La casa del 9
La casa aveva esaurito la propria utilità.
Questo pensiero accompagnava Naghib mentre appoggiandosi al bastone saliva per il sentiero che lo conduceva alla casa.
Già la vedeva di lontano, assisa in cima al poggio come se aspettasse ancora loro.
Ci mise almeno un quarto d’ora a raggiungerla, non aveva più i 15 anni di allora.
C’erano ancora le panchine davanti alla scalinata, dove loro si sedevano a discutere.
Si lasciò cadere su una di esse e cercò di recuperare un poco di respiro, mentre si accomodava la lunga tunica bianca, che indicava da sempre la sua etnia: il popolo dei boschi.
Guardò la casa attraverso gli occhiali: era ancora bianca, ma di un bianco smesso, intristito dagli anni, dalla polvere, dalla vecchiaia.
Quasi gli assomigliava, al parte il fatto che lui non portava i segni delle granate e delle bombe.
Da un angolo del tetto pendeva la grondaia, dalle finestre pendevano le persiane e il camino pareva avesse la gobba. Pendeva tutto, come lacrime in procinto di scivolare sulle gote di intonaco.
Naghib invece le lasciò scivolare senza vergogna: piangeva sui suoi ricordi, sulle persone che lì aveva conosciuto, su ciò che era stato.
In alto tra le finestre del primo piano spiccava quella scritta che al suo arrivo lo aveva tanto stupito:
La casa del nove. Gli era poi stato spiegato il significato. Nove stava per cinque continenti più quattro punti cardinali, a significare che quella sarebbe stata la casa del mondo.
Quarant’anni erano passati dal giorno del suo arrivo, con in tasca una borsa di studio per un non meglio specificato corso per violino.
Appena giunto aveva incontrato Aaron, con il suo nero e striminzito vestito, tipico del popolo della costa, suo nemico da sempre. Non aveva voluto nemmeno stringergli la mano, ma decise di tornare subito a casa, non poteva certo coabitare con un nemico, ci doveva essere stato qualche errore nell’organizzare quella scuola di musica.
Più tardi arrivarono Dyary e Tou, fratello e sorella neri come una notte senza stelle, che parlavano una lingua incomprensibile, ma anche loro armati di violino.
Toland giunse il giorno dopo, biondo e bianco come una nuvola di primavera, era chiaramente un figlio del nord.
Nei giorni successivi giunsero altri ragazzi, tutti muniti di borsa di studio, venivano davvero dai cinque continenti e dai quattro punti cardinali.
C’erano ragazzi delle terre deserte con i flauti, giovani orientali vestiti di sete colorate con i loro strumenti tradizionali:due bambini di circa 10 anni un poco spaesati parlavano la lingua dell’est ed erano i più spaventati di tutti.
Nahgib, che aveva deciso di andarsene, iniziò ad essere affascinato e incuriosito da queste persone così diverse tra loro, che parlavano lingue diverse, avevano strumenti noti o sconosciuti.
Venivano veramente dai cinque continenti e dai quattro punti cardinali, ma Naghib non avrebbe saputo dire se era un bene o un male, c’era in atto una guerra, questi ragazzi avevano solo una cosa in comune: l’odio uno per l’altro.
Passarono diversi giorni, i ragazzi mangiavano alla mensa il più velocemente possibile, senza parlare tra loro, anche perché non si sarebbero capiti a causa delle lingue diverse. Ritornavano nella camera assegnata loro, e lì stavano chiusi quasi come in prigione: avevano paura gli uni degli altri, i loro Paesi erano nemici, non era possibile fare amicizia ricordando quanti morti avevano procurato da ogni parte.
Erano anni che questa guerra era in atto, la maggior parte di loro era nata quando anche per i genitori era diventata una regola imparare a schivare le bombe e a seppellire i morti.
Non conoscevano altra realtà, si erano assuefatti, sapevano che un giorno avrebbero incontrato un cecchino o una granata ed erano consapevoli che morire domani era possibile.
Non avevano la minima idea di cosa potesse essere “il tempo di pace”, anche se i nonni a volte ne parlavano.
Naghib chiuso nella sua stanza sentiva un flauto che suonava e commosso da quella dolce musica, un giorno dette voce al suo violino rispondendo con note struggenti alla melodia che discreta e anonima attraversava le pareti.
Nessuno sapeva cosa stava accadendo, aspettavano che ad un certo punto arrivasse qualcuno o qualcosa che desse senso alla loro venuta alla casa del nove.
Accadde una settimana dopo: la domenica si presentò un signore che disse di essere il loro insegnante di musica. Parlava la lingua che di solito veniva usata sopra tutte le altre, una specie di lingua universale, che a mala pena permetteva loro di comprendere.
Disse loro che avrebbe ascoltato suonare ognuno di loro, uno alla volta, davanti a tutti, qualunque musica avessero voluto presentare.
E così fu. Ogni ragazzo aveva delle note dentro di sé e le condivise con gli altri.
Naghib cominciò a capire. C’era un linguaggio universale, oltre la parola ed era la musica. Essa travalicava ogni odio, ogni diversità, ogni ideologia.
Dopo mesi di studio della musica, avevano imparato a conoscersi, anche se non proprio ad amarsi, e a parlarsi attraverso gli spartiti. Ogni parola si trasformava in note, il dialogo delle sinfonie li univa, ognuno cercava di suonare al meglio perché la musica è un sentimento che sovrasta tutto, come un cielo. Ed il cielo non appartiene a nessuno, è di tutti.
Un giorno l’insegnante di musica e direttore d’orchestra, li convocò senza strumenti e fece loro la comunicazione che divenne storia: “Ragazzi, siete riusciti a suonare insieme, capite cosa vuol dire insieme? Bene porteremo la musica ai quattro punti cardinali, nei cinque continenti, avremo il mondo che ci ascolta e forse capirà che se amiamo la stessa cosa, in fin dei conti abbiamo lo stesso cuore”.
Il discorso fu lungo anche se semplice e chiaro. Ognuno si sentiva un messia di pace e iniziò a intravedere che ci può essere un altro modo di vivere, che non sia sotto le bombe.
Il rischio c’era comunque, non era detto che la loro illusione fosse completamente condivisibile, ma erano disposti a provare, in fin dei conti morire a causa di un missile, non era diverso che morire durante un concerto a causa di un cecchino o di un’azione di rappresaglia.
Naghib smise di guardare la casa, e guardò il sentiero da cui proveniva un altro uomo.
Non lo riconobbe se non quando fu vicino:”Ah, è arrivato il pianoforte, sempre fuori tempo come una volta, eh Hassan?”
Si abbracciarono in silenzio, battendosi la mano sulla spalla e con quel gesto abbracciarono gli anni passati, la loro gioventù, le speranze e le delusioni di una vita.
“Te lo sei ricordato, eh Hassan?”
“Naghib, come scordare? Avevamo promesso che ci saremmo ritrovati qui dopo quarant’anni, nell’anniversario dell’ultimo concerto. Chissà se verrà qualcun altro!”
“ Molti sono morti, ma qualcuno arriverà, voglio crederci1”
Parlarono a lungo, snocciolando ricordi, dolori e qualche gioia.
Ora arrancando salivano le due persone che erano state la tromba e le percussioni.
“Olà fratelli!”
Di nuovo furono abbracci, ricordi, considerazioni.
A sera i vecchi musicisti erano solo quindici sui quarantacinque che avevano partecipato alla grande avventura.
L’arpa, commossa come tutti, volle andare ad accarezzare il portone, si tolse un orecchino e lo depose sulla soglia, senza dire una parola. Allora tutti vollero imitarla, chi lasciò un bottone, chi un accendino, chi un fazzoletto, chi un pezzo di carta con scritto qualcosa. La musica era finita, ma lasciare un segno del loro passaggio sembrò essenziale. Qualcuno avrebbe raccolto un giorno quei segnali e forse avrebbe riprovato ad essere messaggero di pace.
Loro non ci erano riusciti, se non per il breve spazio di un concerto, l’unico che avessero avuto il permesso di fare.
Fu un grande successo, gli applausi sembravano non finire mai, ma al termine erano stati costretti a tornare ognuno nel suo Paese.
Connivenza con il nemico, sovversione, eresia, era stato detto. Tanti erano stati arrestati ed erano spariti dalla circolazione.
Si erano giurati di ritrovarsi 40 anni dopo nell’unica data certa che la loro memoria non avrebbe potuto scordare: 1 luglio 2050.
Perché 40 anni? Perché nella fretta era il primo numero che Naghib aveva urlato, mentre i gendarmi li spintonavano e strattonavano per caricarli sulle cammionette per rispedirli a casa.
Ora erano in quindici che guardavano quella casa che era stato un grembo per un’idea di pace, ognuno perso nei propri pensieri eppure dentro i pensieri degli altri.
Non si decidevano ad andarsene, sapevano che non si sarebbero più rivisti, lasciarsi era come se ognuno di loro morisse mentre salutava.
Si sentivano come persone che erano “già state” e non avrebbero potuto tentare nient’altro.
E poi apparve lei, Sa’ana.
Sa’ana con intatti i suo vent’anni, con i suoi sorrisi, la sua lunga treccia nera. Gli occhi di tutti erano su di lei, sgranati come quando si vede un fantasma.
“Salve, sono Tabhet, la figlia di Sa’ana. Lei non c’è più, ma le avevo promesso di venire al suo posto ed eccomi qui. Io suono la viola.”
Fu in quel preciso momento che capirono che ci sarebbero stati altri concerti; con nuove generazioni altre note sarebbero sbocciate. E forse qualcuno avrebbe capito.