Autore Topic: la mia India  (Letto 1231 volte)

Birik

  • Mucca Cin Cin
  • *
  • Post: 470
  • Karma: +13/-29
    • Mostra profilo
la mia India
« il: Aprile 26, 2014, 12:49:52 »
 La mia India
Erano anni difficili gli ultimi cinque del mio matrimonio. Conflitti, ritorsioni, un rapporto che si trascinava nel caos. Io non ero forse in grado di troncare e avevo solo voglia di fuggire.
Il caso mi fa conoscere Elisabetta, che frequentava il Rajasthan da qualche tempo e dove andava regolarmente due volte all’anno, stabilendosi per un mese circa. In quel mese faceva confezionare gioielli, vestiti e accessori utilizzando materie prime meravigliose e poco esportate.
Era la mia occasione, partire e organizzare un piccolo commercio di cose uniche.  L’India mi aveva sempre attirato, avevo letto Forster, Kipling e molta letteratura sul subcontinente, mi ero fatta una mia idea; ma Jaipur e il Rajastan  apparvero diverse dal mio immaginario.  Situato a Nord Ovest era stato, insieme a parte dal Pakistan, la culla della civiltà della Valle dell’Indo, più antica di un millennio e non meno importante di quella Greca ed Egiziana. Assunse un’importanza strategica come rotta carovaniera sulla via della seta dove offriva anche imbarchi nei porti dell’attuale Gujarat . Poi invasioni e sovrapposizioni di culture, lo avevano fatto diventare un paese di guerrieri con meravigliose città fortificate tutt’ora ben visibili. Dal 1500 al 1700 circa ha vissuto un suo rinascimento sotto la dinastia Moghul che implementarono arte e architettura. La poesia e la danza, la musica e il canto, le architetture e i giardini, l’arte dell’intaglio, la miniatura e l’oreficeria sono il risultato di una spettacolare miscellanea di stili.   Poche donne vestono col tradizionale sari, molte usano gonne ricamate con specchietti e corpetti o choli. Le nomadi portano cerchi d’oro al naso collegati all’orecchio da una catenella. Gli uomini, alcuni molto alti, dritti come fusi e con la fierezza del guerriero Rajiput, hanno orecchini ad entrambe le orecchie e turbanti enormi che, a seconda del colore, denunciano la casta di appartenenza. Anche la musica è diversa, quella dei cortei nunziali poi è un frastuono di ottoni e tamburi che la fanno assomigliare al rock Balcanico di Bregovic. E  danze zingaresche accompagnate da  fisarmoniche, le donne con cinture di sonagli ai fianchi e cavigliere enormi. Il teatro dei burattini, che racconta un’epopea cavalleresca, sembra una rappresentazione di Pupi Siciliani, e l’accompagnamento della “tammorra” suona come il preludio di una tarantella. Diversa dall’India classica anche nell’ architettura che richiama quella Islamica, con profusione di archi a sesto acuto, colonnine e trafori; le case più belle poi sono tutte affrescate, alcuni intonaci addirittura arricchiti di specchietti. Su tutto prevale il colore, quello dei turbanti arancio o zafferano, dei salvar kamiz fucsia e turchese, dei sari verde elettrico o degli elefanti che camminano fra le auto tutti dipinti. La terra è rossa, le case rosa, i taxi gialli, il cielo di un azzurro accecante.  E poi immagini di deità dai toni fluorescenti, insegne multicolor. Il rumore di sottofondo invece è il risultato di centinaia di auto strombazzanti. Troppo, tanto da avere bisogno di un rifugio dai toni pacati e rumori sommessi. L’Arya Niwas era il nostro rifugio. Non era bello come le antiche haveli nobiliari trasformate in alberghi, ma molto pulito e dotato di un  buon ristorante self service.
 Eravamo ancora a Delhi, in attesa di prendere un autobus per Jaipur, ci saremmo fermate un paio di giorni nella capitale per dare uno sguardo  ai numerosi mercati della città. Una sera in un ristorante Elisabetta riconosce una persona che non vedeva da vent’anni. Abbracci e baci, chiacchiere e i racconti. Stanco del suo lavoro di imbianchino e di una vita banale a Nocera Inferiore, era partito alla volta dell’India dove era stato cinque anni presso un sadu, conducendo una vita di meditazione ed eremitaggio. Aveva imparato a far prevalere la mente sul corpo, a praticare la castità,  a non avere desideri e, anche se ancora non si infilava gli spilloni nella lingua, poteva fare il bagno alle sorgenti del Gange a vari gradi sotto lo zero. Forse però non tutto il corpo era gestibile, un’appendice si ribellava, non ne poteva più di subire mortificazioni. Era evidente che non tutti i desideri si potevano sopire, se quello di una donna gli martellava così forte un po’ ovunque. Decise dunque di salutare il maestro il quale, dopo un’approfondita lettura della mano, gli pronosticò la sua fortuna in America. Infatti poco dopo aveva conosciuto una ragazza del Nebraska e lì si era trasferito. Dopo vari tentativi come agricoltore e allevatore, aveva costruito un tempio indù sulle rive di un laghetto, accoglieva fedeli e la sua attività di vendita on line di statuette di Shiva, Krishna e compagnia bella, gli rendeva molto bene.
Era simpatico Angioletto, un’anima semplice con un modo di raccontare le cose che sembrava un attore di teatro dialettale, come quando rischiò di essere sodomizzato da un lama che voleva montare una pecora e lui per salvare la pecora si era trovato, cadendo bocconi, proprio alla pecorina a subire gli assalti dell’animale.  Ci faceva ridere fino alle lacrime, ma fu l’insistenza con la quale voleva far passare per vero un episodio che ci fece pensare fosse un po’ svitato. Era in Nepal con un amico, entrambi sdraiati su due lettini gemelli con un comodino in mezzo. Avevano fumato il famoso Nepalese blu quando all’improvviso tutt’e due in contemporanea, sentono di levitare. E levitano fino a quando non si toccano e cadono uno sull’altro nello spazio fra i due letti. Era troppo, cercavamo di spiegarlo come un fenomeno metafisico, ma lui insisteva. Aveva avvertito la leggerezza del volo. Ci lasciammo in allegria e per qualche giorno lo ricordammo, ridacchiando della sua ingenua ignoranza.
Arrivata a Jaipur e preso il possesso della camera, Elisabetta si elettrizzava, tirava fuori disegni e foto di tutto quello che le era piaciuto sfogliando giornali di moda. Pianificava la giornate e schizzava da un tagliatore di pietre a un orafo con la velocità di una trottola, io me la prendevo con un po’ più di calma. I suoi gioielli sono un misto fra India Moghul e Barocco Napoletano. Sontuosi ma ironici, necessitano di un bel temperamento per essere portati con nonchalance.
 Avevamo trovato al bazar una decina di sari antichi di broccato. Tessuti ormai rari, di seta con fili d’oro. Si decise di far confezionare delle shopping bags trapuntate per l’estate e, trovato il laboratorio, demmo subito istruzioni dettagliate e cartamodelli.
Così la mattina che avevamo l’appuntamento per controllare il campione della borsa, mentre facevamo colazione in giardino fra uccellini e scoiattoli, arriva Carlo  un amico che, come altri,  ritrovavamo nello stesso posto e nello stesso periodo dell’anno. Dopo i saluti di rito e i racconti di quei mesi nei quali non c’eravamo visti né sentiti, ci invita a salire in camera. Elisabetta capita l’antifona, si oppone con veemenza, con tutto quello che c’era da fare! Lui insiste io insisto, saliamo. Fumiamo un paio di canne ma dopo pochi tiri chiedo a Carlo di farmi stendere sul letto. Elisabetta idem. Ero in uno stato catatonico, non riuscivo al alzare neanche un braccio, la secchezza della bocca mi impediva di parlare e mille pensieri profondi mi giravano nel cervello. Sentivo il rumore del mio cuore nonostante il ronzio di sottofondo che mi frullava nelle orecchie. Ma non ero rilassata per via delle borse, mi stava salendo una paranoia da mancanza di senso del dovere. Con uno sforzo tremendo allungo il biglietto da visita del laboratorio a Carlo e gli chiedo di chiamare e posticipare l’appuntamento. Ero più tranquilla, mi volto verso la mia amica che era immobile, con gli occhi fissi al soffitto. Ad un certo punto non ero più pesante, anzi ero leggera, impalpabile, non mi sembrava di appoggiare sul materasso. Mamma mia, com’è possibile, doveva essere la mia immaginazione. Scaltramente metto una mano dietro la nuca per controllare se i capelli fossero perpendicolari al materasso. Lo erano. Mi riappoggio piano sul letto e torno in me. Era ora di pranzo, la faccenda era durata quattro ore che erano sembrati cinque minuti. Elisabetta era seccata per la mezza giornata persa e quando le feci un accenno a uno stato di leggerezza aerea, senza nemmeno nominare la parola levitazione che usavamo in maniera ironica parlando di Angioletto, lei mi fulminò con lo sguardo: ”Zitta, stai ZITTA!”.
 

presenza

  • Visitatore
Re:la mia India
« Risposta #1 il: Aprile 26, 2014, 14:53:29 »
Ogni paese ha un colore, ogni storia le sue parole...

nihil

  • Mucchine
  • Drago
  • *****
  • Post: 5581
  • Karma: +82/-73
    • Mostra profilo
Re:la mia India
« Risposta #2 il: Aprile 29, 2014, 07:41:55 »
brava, molto efficenti le descrizioni dell'atmosfera indiana, i suoi colori e la sua vitalità. Insomma dici che la lievitazione è possibile, o è solo un sogno?

Ho sempre pensato che un popolo colorato sia gioioso, e lo semba anche con le sue musiche.

Birik

  • Mucca Cin Cin
  • *
  • Post: 470
  • Karma: +13/-29
    • Mostra profilo
Re:la mia India
« Risposta #3 il: Aprile 29, 2014, 15:53:03 »
Credo sia uno stato mentale,  la mente ha però alcuni recessi per noi insondabili, non per i mistici Indiani.