C’e stata un’epoca in cui la creatività è andata di pari passo con l’alterazione sensoriale. Penso alla Parigi di fine ‘800 e ai numerosi artisti che si rifugiavano nelle sue braccia profumate di oppio, hashish, assenzio. Baudlaire prendeva hashish la mattina a digiuno sciolto nel caffè e Rimbaud e Verlaine si stordivano con la “Fata Verde”. Pittori come Modigliani, Sisley, Utrillo e anche Picasso, godevano di tutte le libertà che la vita bohemienne consentiva loro. Van Gogh e Toulouse Lautrec annegavano le malattie in un mare di sostanze disparate fra cui il laudano che spopolava soprattutto fra le signore. Alexandre Dumas, amante dei derivati del papavero, aveva approntato una redazione di oppiomani coi quali scriveva feuilleton. La buona società chiamava”maudit” il gruppo dei poeti ( Modigliani divenne Modì), estendendo poi l’accezione anche ai pittori, ma di fatto guardava con curiosità il fenomeno, come una nuova moda di cui parlare nei salotti e, casomai, da seguire.
Anche molti Inglesi, che godevano dell’importazione diretta dall’India coloniale, avevano libero accesso all’oppio. Lord Byron e Shelley, due fra i tanti. Coleridge, o De Quincey che risollevò la sua disastrata condizione economica con i proventi di “Confessioni di un mangiatore di oppio”. Conan Doyle, spesso indugia sul vizietto di Sherlock Holmes che assume coca a fasi alterne.. Il nostro vate, D’Annunzio, in confronto era un principiante, troppo erotomane per cedere ai neurodepressivi, magari un po’ di coca per rinvigorirsi, ma senza le vette di gioia e gli abissi di dolore che caratterizzarono i Francesi
La psicoanalisi nacque forse dal tentativo di Freud di liberarsi dalla dipendenza di cocaina, sintetizzata nel 1865 e molto diffusa fra i medici di area tedesca che, con la scusa di sperimentarla come anestetico, erano ben contenti di farlo su se stessi. Quando fu scoperta l’eroina ci fu un fiorire di set “da viaggio”, molti dei quali in materiali preziosi, a testimonianza di un fenomeno di élite.
Oltreoceano gli scrittori si davano perlopiù all’alcol. Hemingway, Fitzgerald, Poe e poi Capote, Bukowsky e Kerouac, solo pochi esempi fra coloro che all’inizio del’900 si sfasciavano di Bourbon.
Furono però i musicisti i più accaniti consumatori di sostanze proibite. Negli anni ’40 quasi tutti i jazzisti di colore, Charlie Parker, Mingus, John Coltraine a facevano uso di eroina, come se tutto il dolore della negritudine potesse essere placato dal suo uso smodato. Erano i primi decenni dopo l’abolizione della schiavitù, in tutto il Sud imperversava il Ku Kux Klan, e ci si scontrava con la difficoltà dell’integrazione. L’eroina prese talmente piede che, indipendentemente dal sesso, non c’era un artista nero che ne fosse rimasto indenne. La triste storia della signora del Jazz, Billy Holiday, vale per tutte; violentata adolescente, costretta ai lavori più umili, prostituta per necessità, riuscì a sfondare grazie alla sua voce meravigliosa che, resa roca dalla sostanza, raggiungeva vette altissime di pathos. Morì giovane di epatite fulminante.
Da qui partì la beat generation, Kerouac, Corso, Ferlinghetti, Ginsberg si ispirarono e, per un periodo, si fusero col jazz; colsero il disagio di una generazione che mal si adattava alle regole del potere, e aprirono il varco al movimento che abbracciava tutte le arti ed era un po’ comunista, pacifista, anarchico. E drugs addicted. La letteratura e la pittura prima, ma soprattutto la musica poi, magnificavano il vivere on the road, senza troppi perché. Libertà sessuale, il rifiuto della mentalità perbenista e della guerra, l’opposizione al proibizionismo e l’uso di ogni droga furono le caratteristiche del pensiero hippie.
Non si può parlare di tutti i musicisti, scrittori poeti e pittori che morirono di overdose o col fegato spappolato, non basterebbe un trattato; ma si possono dividere per esempio gli eroinomani dai consumatori di LSD. Tristi e introspettivi i primi, visionari i secondi. Due nomi: Janis Joplin, Jefferson Airplane.
Ho letto tanti anni fa in un’intervista su un magazine, Federico Fellini che dichiarava di aver inventato e disegnato alcuni dei suoi personaggi, sotto l’effetto di Acido Lisergico, bevuto in forma liquida, d’accordo col suo medico e amico. I disegni a colori della carta patinata rimandavano in effetti a vere e proprie allucinazioni; la tabaccaia di Amarcord aveva le tette come due mongolfiere, e la Gradisca un culo grande“quant’a Porta Capuana” come si dice a Napoli. Le sue ossessioni erotiche si liberavano. Lisergiche.
Possiamo quindi affermare che la creatività necessiti del dolore che provoca la dipendenza? O che si nutra delle visioni del laudano o dell’lsd? O degli eccessi alcolici, dell’inebetimento charas- india-guru, o dello stupefacente accostamento peyote-stregone-mexico? Siamo sicuri che Hemingway o Jimi Hendrix o la Pop art al completo non avrebbero prodotto di meglio senza la spinta dell’alterazione sensoriale?
A me piace ricordare il sempre poco compianto Frank Zappa, il più grande musicista del ‘900, la cui musica è ingovernabile e inclassificabile. Uno stakanovista della creatività, una produzione che spazia dal blues alla sperimentazione, un genio della chitarra attento all’ironia dei testi, sempre contro il potere e la morale corrente. Ho assistito ben tre volte alle sue impeccabili performances, e per tre volte sono rimasta sopraffatta dalla presenza teatrale e dal genio creativo. Sul palco diventava direttore d’orchestra, musicista, scenografo, attore e cantante dalla voce di baritono. Zappa non tollerava che i suoi musicisti non fossero del tutto presenti, neanche la cannetta sciogli tensione prima del concerto, lui era contro, punto.
Non oso immaginarlo sul palco a indugiare sulle note della chitarra, svisando sugli accordi tipo Hendrix, né cantare testi dolorosamente poetici alla Morrison, reggendosi a stento in piedi. Lui è stato la fine di quell’epoca e la testimonianza più attendibile che il binomio arte-droga era stato uno stereotipo col quale la buona società aveva trovato comodo ingabbiare, nel corso di più di un secolo, gli artisti on the boarder.