino”nel senso che indica l’animale) ed un significato a livello profondo: “è un asino” nel senso di “è poco intelligente” riferito ad una persona. La decodifica del messaggio dipende  anche dal contesto, dalle aspettative,dalla personalità del ricevente. L’errata decodifica da parte del destinatario è detta “decodifica aberrante”.

La comunicazione è un’azione sociale di tipo relazionale, di relazione con gli altri, ma anche con se stessi. Infatti siamo in relazione con  le nostre percezioni,  emozioni, sentimenti, ricordi, fantasie.  Inconsciamente  influiscono sulle nostre azioni, sugli atteggiamenti e sui comportamenti,  interagiscono con gli stimoli esterni e danno vita a un discorso interiore che si rinnova e forma l’autocoscienza.

Nel rapporto di coppia la mancanza di un equilibrato scambio di opinioni è tra le maggiori cause di dissidio. Ipercriticismo, ambiguità, disconferme, l'elusione di problemi, rendono la comunicazione disfunzionale.

La conversazione può influenzare positivamente la relazione oppure creare incomprensioni, opinioni dissonanti, pregiudizi, reciproco ascolto disattento, risonanze negative suscitate da frasi non meditate. Le parole, infatti, possono essere lievi come il volo di una farfalla oppure pesanti come un macigno, possono essere farmaco ma anche veleno.

La comunicazione interpersonale è un’arte sociale che va sviluppata assieme ad altre persone, in un circolo virtuoso di reciproci rimandi,  è confronto di conoscenze ed opinioni, è reciproco ascolto, ma spesso tendiamo a parlare e a non ascoltare.

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #10 il: Febbraio 17, 2015, 13:15:06 »
L’ascolto nella comunicazione interpersonale. In italiano il sostantivo “ascolto” deriva dal verbo “ascoltare” e questo dal latino  “auscultare”,  collegato ad “auricula”, diminuitivo di “auris”, che significa orecchio.

Ascoltare una persona che parla significa starla ad udire. Ascoltare per comprendere ma anche per farsi capire, in reciproca cooperazione dialogica.

La capacità di ascolto permette d’instaurare soddisfacenti relazioni interpersonali. Ne sono esempi i cosiddetti “punti di ascolto” organizzati  dalla “Caritas” per  chi ha problemi economico-sociali. Gli operatori si pongono in ascolto empatico, al fine di cercare le possibili soluzioni.
 
Anche lo psicoterapeuta deve saper ascoltare i problemi  del paziente, però questo  deve mettere in pratica i consigli che riceve  dallo psicologo, se ha fiducia in lui. Deve “obbedirgli”.
Il verbo obbedire deriva dal latino “oboedire”, composto da “ob” (= davanti) e da “audire” (= ascoltare): significa ascoltare la persona che ci sta davanti, ma anche eseguire un ordine.

Sigmund Freud,  creatore della psicoanalisi,  dette grande importanza all’ascolto del paziente e all’interpretazione del suo inconscio.

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #11 il: Febbraio 19, 2015, 09:11:02 »
Nell’interazione comunicativa c’è il  reciproco influenzamento tra le persone attraverso il linguaggio, nei suoi aspetti verbali e non verbali. Il  feedback linguistico, inteso in questo caso come “risposta ad uno stimolo”, è un processo con evidenti caratteristiche di reciprocità: le informazioni inviate dall’emittente al ricevente producono in questo delle reazioni o risposte verso l'emittente (retroazione). 

Ci  sono alcuni fattori che condizionano la ricezione del  messaggio.

Il sociologo Mauro Wolf (1947 – 1996) nel suo libro titolato “Teorie delle comunicazioni di massa” ne sintetizza quattro:

Il primo fattore  è l’interesse ad acquisire informazioni. Se una persona  non è attratta da un determinato argomento il risultato è insignificante. Le persone non informate su un tema, inoltre, tendono ad ignorarlo, anche se è possibile suscitare interesse su una particolare questione insistendo su di essa in maniera massiccia.

Il secondo fattore è l’esposizione selettiva. Le persone tendono ad ascoltare maggiormente i messaggi che a loro interessano. Il destinatario si espone di più alle opinioni ed alle idee che condivide.

Il terzo fattore è quello della percezione selettiva. L’ascoltatore non percepisce il messaggio per quello che è ma tende ad assimilarlo  alle sue convinzioni. Per conseguenza l’interpretazione può   modificare  il contenuto di un messaggio.

Il quarto ed ultimo fattore è la memorizzazione selettiva. I contenuti dei messaggi percepiti come coerenti con le proprie idee vengono memorizzati più facilmente e più a lungo nel tempo.

Wolf elenca anche tre elementi relativi al messaggio stesso che ne condizionano l’interpretazione.

Il primo è la credibilità del comunicatore: se questo è considerato poco credibile non persuade l'ascoltatore.
 
Il secondo è collegato alle argomentazioni. C’è chi sostiene che la parte importante di un argomento possa avere maggiore effetto sull'ascoltatore se esposta nella fase iniziale (effetto primacy); altri, invece, sostengono che l’effetto recency, cioè gli argomenti esposti in chiusura, siano maggiormente incisivi. Le ricerche in merito sono discordanti perché condizionate da numerose variabili.

Il terzo ed ultimo elemento è la  chiarezza espositiva e la completezza delle argomentazioni. 
« Ultima modifica: Febbraio 19, 2015, 09:16:45 da dottorstranamore »

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #12 il: Febbraio 20, 2015, 10:10:02 »
Competenza linguistica e competenza comunicativa.

Le competenze linguistico-comunicative sono costituite dall’insieme di conoscenze, abilità e caratteristiche  che permettono di compiere gli atti comunicativi. 

Nell’ambito della linguistica per competenza s’intende la conoscenza da parte del parlante dell'insieme di regole che governano la sua lingua. Regole, in particolare grammaticali, che gli permettono di comprendere e produrre un numero teoricamente illimitato di frasi.

La nozione di “competenza linguistica” fu definita nel 1965 dal linguista e teorico della comunicazione Noam Chomsky,  per indicare “la conoscenza che il parlante/ascoltatore ha della propria lingua”, in quanto sistema di regole formali: riguarda la competenza fonologica, ortografica, lessicale, morfosintattica, semantica. Fa riferimento alla capacità dell’individuo di discriminare e scegliere gli elementi linguistici più opportuni per realizzare le diverse intenzioni comunicative”

La nozione chomskiana di “competenza linguistica” fu poi ampliato nel 1966 dallo statunitense Dell Hymes (1927 – 2009) con la nozione di “competenza comunicativa”, riferita all’abilità del parlante di usare il proprio codice linguistico nel modo più appropriato al contesto comunicativo. Una persona è dotata di competenza comunicativa se è  capace di scegliere quando parlare, quando tacere,  di che cosa deve parlare, a chi, quando, dove, in che modo. Dipende dall’evento comunicativo.

Secondo l’antropologo e sociolinguista Hymes la competenza comunicativa è formata da quattro componenti:

competenza grammaticale: è data dalla conoscenza del codice linguistico ed include le regole morfosintattiche, il lessico e la pronuncia;

competenza sociolinguistica: riguarda la selezione delle forme linguistiche adatte ad un determinato contesto e un determinato scopo. Significa avere la capacità di adeguare il proprio codice linguistico o le varietà di lingua  alle diverse situazioni comunicative;

competenza discorsiva:è l’abilità che permette di scegliere forme e significati utili ad organizzare coerentemente un testo o un messaggio.
La “competenza discorsiva” è un ramo della competenza pragmatica, che comprende anche la competenza funzionale;

competenza strategica: è compensatoria, viene attivata dai parlanti  per risolvere un problema comunicativo quando non conoscono alcune regole proprie di una lingua. Nell’interazione orale sono le strategie utilizzate dagli interlocutori  per far fronte ai problemi di comprensione causati dalla limitata competenza linguistica e socioculturale; uso del linguaggio verbale, paraverbale e non verbale per rendere efficace la comunicazione.

Il concetto proposto da Dell Hymes può dunque essere interpretato come l’integrazione di diverse competenze, alcune delle quali cominciano a svilupparsi alla nascita del bambino: questo impara a comunicare tramite espressioni, gesti e vocalizzi, poi apprende il codice linguistico parlato dalla madre, per esempio la lingua italiana. 
 
La comunicazione preverbale è considerata come fondamento dello sviluppo linguistico nell'età prescolare e scolare. Infatti, a 4-5 anni i bambini hanno in gran parte acquisito gli elementi di base della lingua, fonologici, lessicali e sintattici, ma devono ancora imparare a usare il linguaggio con le abilità richieste per produrre frasi o  riferirsi ad oggetti ed eventi, padroneggiare gli usi non letterali del linguaggio, capire il non detto.

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #13 il: Febbraio 23, 2015, 09:32:55 »
Nella  nostra vita il linguaggio ha un ruolo determinante. Parlando ci serviamo della lingua, di un codice linguistico,  per metterci in contatto con gli altri. La comunicazione interpersonale implica un impegno, impone un comportamento, ha un aspetto informativo, di contenuto, e un aspetto di relazione.

Le relazioni tra messaggi o codici linguistici e chi li usa vengono studiate dalla pragmatica: lemma  che deriva da quello omonimo in lingua latina e questo dal greco “pragmatiké”, con riferimento alla trattazione degli affari (pragma = affare); in linguistica indica il settore che si occupa del rapporto fra i segni e gli utenti in un contesto.

Fu il semiologo e filosofo statunitense Charles William Morris (1901 – 1979) a distinguere la pragmatica come ramo a sé,  diversa dalla sintattica e dalla semantica, nel suo saggio pubblicato nel 1938 “Lineamenti di una teoria dei segni” e nel successivo “Segni linguaggio e comportamento”  pubblicato nel 1946.

Secondo Morris e poi altri,  la comunicazione può essere suddivisa in tre sottosettori: sintassi, semantica e pragmatica. Il primo comprende le problematiche legate alla codifica e alla decodifica dell’informazione;  il secondo si occupa del significato degli elementi della comunicazione (le parole); il terzo, quello pragmatico, si occupa degli effetti della comunicazione sui parlanti, cioè  l’influenza che questa esercita sul loro comportamento, come il contesto influisce sull'interpretazione dei significati. In questo caso, per "contesto" si intende l'insieme dei fattori extralinguistici (sociale, ambientale e psicologico) che influenzano gli atti linguistici o enunciati: questi sono sequenze di suoni con contenuto linguistico (fonemi) organizzate in parole e frasi  che vengono dette durante la conversazione.

Alla "teoria degli atti linguistici" del filosofo e linguista inglese John Langshaw Austin (1911 - 1960) descritta nel suo saggio "Come fare cose con le parole", è collegata la "competenza pragmatica", intesa come capacità di utilizzazione delle informazioni extralinguistiche da parte del parlante, il sistema di conoscenze posseduto da un parlante per l'uso contestualmente appropriato ed efficace di una lingua.

La competenza pragmatica comprende la competenza discorsiva e la competenza funzionale.    

Le singole parole le disponiamo in sequenze ordinate e formano la frase, che è una combinazione di parole governata da regole e la sintassi studia queste regole. Quando si fa l'analisi logica di una frase, e si distinguono il soggetto, i complementi e i predicati, si stabilisce quali sono gli elementi costituenti della frase. Fra le parole i costituenti sono delle unità intermedie, dette sintagmi.   

La parola sintagma  deriva dal greco sýntagma (= ‘unione ordinata’) e questo da syntássein (= ‘disporre secondo un ordine’).
Il sintagma è considerato un’unità della struttura sintattica di un enunciato.

Gli studi di Morris furono approfonditi dallo psicologo e filosofo austriaco (naturalizzato statunitense) Paul Watzlawick, con la collaborazione di Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson, I risultati delle loro ricerche li pubblicarono nel 1967 nel libro  "Pragmatica della comunicazione umana”.












« Ultima modifica: Febbraio 24, 2015, 15:02:26 da dottorstranamore »

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Re:Il volto e la maschera
« Risposta #14 il: Febbraio 26, 2015, 06:57:33 »
La comunicazione verbale ha una funzione sociale, consente anche il dialogo fra due o più  persone.

Il dialogo è collaborativo serve per capire e farsi capire dall’interlocutore, ed è differente dal dibattito, basato sul confronto per difendere la propria opinione, la propria ipotesi, anche quando la ragione sta dalla parte dell'avversario.

Col dialogo si cerca l’ accordo, invece nel dibattito si cerca di far emergere le differenze. Il dialogo è basato sull’ascolto dell’altro  per un’intesa condivisa, invece  nel dibattito si ascolta l’altro per percepire errori, per respingere i suoi argomenti,  per criticarli, l’obiettivo è vincere.
 
Durante il dialogo è importante l’assertività, la capacità di esprimere le proprie opinioni, senza offendere o aggredire verbalmente l’interlocutore. La persona assertiva non prevarica, ammette quando sbaglia, accetta la critica e sa criticare in modo costruttivo.
 
E’ importante che gli interlocutori condividano il significato delle parole. Se si parla di  cose od oggetti materiali (albero, mela, foglie,....) la conversazione volge su dati reali e la decodifica non è complicata,  se invece il colloquio verte su temi astratti come l’amore, ci possono essere equivoci.  Con la parola amore si possono intendere sentimenti ed atteggiamenti differenti,  dall’affetto al desiderio sessuale, ed altro. E’ quindi necessario evitare la confusione che può trasformare il dialogo in due monologhi, in enunciati apofantici, in costruzioni mentali personali.

Più ci si sposta dai concetti materiali a quelli astratti più diventa complicata la comunicazione,  perché entrano in gioco segni e significati all'interno di metafore ed allegorie: per esempio, la mela come frutto del melo, la mela di Guglielmo Tell, la mela di Eva, la mela di Newton. Si creano contesti con più significati e quindi ambiguità che possono portare ad incomprensioni.

Lo scrittore  e poeta Eugenio Montale il 10 luglio 1923 scrisse: 

“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.


Questo componimento titolato “Non chiederci la parola” è nella raccolta poetica “Ossi di seppia”, pubblicata nel 1925.