E’ metafora triste che si fa poesia in prosa che, per dirla con le stesse parole dell’autore, “ s’inanella(va), s’inerpica(va), scende(va) in veloci curve buie dando corpo alle immagini”. Splendida quella del magico uccello.
E’ la storia di un “raccontatore di professione”, che è la storia di noi tutti che non abbiamo una vita tutta nostra, né le vite che raccontiamo sono vite vere. Lo diceva Cèline: “…uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia… È dall’altra parte della vita”.
E’ la storia del via-andante!
Di quelli che percorreranno una strada che non è viaggio. Il viaggio prevede una meta e un ritorno, e il percorso del viandante è invece senza meta ed è esclusa ogni possibilità di ritorno. Si può andare avanti così, inconsapevoli, se un giorno, dal fondo nascosto di un cervello non sorge il desiderio di una vita propria con diritto alla felicità: è “la tentazione”, a cui seguirà la condanna se non succede che un immancabile oblio si incarichi di cancellarlo, il sogno. E quando ciò non avviene, ne residua un vago, angoscioso vuoto, l’amaro sapore di un destino legato all’angoscia del non riconoscersi. E’ l’angoscia del vivere nel deserto di sé che inaridisce.
“Aveva osato sognare”, e ora “contemplando l’infinito, cap(iva) che nessuna felicità o morte ha un nome vero”.
Complimenti a nihil