Aspettavo l’inizio della scuola come un ingresso nell’adultità, finalmente sarei diventata grande. Ero semplicemente felice, forse perché non sapevo che sarebbe stata una condanna d’anni, senza amnistia e senza sconti.
Credo di essermi alzata all’alba, piena d’emozioni; costrinsi mia madre a farmi le treccine con il nastro bianco a pallini blu. Il grembiulino bianco era la divisa ufficiale di questa mia nuova condizione di maturità, stirato a dovere e lungo quasi fino ai piedi. Mia madre faceva per il vestiario piani quinquennali per risparmiare; in realtà io crescevo a ritmi molto lenti e quel grembiule rischiava di essere portato sino all’università. Non accadde semplicemente perché non ci andai.
Arrivammo davanti alla scuola, che era più o meno davanti a casa mia, con un umore esaltato e quasi patriottico. Una decina di scalini mi avrebbe portata alla porta magica della nuova avventura. Li salii con devozione, poi mi girai a salutare l’ultimo brandello di familiarità e fanciullezza che mi divideva dalla nuova vita. Lo ammetto, la mia vena melodrammatica è sempre stata presente. Misi la mano su quel maniglione, spinsi la porta e mi colse il terrore dell’ignoto. Un bidello mi afferrò per il braccio e mi trascinò dentro. Cominciai a scalciare e urlare insulti, ma lui non mi mollò, mi ritrovai nel cortile interno della scuola, insieme a mille altre bambine inamidate e terrorizzate. Allora non conoscevo i campi di concentramento, ma di sicuro per me fu la stessa cosa. Mura perimetrali alte e chiuse non offrivano via di fuga, non conoscevo nessuno e per la prima volta, ma non l’ultima, capii cosa significa sentirsi soli al mondo. Soli in mezzo ad una moltitudine. Imparai anche ad adattarmi e cercare di sopravvivere. Frugai nella tasca del grembiulino e scovai una caramellina. La strinsi nella mano e cercai chi potesse essere disperata come me. Vidi una bimbetta piccola, capelli castani, occhi vispi ma spauriti. Mi avvicinai, e le chiesi se per una caramella fosse disposta ad essere mia amica per tutto l’anno. Lei ovviamente accettò, mangiò la caramellina e sparì. Non la rividi più, ma mi ero consolata, sapevo che in quella moltitudine avevo un’amica.
Fu la prima e unica volta che mia madre mi accompagnò a scuola. Mai venne a riprendermi all’uscita e se non fosse stata per la mia maestra che mi faceva attraversare la strada, forse sarei finita sotto il tram n. 27, a duecento metri da Piazza Loreto, che allora per me era solo una piazza come un’altra, non quella della storia.
Per tutti i cinque anni delle elementari ho aspettato di vedere se mia madre era ad attendermi all’uscita, lei non venne mai e ancora oggi mi domando perché non le chiesi di farlo. La sensazione di dover camminare sulle mie gambe non era più una sensazione, ma la realtà e forse non tutto viene per nuocere, ho imparato a cadere in piedi. Di sicuro la sensazione d’abbandono è sempre stata presente, tutte le bambine avevano una mamma, io no, semplicemente a lei non interessava fare quello che fanno tutte le mamme.
Alle scuole medie non andò meglio, la scuola era sempre la stessa, ma entravo da un altro lato. Ricordo benissimo che quando mi girava storto, parlavo con quella scuola, in fin dei conti l’avevo vista nascere, infatti la precedente era stata bombardata in tempo di guerra e mia madre mi raccontava con dovizia di particolari che un momento prima era lì, con un soldatino davanti di guardia. Il momento dopo non c’era più né scuola, né soldatino, che giaceva più sbriciolato di un mattone. Mia madre si rendeva conto di cosa diceva ad una bimbetta?
Ricordo benissimo che una volta rimproverai la scuola per cosa non so e le dissi…ed io che ti ho visto pure crescere.
Poveraccia lei innocente, ed io patetica e lacrimosa, ma quando non si ha nessuno con cui parlare, anche un edifico va bene.